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Il Vessillo. Inno popolare. 1847

    Il Vessillo, inno popolare di Magazzari e Sterbini. 1847
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    « di 7 »

    IL VESSILLO
    offerto
    DAI BOLOGNESI AI ROMANI.
    INNO POPOLARE

    espressam te composto all’Unisono per Coro e Banda Militare
    dal Maestro

    GAET.° MAGAZZARI[1] BOLOGNESE

    Sopra Poesia di Pietro Sterbini[2] Romano

    Cantato in Roma dal Popolo il 17 Giugno 1847. Giorno anniversa=
    rio dell’Esaltazione di S.S., mentre si portava a Monte Cavallo
    per ricevere la Benedizione data dal Sommo Pontefice

    PIO IX[3]

    Ridotto dallo stesso Autore con accompag.to di Pianoforte

    E DEDICATO A S.E. IL SENATORE DI ROMA

    PRINCIPE ORSINI[4]

    Generale della Guardia Civica di Roma
    alla quale fù consegnata la Bandiera.

    Con diritto di proprietà      Prezzo baj. 30.

    ROMA

    Presso Scip. De Rossi e C. , Via del Corso N°. 139 . 140 .[5]

    interno:

    INNO

    Scuoti, o Roma, la polvere indegna ,
    Cingi il capo d’ alloro e d’ olivo ,
    Di tuo canto sia canto giulivo ,
    Di tua gloria la luce tornò.

    Quel vessillo che Felsina invia
    È di pace l’augurio beato ,
    È il segnale d’ un patto giurato
    Che il fratello al fratello donò.

    Delle Trombe guerriere lo squillo
    Di Quirino la prole destò ;
    Salutiamo il fraterno vessillo
    Che superbo sul Tebro s’ alzò.

    Sotto l’ ali dell’ aquila altera
    Che aspetta sul colle Tarpeo ,
    E vicino di Mario al trofeo
    Quel vessillo piegato starà :

    Ma nei giorni d’ infausto periglio ,
    Contro l’ ire di perfido fato
    Quel vessillo fraterno spiegato
    La speranza di Roma sarà.

    Delle Trombe guerriere ec.

    Dio possente che muovi la terra
    Come foglia rapita dal vento ,
    Tu spavento, Tu fulmine in guerra ,
    De’ tuoi figli la gloria sei Tu.

    Dio possente il tuo popol difendi ,
    Tu di PIO Io ricuopri col manto ,
    Tu di santo valore l’ accendi ,
    Tu ridesta le patrie virtù.

    Delle Trombe guerriere ec. (fonte) e (fonte)


    Note

    [1]Gaetano Magazzari (1808 – 1872), pianista. Insegnante di pianoforte al Liceo di Bologna, compose melodrammi e romanze, musica strumentale e inni patriottici. “Vogliamo invece far molti rallegramenti e tributare moltissima lode al giovane maestro che in questa composizione ha mostrato quanto egli sia innanzi nella scienza del contrappunto e di quanta delicatezza ed insieme energia di sentire egli sia dotato. E questo basti, perché il dire paratamente di quella musica che già gli intelligenti hanno trovato cospersa di molle gaie e sublimi bellezze, sarebbe cosa da non finirsi così tosto e sì di leggieri” (Teatri Arti e Letteratura 23 aprile 1840).

    La prima e vera larga fioritura di canti ed inni popolari veramente aderenti alle necessità ed agli impulsi del momento, sgorgati all’improvviso sotto lo stimolo delle idee e degli avvenimenti, si ebbe nel 1847. Il primo inno nazionale a Pio IX fu quello del giovane musicista bolognese Gaetano Magazzari, su versi di Filippo Meucci: Del nuov’anno già l’alba primiera / Di Quirino la stirpe ridesta, / E l’invita alla santa bandiera / Che il Vicario di Cristo innalzò. La poesia non era di certo un capolavoro e la musica del Magazzari, non priva all’inizio di sincero slancio melodico, s’afflosciava verso la fine su ricette comuni ed insignificanti che smorzavano ogni effetto. Ma il popolo non guardava tanto pel sottile e s’impadronì tosto dell’inno e lo cantò, tra squilli di trombe e rulli di tamburi, con indescrivibile entusiasmo; e non solo a Roma, ma in ogni angolo della Penisola. Un altro inno del Magazzari, su parole di Pietro Sterbini, fece rimbombare per parecchio tempo la piazza vaticana: Scuoti, o Roma, la polvere indegna, / Cingi il capo d’alloro e d’olivo… La musica era ben povera cosa e ancor più triti risultarono gli altri inni in onore di Pio IX composti dal Magazzari in numero strabiliante. L’Austria non tardò a comprendere perché gli italiani s’eran messi a celebrare con tanto clamore, nelle piazze il Pontefice proibì gl’inni e le canzoni del Magazzari, che avevan ben presto invaso i territori ad essa soggetti. (Alberto Serra-Zanetti)

