Una “Rispettosa entropia”
Ma, ecco, è nell’anno della nuova decade del secolo XX che la difficile situazione economica e la crisi istituzionale preparano il terreno per quei disordini che getteranno nel caos l’Impero. Si avvertì il sopraggiungere di nuove forze centripete, le quali, chiedevano a gran voce le dimissioni di un governo esautorato d’ogni autorità e privo di consenso.
Il decadimento si diffuse nelle periferie dell’impero, con la scomparsa delle belle lettere. Come un morbo, il decadente involversi del chiaro esperire, si diffondeva anche nelle arti liberali e i casi di eresia aumentarono.
La nobile ragione, maestosa nella sua semplicità, per alcuni parve vaga abbastanza per essere considerata.
Si vollero allora aggiungere nuovi orpelli così da acconciarne meglio la figura ma essa, la ragione, non pareva trarne alcun giovamento che anzi, con quell’introdurre ancora e ancora giustificazioni, ammiccamenti, compromessi, fabbriche di vane metafore e contorti concetti, si rendeva solo più ammirabili ai suoi detrattori.
Il tormento della scelta fu lasciato alle singole persone che, dopo aver barattato ogni criterio personale con una universale concordia passiva, si trovarono sole e prive di punti di riferimento. In quel momento, in balia di vicende straniere, sopravanzanti, molti di quegli inanimati caratteri si arresero alla soverchiante legge immacolata del rispetto assoluto verso ogni convinzione, ogni fede. Il risultato aveva visto la nascita di una polifonia incomprensibile, seppur ligia al disegno ecumenico dell’individuo, che seppur integro, era impossibilitato ad esprimersi nella sua intima naturalità. Erano rispettose leggi astratte, che soggiogavano le assuefatte popolazioni.
Il divieto assoluto di esprimere un qualsiasi orientamento ideologico e culturale, propedeutico al completo rispetto verso tutti, costringeva all’inazione e all’auto-soppressione di ogni pensiero, pena la colpa di aver, anche potenzialmente, offeso una qualsivoglia sensibilità altrui, sensibilità peraltro ormai scomparsa.
Proprio quelle spinte, quei sovvertimenti stranieri, come una incalzante onda tellurica, consentirono una decisa inversione a quella abitudine depauperante. Ogni inerzia cominciò a palpitare e dove prima era stata convenienza rassicurante là sorse quell’ansia necessaria all’avvento del Thauma.
Un indistinto moto di disagio, evolvendosi in una corrente e, via via, in una immensa ondata, squassando ogni ordine costituito, condusse alle carceri ed al supplizio tutte quelle vittime sacrificali che incontrava lungo il suo cammino.
E fu così che il caos ebbe seguito in un popolo innumerabile per intendimento che non poté innalzarsi oltre alla meschinità. Venne coniato in questo periodo il termine di “Rispettosa entropia” per definire la condizione che si era venuta a creare.
Sentenza
Si legge in un avviso stampato in quei giorni: “Dal santo tribunale dell’illustrissimo giudice, rappresentante di quel popolo offeso che esige la giusta mercé. Al reo, plagiatore di individui, si conferisce la condanna a morte per via di esposizione delle triste membra alla pira procurata da catasta di legname, composta da rami secchi d’ulivo, alla quale si darà fuoco, dipoi, al termine della divorazione dell’infame colpevole ad opera della fiamma vorace, le restanti ceneri del meschino saranno disperse lungo i condotti fognari. Al suddetto supplizio sarà invitata la popolazione e in special modo di quelle famiglie che abbiano bambini affinché venga a farsi salda la fede in ogni nuovo virgulto. E così quindi morirà colui che, con subdola perfidia, ingannò, con il miraggio dell’ecumenismo, ogni animo semplice, anche dipoi la fede istessa che lo vide vilipendere con sacrilega parola, moltiplicata nelle sue declinazioni, confondendone senso e significato. Diffidiamo allora colui che voglia ancora perseguire una siffatta abitudine, che la popolazione tutta, la quale non potendo più soffrire un tale eccesso, si impegnerà in ogni dove a scoprire il sacrilego trasgressore, acciò ricevesse la pena ben dovuta alla gravezza di così enorme delitto”.
Con Giusta Causa
Il 3 settembre del 1910, a seguito dall’improvvisa morte dell’imperatore Alarico Petrus Sabbatius detto il Savio, si era venuto a creare un vuoto di potere. Un governo guidava l’impero in quegli anni, costituito da figure ambigue, oscuri notabili che avevano preso repentinamente nelle proprie mani la gestione della cosa pubblica, auto eleggendosi in Giunta Imperiale Pro Tempore. Rivolgendosi ai sudditi con il proclama “Con Giusta Causa” essi facevano pubblicamente richiamo al mandato conferito espressamente dalla provvidenza e in conformità con le leggi imperiali per «assistere alle necessità e al sacro bene dell’Impero».
Per adempiere in pieno accordo a tale compito la Giunta Imperiale Pro Tempore istituì le sezioni di governo specificamente dedicate alle strategie dell’Impero che si ordinavano in: Economia, Educazione, Guerra e Interno.
Certamente, l’Impero, sotto la guida di Alarico Petrus Sabbatius, aveva rappresentato un sistema stabile di valori e credenze, una dottrina alla quale i sudditi si erano devotamente affidati. Per coloro che si erano identificati con i principi e le convinzioni dell’Imperatore, quella morte fu percepita come la conclusione di una parte significativa della propria esistenza. Nasceva nella popolazione dell’Impero la volontà di dare un preciso segnale, si chiedeva un governo forte. Un governo che sapesse guidare l’Impero con decisione e rettitudine, si chiedeva a gran voce un nuovo Imperatore.
Nelle città dell’Impero si ravvivava il ricordo dell’Imperatore.
Nell’impero, in quei giorni di grande vuoto, si volle celebrare Alarico Petrus Sabbatius per ricordarne l’illuminato comando. Vennero istituiti suffragi alla memoria. I suffragi agivano da benigna luce di riconoscenza quasi a voler illuminare la memoria del beneamato Imperatore e della di lui anima immortale affinché fosse consolata di tanta riconoscenza.
E così, in ogni città dell’Impero, alle sue commemorazioni, accorsero numerosi pellegrini che, rivolti al suo spirito, invocavano aiuto e protezione.
Romerinus, nel suo testo “L’ultima scelta” scriveva: «Nel corso di codesto tempo, tempo di compromessi che dilava qualsivoglia fede e, dipoi, pregiudica ogni virtù, gli alfieri solerti che diffondono tal mercimonio, affossano lo spirito del progresso. Ed è così che si va radicando la costumanza di esaltare, pubblicamente o per mezzo dei circoli e delle sette, che sen vanno cospirando nella fanga, quei valori massimamente condivisi, così da poter delegare a capziose norme che conformano, mediante un’apparente ecumenica regolamentazione, ogni specificità originale.
L’espressione più manifesta si trova nella obbligata “scelta” di condividere, in egual misura, tutte le convenienze che ogni caso rivendicasse al suo guadagno, tal che, la taratura delle equivalenze, porterebbe a procedure capziose che vogliansi adottare, sempre più minuziose, sillabiche unità strettamente intrecciate, ad uno svolgimento incongruente e immobile per sua stessa natura».
In una chiara analisi esegetica, Agapeto definì la consistente discrasia di proponimenti, apparenti soluzioni, impossibili procedure: «Tal spiegazione, quella cioè della evidente convivenza forzata di infausti errori, avrebbe dovuto portare ad una nuova concezione di tali norme, riordinata e fissata in un nuovo e risolutivo testo. Ma nulla si fece affinché si addivenisse ad una miglioria, tanta era l’inerzia che opprimeva l’anima d’ogni individuo, ormai incapace di affrontare in prima persona una qualsivoglia responsabilità. Oltre l’altrove, dove le pene cessano per consunzione, decreti, costituzioni e norme si dissolvono in un magma assorbente».