    Testi tratti da ‘Un mondo di musica: concerti alla Società del Casino nel primo Ottocento’, a cura di Maria Chiara Mazzi, Bollettino del Museo del Risorgimento di Bologna, 2014; ‘Bologna, rivista del Comune a cura del Comitato bolognese per le celebrazioni del 1848’, numero speciale della rivita del Comune “Bologna”, Comune di Bologna, dicembre 1948.(fonte)

    [2]Pietro Sterbini. Nacque a Sgurgola, nel Frusinate, il 25 gennaio 1793 dal conte Cesare di Vico nel Lazio e da Camilla Bianchi.

    Primogenito di almeno sei figli, fu battezzato con i nomi di Francesco Maria Pietro.

    Dopo una prima educazione in famiglia, frequentò il seminario vescovile di Veroli, concludendo la scuola secondaria a Roma. Lì seguì gli studi universitari di medicina e chirurgia, ottenendo la laurea intorno al 1813. Fino al 1831 mantenne la condotta medica nel comune di Pofi (Frosinone). Lì sposò nel 1825 Anna (Carolina) Moscardini, di Anagni, con la quale ebbe tre figli: Icilio, Amalia ed Ersilia. Fissò la sua residenza stabile a Roma, dove all’esercizio della professione medica unì la pratica letteraria. Membro fondatore dell’Accademia Tiberina, intrecciò precocemente gli interessi culturali alla critica del governo ecclesiastico.

    Nell’ottobre del 1827 mise in scena una tragedia di ambientazione classica, La vestale, dove esprimeva la denuncia dell’ipocrisia del ceto ecclesiastico volta all’oppressione dei vincoli familiari e sociali. Poco dopo, la recita di un’ode sulla battaglia di Navarino, in cui dava espressione all’amor di patria e della libertà nazionale greca, provocò la censura e il suo allontanamento temporaneo da Roma, dove aveva diretto il periodico Il discernitore (1829). La produzione poetica di Sterbini, di ispirazione classicista nello stile, esprimeva fin dagli esordi i temi della difesa della patria, dell’esaltazione di un sentimento religioso teso all’affermazione degli ideali patriottici e, più in generale, dei diritti dei popoli. Ne è testimonianza la raccolta Saggio di poesie (Roma 1829), dedicata a Bertel Thorvaldsen e alla sua statua del Salvatore, interpretata come simbolo del «Sole di giustizia» (p. 11) per tutti gli oppressi.

    Affiliato alla vendita dei carbonari di Trastevere, partecipò all’organizzazione del tentativo insurrezionale del 12 febbraio 1831 e si recò a Terni insieme a Michele Accursi per convincere il generale Giuseppe Sercognani a puntare con le sue truppe rivoluzionarie sulla capitale, ma senza successo. Sedata la rivolta nelle Legazioni, Sterbini si nascose in un primo momento a Senigallia. Rientrato a Roma dopo l’amnistia del 30 aprile, non smise di mantenersi in comunicazione con gli ambienti settari cambiando spesso residenza per un paio di anni. Tramite la famiglia e l’amico Enrico Mayer, riuscì infine a ottenere un passaporto a condizione di lasciare definitivamente gli Stati pontifici.