Lo smarrimento
La crisi, che si andava manifestando, aggiungeva ulteriore forza al gorgo del disordine che avvolgeva nelle sue spire l’Impero Stoico. Molte sette stavano fiorendo, si trattava di movimenti che si ispiravano alla filosofia epicurea. Gli adepti erano molto spesso quelli della stessa élite dirigente che era stata coinvolta dal grande scandalo delle compravendite di titoli nobiliari. Il vergognoso fatto era venuto alla luce dopo che, alcuni mancati nobili, ai quali erano state promesse qualifiche e vantaggi in cambio di denaro, si erano visti negare tali privilegi. La denuncia si era abbattuta come un maglio su ministri e grandi maggiorenti, oltre che svariati capi spirituali, che accusati, erano stati costretti a dimettersi. Un sordido mercato che sviliva quel valore morale tanto importante nell’etica stoica. Ogni ideale lasciava il posto a un nuovo stile di vita, cesellato sul completo soddisfacimento del proprio ego, un assunto nutrito dall’esaltazione delle cose effimere. Tale pratica rivelava, nella classe dirigente, un cambiamento profondo, inatteso.
Quando vennero divulgati i nomi di alcuni fiancheggiatore e simpatizzanti del movimento epicureo, dall’opinione pubblica, tornò a chiedere a gran voce che venisse deposta la Giunta Imperiale Pro Tempore. Il presidente della Giunta, astutamente, considerò di rinvigorire quelle promesse fatte in occasione dell’insediamento – le quali avevano lo scopo di rinsaldare la fiducia del popolo verso la nuova classe dirigente a scapito dei detrattori, i presunti eredi dell’Imperatore – con una importante rivelazione, a tutto vantaggio della propria difesa. Egli affermò che un’inedita circostanza, al limite del miracoloso, insieme ai componenti della giunta, era venuto a conoscenza dell’esistenza di un testamento segreto, redatto dall’Imperatore prima della sua morte.
Maschera
Johann Sender Mild, nella sua opera “Devozioni” del 1912, scriveva: “La figura dell’anima nostra, la quale rappresenta la maschera di sé stessa, realizza un sovvertimento dei parametri nella sua visitazione del mondo, consumandosi nello spazio e nel tempo. La maschera, anima dissimulata, interroga le tre invenzioni cardinali: la prima è la delicata detenzione del criterio che dello spazio si avvale, la successiva tendente all’insana espressività, verso quell’arco teso che mira al futuro, è portata a proiettarsi oltre sé stessa, qual orbita infinita, e in ultimo avviene in proposito su una incantata tessitura, persa nell’evento, la decisiva indicazione, esito dell’ultima esteriore criticità che operiamo sul vindice spasmo di vita”.
Il testamento
Pochi giorni dopo la dichiarazione, il testamento venne ufficialmente consegnato dalla Giunta Imperiale Pro Tempore al Palazzo del Congresso. Alla presenza dei notai imperiali e del Governatore si procedette alla lettura.
Io sottoscritto Alarico Petrus Sabbatius Imperatore Stoico, consapevole che la mia esperienza terrena volge al termine, detto le mie ultime volontà.
Voi che siete il mio popolo, la mia bandiera, voi che mi avete curato e onorato con la vostra fedeltà, sarete gli esattori e i giudici del mio testamento. Perciò, considerando che da questo mondo dovrò presto congedarmi vorrei invitare tutti voi a rinnovare nell’animo quell’immensa fede stoica, speranza e guida sicura di tutti noi. Chiedo questo ad ogni persona che ha condiviso con me l’amore per l’Impero. Fortificate la vostra fede poiché la maggior parte dei nostri detrattori viene ad aggredirci ormai con impenitente violenza.
Mi rivolgo a voi affinché vogliate risolvervi a rinunciare ai dettami della filosofia che ammala questo nostro secolo. Mi riferisco alla stolta fede epicurea che tanti giovani va traviando, e chiedo a voi di rimettervi sulle orme di ciò che detta e consiglia l’onesta ragione, e su questa via assestatevi con posa temprata, vigilate in essa contro le frane minacciose restando ben saldi nel nostro comune credo. Di questa vostra determinazione rilucete nell’occhio e affinate la temperanza nel pensiero. Siate d’esempio nell’opera, giusta sia la vostra coscienza e il cuore, siate quindi degni testimoni della fede stoica.
Perdono ogni biasimevole condiscendenza che le anime più deboli hanno voluto profondere per le lusinghe della fallace fede epicurea. Non voglio siano decretati alla mia memoria pubblici onori che risulterebbero fatali alla coerenza per il nostro credo.
Destino per ogni nato nell’Impero il quale considero erede di sangue, quel patrimonio che custodii con rispetto reverenziale.