    Nel dicembre del 1833 si trasferì quindi in Corsica, dove rimase per almeno due anni, intrattenendo rapporti con Pietro Giannone, Pasquale Berghini e altri esuli di tendenza mazziniana. Lì pubblicò una raccolta di poesie e altri componimenti di ispirazione patriottica (Poesie di Pietro Sterbini, Bastia 1835). Dal 1835 al 1846 visse a Marsiglia, impegnandosi nella cura dell’epidemia di colera e cercando di esercitare la professione medica. Continuò l’attività politica all’interno delle reti cospirative intorno a Nicola Fabrizi e Giuseppe Ricciardi. Si avvicinò infatti progressivamente alla Giovine Italia, cui aderì formalmente tra il 1839 e il 1840, contribuendo all’opera di propaganda clandestina dell’organizzazione.

    Dopo l’editto di perdono del 16 luglio 1846 emanato da Pio IX, tornò negli Stati del papa. Giunto a Livorno nell’agosto, scrisse un’ode in cui Mastai Ferretti veniva celebrato come il condottiero inviato dal cielo per combattere i tiranni e difendere gli oppressi (Il ritorno dell’esule in Roma. Livorno 29 agosto 1846, foglio volante). A Roma, prese parte alle manifestazioni in onore del papa, di concerto con altri vecchi esuli politici. L’11 novembre recitò un discorso al teatro Alibert, in occasione di un banchetto per festeggiare il possesso del Laterano da parte del papa. La piattaforma dalla quale contribuì alla mobilitazione in favore delle riforme promosse da Pio IX conteneva la richiesta di progressi materiali, ma anche il riscatto nazionale grazie all’unione di principi e popolo. Su queste posizioni collaborò dal marzo del 1847 al Contemporaneo. Negli stessi mesi fondò un giornale clandestino, La Sentinella del Campidoglio, che destò subito l’attenzione delle autorità pontificie e la cui effettiva pubblicazione fu interrotta grazie alla mediazione di Massimo d’Azeglio. A quest’ultimo rispose, sempre anonimamente, a difesa del popolo romano per le intemperanze dimostrate nell’accoglienza dell’editto sulla censura della stampa del 15 marzo (Brevi considerazioni sopra una lunga lettera del sig. M. Massimo D’Azeglio, 3 aprile 1847, s.n.t.). Nei mesi successivi la sua attività di pubblicista e di attivista politico nella capitale continuò sulla linea di fedeltà al sovrano pontefice, di esaltazione dell’unione tra sovrano e popolo e di critica alle lentezze del processo riformista, imputate all’opera degli ambienti ecclesiastici retrivi. Sterbini fu tra gli organizzatori del grande banchetto del 21 aprile per il Natale di Roma sul colle Esquilino, dove pronunciò un discorso, e delle manifestazioni per l’anniversario dell’elezione al pontificato di Pio IX il 17 giugno, per cui compose un inno che celebrava lo scambio delle bandiere tra Bologna e Roma come simbolo di rinnovata unione tra i popoli dello Stato (Il vessillo offerto dai bolognesi ai romani. Inno popolare, Roma 1847).

    La sua attività giornalistica continuò sul doppio binario della stampa clandestina (a lui si attribuisce la compilazione del periodico anonimo Amica veritas) e della collaborazione al Contemporaneo, di cui divenne direttore dal 29 giugno 1848 e di cui compose gli articoli di fondo. Un suo pezzo del 13 novembre 1847, esaltante una «rivoluzione sociale che non si arresta nella superficie, ma attacca le fondamenta, si compie fra le feste e fra gli evviva, fra le lagrime di gioia e gli abbracciamenti fraterni», provocò l’irritazione del pontefice che vi accennò nell’allocuzione del 15 novembre per l’inaugurazione della Consulta di Stato.

    Sterbini mantenne una coerente posizione di sostegno alle riforme e al sovrano, unita alla mobilitazione permanente dell’elemento popolare organizzato nei club: il ruolo di guida dell’ala più oltranzista del variegato fronte liberale gli valse in seguito l’accusa di demagogia; la lega dei popoli e dei principi restò però il suo orizzonte programmatico fino all’estate del 1848, giustificando l’allocuzione di Pio IX del 29 aprile e accusando gli altri sovrani di tradimento della volontà popolare (Allocuzione di Pio IX, in Il Contemporaneo, 2 maggio 1848).

    Eletto al Consiglio dei deputati nel collegio di Anagni, si schierò con il ministero di Terenzio Mamiani per la prosecuzione della guerra all’Austria. I rovesci del conflitto e le resistenze del papa a concedere l’appoggio diretto alla lotta per l’indipendenza lo spinsero su posizioni di aperta critica alle monarchie italiane e di appello diretto ai popoli perché si armassero. Sulla stampa e nei circoli interpretò un’aperta opposizione al ministero di Pellegrino Rossi insediatosi nel settembre del 1848. Nell’ottobre partecipò al congresso per la Federazione italiana voluto da Vincenzo Gioberti a Torino, come rappresentante del Circolo popolare romano, di cui era uno dei capi riconosciuti. Tornato a Roma, riprese la campagna di stampa contro Rossi. I toni fortemente denigratori furono alla base dell’attribuzione a Sterbini del ruolo di principale mandante dell’omicidio del ministro, accusa che venne ribadita nel corso del processo conclusosi nel 1854 e che fu da lui respinta pubblicamente (Au Rédacteur, in Journal des Débats, 15 maggio 1854). Nella fase di tensione seguita alla rivoluzione del 16 novembre 1848 e alla successiva fuga del papa a Gaeta, egli operò per un travaso di poteri al Circolo popolare. Fece parte del primo e del secondo governo presieduti da Carlo Emanuele Muzzarelli (17 novembre e 23 dicembre) come ministro del Commercio e dei Lavori pubblici, promuovendo azioni di sostegno al reddito delle classi popolari. Nei dibattiti in seno al Consiglio dei deputati difese il ricorso alla sovranità popolare e fece parte dell’organo che convocò l’Assemblea costituente il 29 dicembre, insieme agli altri ministri e alla Suprema Giunta di Stato. Membro della Commissione provvisoria di governo, fu eletto alla Costituente nel collegio provinciale di Frosinone. Votò la proclamazione della Repubblica Romana e la decadenza del potere temporale dei papi; fece parte del nuovo governo sempre al dicastero dei Lavori pubblici. Dai banchi dell’Assemblea sostenne con forza la difesa della Repubblica contro l’occupazione militare del suo territorio e l’unione con gli altri governi rivoluzionari italiani. In seguito a contrasti con l’Assemblea, che contestava il suo operato, l’8 marzo venne sostituito al ministero da Mattia Montecchi. Il 4 marzo 1849 era stato intanto eletto dal Circolo popolare presidente del Comitato di pubblica sorveglianza, un organo extraistituzionale formato per vigilare sull’esecuzione dei decreti governativi e sulla fedeltà al nuovo regime. Rientrò nel nuovo governo formato dal Triumvirato il 2 aprile. Nominato commissario straordinario della provincia di Frosinone nel maggio, operò il disarmo dei resistenti e la riorganizzazione della milizia dopo la liberazione dalle truppe napoletane; contro il parere di Mazzini, sostenne senza successo la linea dell’iniziativa offensiva e della dittatura militare di Giuseppe Garibaldi.

    Caduta la Repubblica, si rifugiò in Svizzera dall’agosto del 1849 al marzo del 1851, quando venne espulso dal Consiglio federale. Dopo alcuni mesi, passati tra Genova e il Piemonte, nel 1852 si trasferì stabilmente a Parigi, dove maturò l’adesione alla politica cavouriana e alla monarchia sabauda. Nel 1855 pubblicò un poemetto per celebrare la spedizione piemontese in Crimea (Tauride). Dopo lo scoppio della guerra austro-piemontese nel 1859 si stabilì in un primo tempo a Firenze e poi, invitato a partire dal governo provvisorio, a La Spezia e in Piemonte. Dopo la spedizione garibaldina nel Mezzogiorno, si trasferì a Napoli collaborando in un primo momento con Giuseppe Lazzaro alla redazione di articoli politici per Il Nomade. Fondò poi, insieme allo stesso Lazzaro e a Diodato Lioy, il giornale Roma (1862), per sostenere da sinistra l’annessione della capitale al nuovo Regno: perseguì questi obiettivi anche con l’appoggio alla Società emancipatrice e di mutuo soccorso del sacerdozio italiano, del domenicano Luigi Prota Giurleo, e sostenendo la proposta della formazione di un clero nazionale eletto democraticamente, stipendiato dallo Stato e indipendente dalla Chiesa romana, da opporre alle posizioni intransigenti e filoborboniche dell’episcopato meridionale. Espose le sue idee religiose in una prolusione pronunciata all’Università di Napoli il 6 marzo 1862 (Filosofia e religione. Discorsi di Pietro Sterbini, Napoli 1862); lo stesso anno pubblicò parzialmente una storia della Repubblica romana composta durante l’esilio parigino (Tredici giornate della rivoluzione romana. Scene drammatiche accompagnate da note storiche, Napoli 1862).