Essendo la mia volontà quella del popolo tutto e siccome io, volendo ravvivare negli animi di questo grande popolo, il verace affetto ed amore verso lo stoico comportamento, sancisco che ogni merito che aggiunga onore alla sacra fede, venga altresì riconosciuto con glorie ed onori. E dipoi, per contro, chi saprà provocare sdegno alla mirabile opra stoica, sia esso ed i suoi seguaci, destinato a inesorabile e giusta punizione.
I tetragoni
In quelle giornate così dense di sconvolgimenti nacque un grande movimento. Quella fede nell’Impresa stoica, generatrice di civiltà, fu l’innesco che diede origine al nuovo movimento. Un clima culturale di rinnovato spirito stoico, diffuso in tutti i territori dell’Impero coinvolti nel conflitto sorto con le classi dirigenti locali e centrali, si era riconosciuto in un movimento. Il 10 maggio del 1910, presso le miniere dismesse, alla periferia nord della capitale, riunte le principali rappresentanze dei movimenti che chiedevano un cambiamento nella classe dirigente, venne fondata la lega dei Tetragoni. Il grande spirito che muoveva gli animi indignati di molti stoici si andava forgiando attraverso l’azione maieutica prodotta dall’esaltante rivalutazione del Thauma. Tale forza creatrice, azione sorgiva, impegnava i tetragoni nella ricostruzione della sacra verità in un confronto ardito e leale con la potente Ananke. Si erano alfine scosse quelle anime, per tanto tempo intorpidite, tanto da divenire insensibili alle naturali forze della natura. E fu ricerca spontanea e sincera di un potente stato emozionale, un afflato capace di ricongiungere l’anima alle forze primarie della natura per una radicale rigenerazione.
L’intento
La nascita e la diffusione di quel linguaggio “che trasformerà il mondo” richiederà che colui che ne sarà il rappresentante sia “primus inter pares”, provvido di empatia, sia giusto e autorevole nel definire i suoi primi enunciati. Esso inizierà quando, forgiato dal senso della sua missione, genitore e figlio della sua stessa nazione, del suo impero, creerà un “modello” da cui sarà mutuato il novo “individuo”, ossia la persona dalle infinite qualità. Nel mondo, sia forza imprevedibile, una potenza che doni per poter crescere. Il fruttificare della reciproca particolarità si offrirà al servizio della causa, mattone per la più grande costruzione, quella di una grande complessità comune.
Nella fase di transizione dell’Impero, successiva alla morte di Alarico Petrus Sabbatius, si attuò un prolungato sforzo propagandistico volto a consolidare l’immagine di un paese immune dal declino, soprattutto negando quello attribuito all’influenza dei movimenti epicurei.
Di carne sono i fatti, nelle ossa è la nostra storia
“Noi, membri della Giunta Imperiale Pro Tempore, ci rivolgiamo ai popoli dell’Impero, per offrire a loro il proclama –Con Giusta Causa– redatto per giovare a quelle nascenti paure e a quel sentore di disfacimento. La grave ora, quale la storia non conosce l’eguale, chiede a gran voce di dominare le passioni e fare dell’Impero un sol individuo, un solo spirito, per raccogliere la sfida di un destino infausto e per indicare ai nostri cuori la retta via. Siamo convinti che tutti insieme sapremo affrontare questo nuovo nemico. Noi orfani ci prepariamo fiduciosi e forti”
La Giunta Imperiale Pro Tempore, istituita in seguito al proclama “Con Giusta Causa” fu composta da una limitata minoranza di quelle élite che avevano rifiutato le lusinghe epicuree, e venne percepita come un argine contro la decadenza e il pessimismo. Si presentava come una vittoria per l’intera popolazione contro l’inarrestabile disordine.
Lazario Auro, Il tetragono, 1910, olio su tela. Likes Art Gallery
Questa rappresentazione idealizzata, necessaria per ricostruire l’identità stoica del periodo post-imperiale, basata sui principi del rinnovato stoicismo, comportò, di contro, il depauperamento del diffuso consenso che l’Imperatore aveva guadagnato in vasti settori dell’Impero. Tra l’ottobre e il dicembre del 1910, in seguito al crollo della fiducia, il movimento dei tetragoni organizzò manifestazioni e adunanze in tutte le più importanti piazze dell’Impero.