    Morì a Napoli il 30 settembre 1863.

    Opere. Diverse opere manoscritte inedite, insieme ad altri autografi, segnalati precedentemente come in possesso degli eredi, non sono più reperibili (Minnocci, 1967, passim, e Rodelli, 1960, pp. 43 s.). Non esiste una bibliografia esaustiva della sua variegata produzione giornalistica, poetica e saggistica. Oltre ai testi e agli interventi nei periodici citati, si segnalano: Le belle arti in Roma. Cantata eseguita il dì 25 ottobre 1819 in una festevole unione di artisti, Roma 1819; Per alcuni quadri di H.te Lebrun che ammiransi nel suo studio. Versi, Roma 1820 (con Giacomo Ferretti); Lo schiavo Italiano in Algieri nel luglio dell’anno 1830. Idilio di Pietro Sterbini, Roma 1830; Discorso del dottor Pietro Sterbini recitato il 26 aprile 1835 nella pubblica adunanza della Società medico-scientifica della Corsica, in Corte, Bastia 1835; Discorso di Pietro Sterbini al convito dato dai Romani nel teatro Aliberti la sera dell’undici novembre 1846 per festeggiare il solenne possesso di Pio IX con l’aggiunta di alcune poesie del medesimo autore, Roma 1846; Il Natale di Roma celebrato il XXI aprile MDCCCXLVII, in Foglio aggiunto al Contemporaneo del 24 aprile 1847; Inno siciliano dedicato alla Civica Romana, Roma, 3 febbraio 1848, s.n.t.; Préface, in V. Borie, Histoire du Pape Pie IX et de la dernière révolution romaine (1846-1849), Bruxelles 1851, pp. I-VIII; Tauride. Canto di Pietro Sterbini, Montmartre [1855]; La scomunica. Ode; Dio protegge l’Italia. Ode; A Garibaldi. Ode, Genova [1860]; L’ultima notte di Francesco II a Gaeta. Canti due, s.l. [1860].(fonte)

    [3]Pio IX papa. Giovanni Maria Mastai Ferretti (Senigallia 1792 – Roma 1878). Il suo pontificato (1846-78) è stato uno dei più lunghi della storia della Chiesa: furono decenni particolarmente densi di avvenimenti che videro la nascita dello Stato italiano e la fine del potere temporale del papa. Il 3 sett. 2000 P. IX è stato beatificato da Giovanni Paolo II.

    Vita e attività

    Sacerdote (1819), uditore di nunziatura nel Cile (1823-25), arcivescovo di Spoleto (1831), vescovo di Imola (1832), cardinale prete dei SS. Pietro e Marcellino (1840), fu eletto papa (16 giugno 1846) alla morte di Gregorio XVI. Già in fama di prete liberale, con l’amnistia per i delitti politici (16 luglio 1846) suscitò grandi speranze nei patrioti italiani: il partito riformista fece di P. IX la sua bandiera; spinto dal movimento d’opinione pubblica, il pontefice concesse (1847) una limitata libertà di stampa, una consulta di stato, la guardia civica, un consiglio dei ministri. Allarmata dalle riforme papali, l’Austria occupò Ferrara (luglio 1847), ma la protesta di P. IX ebbe il risultato di eccitare sempre più l’opinione nazionale. Nel 1848 l’esempio degli altri sovrani costrinse il papa a dare la Costituzione (14 marzo) e a nominare un ministero Recchi-Antonelli, nel quale erano molti elementi liberali. Ma, scoppiata la prima guerra d’indipendenza, dopo avere in un primo tempo deciso l’intervento dello Stato pontificio accanto al Piemonte, P. IX, con l’allocuzione del 29 apr., finì col ritirarsi dal movimento nazionale. Falliti i tentativi moderati di T. Mamiani e di P. Rossi, P. IX, dopo l’assassinio di Rossi (15 nov.), abbandonò Roma, ove, il 9 febbr. 1849, fu proclamata la repubblica; da Gaeta, ospite di Ferdinando II di Borbone, sollecitò l’intervento delle potenze cattoliche (Francia, Austria, Spagna e Napoli). Abbattuta la Repubblica romana dal corpo di spedizione francese del gen. Oudinot (luglio 1849), P. IX rientrò a Roma nell’apr. 1850, deciso a difendere a ogni costo il suo potere temporale, nonostante gli inviti alla moderazione che gli giungevano dalla Francia. Perdute (1859) l’Emilia e la Romagna, poi (1860) le Marche e l’Umbria, riuscì a mantenere Roma e il Lazio solo per l’appoggio di Napoleone III; ma, caduta dopo Sedan (1870) la tutela francese, le truppe italiane occuparono Roma (20 sett.). Dopo aver protestato vivamente, P. IX si rinchiuse nel Vaticano e si rifiutò di accettare la legge delle guarentigie votata dal parlamento italiano. Deludendo chi aveva sperato nel suo impegno per una conciliazione tra Chiesa e libertà, P. IX strinse invece ben presto accordi con gli stati assolutisti (concordato con l’Austria del 1855), polemizzò contro la legislazione antiecclesiastica voluta da Cavour e Rattazzi in Piemonte (1855), condannò in blocco la civiltà moderna (1864) con l’enciclica Quanta cura e il Sillabo; si pronunciò tra l’altro contro il razionalismo e il liberalismo, la libertà di coscienza, la separazione della Chiesa dallo Stato e l’istruzione laica; proibì ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica (non expedit). Il Kulturkampf in Germania e la denuncia (1870) del concordato da parte del governo austriaco sono altri avvenimenti importanti del suo regno. Sotto il suo pontificato fu proclamato (1854) il dogma dell’Immacolata Concezione e definito quello dell’infallibilità pontificia, proclamato nel Concilio vaticano I (1870). Le sue Litterae ad Orientales del 6 genn. 1848 impostarono in chiave moderna il problema del “ritorno” dei cristiani ortodossi separati all’unione con Roma. Il 3 sett. 2000 è stato beatificato da Giovanni Paolo II; la festa si celebra il 7 febbraio.(fonte)

    [4]Domenico Orsini. Nacque a Napoli il 23 novembre 1790 dal principe Domenico e dalla principessa Faustina Caracciolo di Torella.
    Morto il padre pochi mesi prima della sua nascita, fu allevato dal nonno paterno, Filippo Bernualdo, XVI duca di Gravina. Fatti i primi studi a Napoli, nel 1806 si trasferì a Roma, dove studiò matematiche e scienze morali presso il gesuita Collegio romano.

    Dopo una serie di viaggi in Italia e in Europa, il 6 febbraio 1823 sposò Maria Luisa Torlonia, figlia di Giovanni, dalla quale ebbe cinque figli: Giacinta, Teresa, Beatrice, Maria e Filippo. Il matrimonio fu decisivo perché con la cospicua dote ricevuta da Giovanni Torlonia gli fu possibile assolvere a una serie di gravi passività. L’anno seguente succedette quale XVIII duca di Gravina al ramo primogenito degli Orsini di Bracciano, divenendo così principe assistente al soglio pontificio, carica condivisa solo con il principe Colonna.

    Tra i sostenitori di un’azione moderatamente riformatrice nei riguardi della situazione economica, finanziaria e amministrativa dello Stato della Chiesa, nel 1832 fu nominato da papa Leone XII direttore del Consiglio di liquidazione, con il compito di controllare e amministrare il debito pubblico e di pagare «tutte le pensioni e giubilazioni civili, militari, i sussidi stabili e temporanei, gli assegni ecclesiastici e caritativi, tanto ordinari che straordinari ed ogni altra passività perpetua e temporanea a carico del pubblico erario» (Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, I, Roma 1834, p. 25).