L’invocazione che il quel tempo caratterizzava i nuovi movimenti, ovvero: “Di carne sono i fatti, nelle ossa è la nostra storia!”, palesava un profondo bisogno mitopoietico, era una formula catartica che voleva trasalire il sentimento di soffocamento di un tempo ormai straniero che sovrastava il personale pensiero progettuale e quindi la speranza di un possibile futuro.
Era il vissuto di quel trauma, così radicale, che si incarnava nella fine di un credo che aveva fino ad allora guidato e protetto la società, l’Impero, in quella fase di transizione, si era mostrato in una veste diversa, ambigua, contraddittoria. Le generazioni che erano nate sotto quella fede si erano viste privare della speranza. L’incapacità a dare un senso agli accadimenti rappresentava però anche un potenziale creativo, uno stimolo per penetrare la storia con una più solida consapevolezza e una riconquistata responsabilità. Ci si trovava ad un bivio dove le scelte avrebbero potuto dissolvere definitivamente la società e di conseguenza l’Impero oppure innescare una risposta volitiva, e questo è ciò che avvenne.
Si vollero scuotere quelle anime intorpidite con esemplari manifestazioni cariche di coraggio e di abnegazione. Si vollero abbattere quei muri esistenziali che imprigionavano gli individui negando loro una qualsivoglia reazione. Si disse: “disseppelliremo ogni dormiente imprigionato ridonandogli la vita”.
Vennero in principio assaltate le sedi della rappresentanza del confinante impero epicureo, imputate di sobillare malcontento e diffamazione della fede stoica presso le più derelitte fasce della società, quelle che più di ogni altro subivano le pesanti conseguenze della crisi istituzionale. Erano quelle che la fame dilaniava con morsi feroci. I governanti erano impotenti perché ormai privi di credito. Gli incidenti e la conseguente distruzione delle sedi consolari epicuree ebbero un seguito importante, il governo imperiale epicureo sollevò formali proteste presso l’impero stoico con la minaccia di un intervento armato a difesa dei propri presidi.
I bagliori nel tramonto
La fase terminale dell’era di Alarico Petrus Sabbatius, agitata da disordini e disillusione, venne stigmatizzata dal Governo Imperiale Stoico al punto tale da arrivare ad ordinare il silenzio di ogni Amministrazione locale, la quale, in caso venisse interpellata sulla più grave delle fasi vissute dall’Impero, avrebbe dovuto negare, garantendo l’ottimo stato delle istituzioni, pena pesanti “sanzioni” o il più efficace dei “rimedi”, la morte. Questo stato di fatto si tradusse, attraverso l’equiparazione del silenzio all’assenso, nella perdita del potere di dissentire e di impedire la libera espressione. Con decreto imperiale del 6 ottobre 1909, venne istituita una Commissione, allo scopo di suggerire i più risoluti mezzi, onde rimediare alle gravi rivolte che avevano portato alla crisi con l’impero epicureo. Quella Commissione, il cui presidente era l’illustre Agapeto, aveva disposto il divieto di raduno per gruppi superiori a tre individui. Attraverso la formazione di un nuovo corpo di guardie denominate “Allaccianti”, il quale operava con un sistema di spie infiltrate nei vari movimenti di protesta, con l’obiettivo di individuare i capi delle fronde ribelli. Intento nel difficile compito di ristabilire l’ordine, in ragione del pacifico culto, garantendo la convivenza alle più diverse divinità e a garanzia della libera professione di fede, Agapeto, venne stato accusato di voler degradare l’Impero, trasformando la fede in pura mercanzia, disconoscendo quindi la vera e unica fede stoica.
Agapeto
Mentre la prudenza delle leggi permetteva all’Impero di sperare in una futura felicità, molti e gravi disordini ne affliggevano il prestigio. Il generale malcontento, cresciuto dopo la morte di Alarico Petrus Sabbatius, aveva convinto la travagliata Giunta Imperiale Pro Tempore a cercare un nuovo possibile imperatore, una figura che fosse al di sopra delle fosche vicende che caratterizzavano il tempo recente.
E i gravosi compiti divennero insostenibili quando, sentendo che la prima regione dell’Impero si era sollevata in armi, vennero chiamate a raccolta le schiere dei costanti e fedeli. La chiamata non ebbe l’esito voluto, le forze attese si rivelarono inesistenti, chiaro era il segnale, e oscuro il destino che attendeva il governo della Giunta Imperiale Pro Tempore.
Scriveva in quel periodo Agapeto: «Il mio destino contrasta con il dovere al quale ero stato fedele fino ad allora. Voi, in verità, vi sollevate in nome di un rivendicato onore che vi spetta, imperciocché non sarò certo io a dividere i padri dai figli. Quando i leoni odorano il lezzo della carne avariata sanno che è l’ora degli sciacalli.
Chi fino ad oggi era devotissimo alla Giunta Imperiale, tanto da approfittare delle commissioni di una favorevole trama, oggi questua altre glorie. Questi improvvidi servitori del destino che ora li attende al varco, celebrano proclami disfattisti. Ora, chi vuole negare che un fato ineluttabile si compiace di fare e disfare per un insondabile scopo e che mai svela quali siano i giusti propositi?”.
No
Si volle negare che in quel mondo di disconoscessero le congiure continue: molti di quelli chiamati consultatori, quelli di giurata fede all’Imperatore, disaminando in vari modi le macchinazioni che, seppur negate ufficialmente, erano causa di sommosse nelle regioni periferiche dell’Impero, si adoprarono per porre rimedio al mescino andamento.
E mentre i dubbi, dovuti all’incomprensione di quali fossero i problemi di una società che si andava disgregando, impedivano alla Giunta Imperiale di controllare le dinamiche alla base delle tante rivolte in corso, si accrescevano le forze del nemico in seno all’Impero; le pratiche delle sette epicuree erano attivissime; molti alti funzionari, rappresentanti delle élite intellettuali dell’Impero, cospiravano con altri oscuri figuri prevedendo una ormai prossima caduta del governo imperiale. Tra i sovversivi catturati durante una di quelle sollevazioni, a un tal Carnelisco, capo di una setta che operava già da molto tempo, in particolare nelle scuole più esclusive della capitale, venne rinvenuto un promemoria che diceva: «Faremo sollevare l’Impero condannato dal suo degrado affinché ogni suddito abbia a vincere il clinamen, accetti la casualità e si convinca di essere svincolato dalla necessità. Basta con il meccanicismo! Liberiamoci dalle vecchie superstizioni e dalla predestinazione. Seguiamo orsù le nostre legittime passioni!».
Lazario Auro
Vi furono però anche voci critiche interne alla società stoica. Il giudizio di un importante artista che lavorava presso la capitale, il pittore Lazario Auro, suonava imperioso e scuoteva gli animi.
Affermava Auro: «Tutta, la perfidia che imputiamo ai dissidenti non è forse nata da un rancoroso disappunto che abbiamo maturato, per non essere riusciti a convincerli delle nostre idee così indiscutibilmente giuste? Eretici acclarati pretendevano che noi dovessimo pagare con grandi pene perché, dicono, abbiamo violato i giuramenti onde eravamo legati alla sacra fede. Tali giuramenti ritenuti erroneamente immortali sono per noi altresì illegittimi, ostili al vero potere. Vada pure la mendace giustizia della corte a ricercarli. Forse a coloro si appaleseranno con maravigliose legiferazioni si vorrà ancora credere. Ma non ha quelli come noi o da noi strappati alla patria sarà permesso, con la parola o con la spada, d’obbligarci a credere.
Ostentate pure voi che siete nominati veri, esistenti, reali, quei legami che altro non sono che forzate illusioni. E ricordate che mai i giuramenti fatti a forza potranno obbligarvi a sottomettervi ad un tiranno». Auro realizzò diversi disegni che trattavano il tema della rivolta e dei disordini dove, spesso, si trovava a lavorare. Era convinto di riuscire nel suo intento, quello di rappresentare il fatto nella sua essenza proprio mentre ne si viveva lo svolgimento. Proprio questa sua scelta ne determinò la morte. Fu infatti durante uno degli innumerevoli disordini che venne colpito in pieno petto da un colpo di fucile che ne determinò la morte istantanea. Era il 3 settembre del 1910, lo stesso giorno che vide la morte dell’Imperatore.
Un imperativo
Dagli scritti di Basileides B: «La lingua si doveva piegare alle inderogabili esigenze della verità, questo il pensiero propugnato da noi, i Tetragoni.