    Cercò di riordinare l’amministrazione chiamando a collaborare elementi di valore, ma i suoi tentativi trovarono decisa opposizione da parte dei cosiddetti zelanti, l’ala più conservatrice della Curia pontificia. «Tutte le cure che io adopero – scriveva il 20 maggio 1833 al consigliere aulico di Metternich Giuseppe Maria Sebregondi in missione a Roma – per servir meglio che so il governo fruttano assai meno di quello che dovrebbero perché si fa uno studio, parte per birberia e parte per incapacità, di avversare ogni operazione che conduce al bene. E così chi serve di buona fede senza idee secondarie e senza transazione con gli abusi, ottiene la guerra di tutti» (Nada, 1957, p. 101).
    In evidente difficoltà, nel gennaio 1834 fu destituito dall’incarico ma, contemporaneamente, fu nominato dal nuovo papa, Gregorio XVI, senatore di Roma, antica carica municipale, che tenne fino al 1847.

    La carica ormai rivestiva un carattere puramente onorifico, come con la consueta ironia sottolineò Giuseppe Gioachino Belli proprio a proposito dell’elezione di Orsini: non solo, infatti, la città di Roma fu esclusa dalle nuove normative sull’amministrazione locale emanate da Gregorio XVI, ma con editto del 13 maggio 1834 la competenza del tribunale cui faceva capo il senatore veniva ristretta alle cause non superiori ai 200 scudi. Per tentare di restituire dignità al ruolo, Orsini provò a rivendicare antichi diritti e franchigie municipali, anche se «è difficile distinguere quanto le richieste riflettessero consapevolezza e volontà di un più funzionale e diretto impegno e quanto invece di interessi particolari, quasi pretese di una classe, quella dell’alta aristocrazia, che cominciava ad essere tallonata dalla piccola borghesia provinciale e dal gruppo della borghesia emergente» (Bartoccini, 1985, p. 170).
    Con l’elezione al soglio pontificio di Pio IX (1846), Orsini entrò a far parte di una commissione, presieduta dal cardinale Ludovico Altieri, con il compito di proporre le linee guida per una completa riforma del municipio romano, poi attuata con il motuproprio del 1° ottobre 1847 che abolì l’antico tribunale municipale.

    In quegli anni Orsini aveva rivestito importanti ruoli anche nell’ambito dell’amministrazione provinciale. Nel 1831, in seguito all’editto di Gregorio XVI, entrò a far parte del ristretto corpo di consiglieri e collaboratori del preside di Roma e Comarca, che avevano il compito di esaminare le spese, le imposte e la loro ripartizione tra i Comuni. Con l’editto del 1850 il Consiglio allargò le sue prerogative, occupandosi di opere pubbliche, di strade provinciali, di agricoltura, commercio, alimentazione e sanità.
    L’attività di Orsini si muoveva su più piani. Nel 1837 fu a capo di una delegazione per venire incontro ai disagi provocati, soprattutto nella popolazione più giovane, dall’epidemia di colera, che toccò il suo culmine a Roma nei mesi di agosto, settembre e ottobre. Fu tra gli organizzatori di un ospizio a Santa Galla in grado di ricoverare fino a 500 infermi al giorno ed egli stesso mise a disposizione la propria villa di Castel Gandolfo quale ricovero per i fanciulli i cui genitori erano morti a causa del morbo.