Il Logos, parlato dai Mari alle Terre del vasto Mondo, sarà nei risorgenti Tetragoni il luogo dove volgere l’esperienza al servizio della verità che la fede ci dona. Essa, la verità, erra e si slancia oltre i suoi confini. Alla lontana sponda del dimenticato tempo, assoluta e sinistra, la caotica e ingannevole illusione conta tra le sue file alcuni ancorati idolatri.
Alcune delle sette vivono come coloni nel governo del miraggio eracliteo. La lingua loro di scarna grammatica e anco di più povera sostanza nella figurazione retorica vorrebbe impadronirsi dell’Universo intero.
La modellazione del fatto verace, che se ne può dedurre, sembra avvicinarsi a quella distorsione che questa proposizione adottata presentata oggi, dì come soluzione alle avversità della vita si assicura come la migliore scelta, ma il nostro discernimento ci fa intravedere che allora dovevano essere pochi gli schiavi della ingannevole fede epicurea, infatti, tranne nelle grandi città dove maggiore era la disciplina e il vero credo stoico era forte, nelle lontane terre delle colonie dell’Impero, tali moltitudini si rivelavano numerose e crescenti. Ciò premesso, tutto rientra nei limiti del probabile; perché essendo tali schiavi poco capaci alla propaganda e ancor meno all’organizzazione militare, possono considerarsi né più né meno di un terreno incolto, uno spazio che darebbe mano libera alla peggior disgrazia, la gramigna, e, cosa ovvia, allor quando irregimentati, essi, con ordine e disciplina stoica nella quale fossero educati, offrirebbero un gran numero di uomini capaci delle armi ma altresì ottusi».
La buona coltura
Scriveva Romerinus: «Non, quindi, dal vicendevole sdegno derivavano le migliorie che invece offrirebbero le bonifiche di quei “campi incolti”. Non, dunque, andranno sollecitate morti per condanne o vendette, inutili e cieche, a danno di inetti e d’innocenti ingannati, ma campagne di educazione ineludibile alla vera fede, al giusto pensiero stoico. Assunti i primitivi caratteri, abbisognerà cercare il senso della fede che abita nella comunità dell’Impero esplorando l’interno d’ogni cuore.
L’insensatezza delle anime schiave del miraggio epicureo non è però irrimediabile; alcune speculazioni, se acconciate a modo, mitigano e correggono poi quelle difformità. Procedendo con una bonifica e un rassodamento delle mentalità selvatiche, e dopo la coltivazione di dette aree con lezioni pervicaci e di chiarissima esposizione, oltre il cercare d’incoraggiarvi l’interesse, potrebbe ancora far divenire quell’anima rinselvatichita un territorio ricco e ridente, salubre e fruttuoso, come dovette essere stato ne’ tempi antichi. Né curiosità di fossili concetti, né cose utili alla superficiale attesa vi si osserveranno più, e di ciò si dovrà tener da conto per dipoi favorire una rigogliosa fruttificazione d’anime sane e forti.
Sarebbe temerità assegnare l’immediata fiducia alla specie di queste povere anime che, per lo scarso uso dell’onestà che esse praticano, si rivelano sospettose. Con esse si può parlare delle migliori pratiche stoiche con una chiara descrizione dei modelli da assumere. L’incertezza che regna intorno alla giusta opera dello stoico pensiero proviene, per avventura, dal non essersi mai veduto in quei loci abbrutiti, l’esemplare filosofare della disciplina stoica».
Come si può esercitare il comando nella maniera più efficace se non soggiornando nelle proprie terre? Spronare il pericolante animo del popolo così provato dagli sconvolgimenti del secolo, a vivere non in costrizione o in fuga ma nella sua naturale area di espansione è, in fondo, il tema principale di questi anni. Il titolo della esortazione di Romerinus, “Esercizi di comando”, che si proponeva di trattare delle «cose destinate alla vera sapienza e di quanto sia meglio conoscerle per averne più consapevolezza», riassume il proponimento di tutti i Tetragoni. Il processo cognitivo assume un doppio significato, poiché si tratta, a un tempo, di sorvegliare il lavoro effettuato dai dettami stoici e di assumere gli stili corretti della vita naturale.