    Nel 1840 la perdita della figlia Maria, nata appena due anni prima, gli procurò una forte crisi che lo tenne lontano per alcuni mesi dalla vita pubblica. Nello stesso anno, grazie alla garanzia di Alessandro Torlonia, ottenne un’estensione del credito da 12.000 a 58.000 scudi da parte della Cassa di risparmio di Roma, denaro che utilizzò per investimenti immobiliari nel Regno di Napoli. Orsini rimase comunque sempre debitore dell’istituto bancario, se ancora nel 1869 aveva un passivo di 134.000 scudi.
    Con la carta costituzionale emanata da Pio IX nel 1848 entrò a far parte dell’Alto consiglio, nel quale ricoprì la carica di questore. Con un intervento del 18 novembre richiese all’assemblea l’immediata nomina di una commissione di contabilità e un dettagliato elenco di tutte le spese sostenute fin ad allora e delle somministrazioni di denaro fatte dall’Erario pubblico (Rapporto dei questori dell’Alto consiglio, 18 novembre 1848, [Roma] 1848, p. 2).
    Poco prima della costituzione della Repubblica, si trasferì a Napoli, dove risiedeva un altro ramo della famiglia e dove vantava ancora cospicui possedimenti. Nel marzo 1849, in seguito a un decreto dell’Assemblea costituente, che prevedeva un prelievo in forma progressiva sui cittadini più abbienti, fu sottoposto al pagamento di un prestito forzoso di 747 scudi. Di tale cifra pretese la restituzione una volta restaurato il governo pontificio.

    Caduta la Repubblica, nell’agosto del 1849 fu chiamato a ricoprire il delicato incarico di ministro delle Armi, nel quale il 16 febbraio 1850 fu surrogato dal generale Guglielmo De Kalbermatten, e che il 1° novembre fu richiamato nuovamente a ricoprire fino al luglio dell’anno successivo. I suoi criteri si ispirarono all’organizzazione di «una milizia essenzialmente atta a mantenere l’ordine interno» (A. Vigevano, La fine dell’esercito pontificio, Roma 1920, p. 1). Stabilì inoltre di annullare ogni atto emanato dopo il 16 novembre 1848, esonerando tutti gli ufficiali e graduati, guardie civiche e corpi franchi entrati dopo quella data. Avviò infine la procedura per l’arruolamento di 4000 soldati per completare i quadri dell’esercito.
    Nel febbraio 1857 fu nuovamente nominato senatore di Roma, carica che tenne fino al novembre 1858. Nel gennaio 1860 manifestò pubblicamente, insieme a una deputazione di rappresentanti dell’alta nobiltà, la propria fedeltà a Pio IX, dopo la perdita delle legazioni.
    Accettò quindi, nello stesso anno, di presiedere una commissione per la raccolta in Roma dell’obolo di S. Pietro, provvedimento che nasceva dal clima d’intensa propaganda cattolica a favore del dominio temporale della Santa Sede. La città rispose nei primi dieci giorni con 739 offerte, provenienti da persone di ogni età, sesso e ceto sociale, anche se la stampa dette molto risalto soprattutto alla partecipazione popolare.

    Favorevole, intorno alla metà degli anni Sessanta, a una graduale apertura dello Stato della Chiesa verso il Regno d’Italia, per ragioni sia commerciali sia finanziarie, Orsini, che trascorreva alcuni periodi dell’anno a Napoli, diradò sempre più i suoi impegni, non tralasciando, nei momenti di ozio, di dedicarsi alla sua antica passione per l’intaglio e il tornio e di assistere, nello sferisterio di piazza Barberini, a incontri di gioco del pallone con il bracciale, attività che aveva molto praticato negli anni giovanili.
    Dopo il 1870 e l’annessione di Roma al Regno d’Italia continuò ad assecondare i moniti di Pio IX, che esortava l’aristocrazia romana a non occuparsi della vita pubblica, non seguito in questo da suo figlio Filippo che invece si candidò, risultando eletto, al Consiglio comunale di Roma. Morì nel suo palazzo romano il 18 aprile 1874, in seguito a una dolorosa malattia che lo aveva praticamente immobilizzato.(fonte)

    [5]Scipione De Rossi. Negoziante di musica, e saltuariamente editore, attivo a Roma nel sec. XIX, in via del Corso 139, dirimpetto a palazzo Ruspoli. Probabilmente rilevò l’attività di Castagnola (vedi Ajani e Castagnola). D. inaugurò la sua attività nel 1834 e la portò avanti almeno fino agli anni ’60. Le ed. in vendita da D. venivano regolarmente pubblicizzata sulla Rivista teatrale, periodico specializzato con cui D. condivideva recapito e probabilmente interessi commerciali. (fonte)