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Vittorio Emanuele Orlando, 1922

    Vittorio Emanuele Orlando, Saltino, 1922
    Vittorio Emanuele Orlando, Saltino, 1922 e
    « di 6 »

    1/ CAMERA DEI DEPUTATI
    Saltino, 13 Sett.

    Mio caro amico[1],

    la tua lun-
    ga lettera del 11 (e dell’ampiezza
    di essa, come indice di premuro-
    sa cortesia amichevole, vivamente
    ti ringrazio) pone in evi=
    denza – direi quasi, penosa –
    la amarezza della situazioni
    che le recenti mortificazioni
    istituzionali son venute crean-
    do. Per verità, non era raro,
    e, tanto meno, soggetto a critiche,
    il caso di un uomo avente
    responsabilità di governo, il
    quale si rivolgesse ad altro
    uomo politico, verso cui avesse
    ragioni di fiducia o, semplicemente,

    di simpatia, per esporgli una
    difficoltà e provocarne un
    giudizio, un’impressione, se non
    un consiglio. Più frequente,
    più notevole e, qualche volta,
    propio doveroso appariva ciò
    in materia di politica estera.
    E se ed in quanto le gravi
    ed importanti cose che tu mi
    scrivi mi pervenissero come
    a un singolo, per quanto
    – mettiamo – autorevole depu=
    tate, io non potrei che trar=
    ne, prima, ragione di lusinga
    e di onore e mettere, poi,
    interamente e devotamente
    a disposizione dell’amico il
    mio giudizio e la mia

    2/

    qualsiasi autorità. Ma ecco
    che tutto ciò, da semplice e chiaro
    diventa complicato e discutibile quan-
    do c’entra di mezzo il “Pres. della
    Comm. permanente”! Si farà sem=
    pre la questione se egli parla per
    conto suo o se impegna la Com=
    missione! E da qui una serie di
    fastidiose ricerche sul diritto che egli
    aveva di far ciò e sino a qual
    punto ecc ecc.
    Perdona questo sfogo del=
    l’antico parlamentare e, più,
    del professore da 40 di
    D. Costituz. che vede con dolore
    la trasformazione, che a lui sem=
    bra degenerazione, dell’istituto cui
    ha dedicato tutta la sua vita, come

    3/ CAMERA DEI DEPUTATI

    1° mo presidente della
    Comm. degli esteri, invece,
    io debbo, innanzi tutto, scor=
    darmi tutta la tua moti-
    vazione (che, per certo, non
    così potrebbe esser dislegata), e
    dovrei, come consolazione, o
    prender atto della intenzione da
    te manifestata di procedere alla
    approvazione del trattato per
    D. L., e darne comunicazione
    ai colleghi in nome dei quali
    ti scrissi; o scordarmi pure la
    consolazione e limitarmi a
    dire che tu hai preso atto di
    quella loro manifestazione.
    Rimetto a te la scelta
    fra queste due formale. Ti

    sarei grato, bensì, se tu volessi
    il tuo pensiero comunicarmi
    colla maggiore rapidità possi=
    bile, specie se il provvedimento
    fosse imminente. Potresti tele-
    grafare (in tal caso) in cifra
    al prefetto di Firenze[2] commet=
    tendogli di farne fare
    una comunicazione telefonica
    cordialmente

    tuo Orlando[3]

    Vittorio Emanuele Orlando, busta
    Vittorio Emanuele Orlando, busta

    busta

    Corrispondenza relativa agli
    accordi di S. Margherita[4]

    Lettera di V. E. Orlando


    Note

    [1] Carlo Schanzer (Vienna, 18 dicembre 1865 – Roma, 23 ottobre 1953) è stato un politico italiano.
    Carriera professionale
    Avvocato, ufficiale della direzione generale di statistica, passò in seguito alla Biblioteca del Senato del Regno. Nel 1893 fu nominato referendario e divenne consigliere di Stato nel 1898. Dal 1901 fu direttore generale dell’amministrazione civile, e deputato al Parlamento dal 1900 al 1919.
    Carriera politica
    Chiamato al Governo, fu ministro delle poste e telegrafi dal 1906 al 1909; dal 1912 ricoprì la carica di presidente di sezione del Consiglio di Stato. Fu nominato Senatore del Regno il 7 ottobre 1919.
    Nel 1919-20 fu di nuovo ministro del tesoro, poi delle finanze, e poi di nuovo del tesoro. Fu poi a capo della delegazione italiana alla Conferenza navale di Washington (nel 1921), delegato italiano alla conferenza di Genova (nel 1922) e poi più volte delegato all’assemblea delle Società delle Nazioni; chiamato di nuovo al governo, fu per due volte Ministro degli esteri nel 1922. Si iscrisse all’Unione Nazionale Fascista del Senato (UNFS) il 9 giugno 1926 e al Partito Nazionale Fascista (PNF) 15 aprile 1929. Nominato Ministro di Stato, sarà collocato a riposo dal Consiglio di Stato, a domanda, il 26 dicembre 1928.(fonte)

    Nel 1920 Giolitti lo inviò a Ginevra come delegato alla Società delle Nazioni. Partecipò ai lavori della III commissione, che si occupò di riduzione degli armamenti e, nel dicembre del 1920, alla riunione del Consiglio che approvò lo statuto della Corte permanente di giustizia internazionale. Forte della sua notevole competenza linguistica (parlava il tedesco, l’inglese e il francese) il governo Bonomi lo nominò capo delegazione alla Conferenza navale di Washington nel novembre del 1921. La Conferenza si chiuse nel febbraio del 1922 con un accordo generale sulla limitazione delle grandi navi militari che segnò un’importante vittoria di immagine per l’Italia, la cui flotta fu classificata al livello di quella francese. Durante la conferenza si verificò una furiosa lite a porte chiuse fra Schanzer e Aristide Briand, nata da un malinteso e ampiamente riportata dagli organi di informazione. Rientrato in patria circondato da una certa popolarità, l’amico Luigi Facta lo chiamò a ricoprire il dicastero degli Esteri, carica che mantenne fino al 30 ottobre, quando passò le consegne a Benito Mussolini.
    Furono mesi intensi, in cui Schanzer fu impegnato nell’organizzazione della Conferenza di Genova, convocata per cercare un accordo multilaterale sui debiti di guerra e un modus vivendi fra i Paesi dell’Europa occidentale e la Russia. A margine della conferenza, che si concluse con un nulla di fatto, Schanzer riuscì ad avviare colloqui con i rappresentanti del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni per l’applicazione del trattato di Rapallo, poi perfezionati nel successivo trattato di Santa Margherita Ligure, firmato il 23 ottobre 1922. Le difficoltà politiche del momento lo spinsero a chiedere la ratifica del trattato per decreto legge, contraddicendo la prerogativa parlamentare in politica estera sostenuta per trent’anni; fu la dura presa di posizione del Partito nazionale fascista (PNF), apparentemente avverso al trattato, a indurlo a tornare sui suoi passi. Già dall’estate Schanzer era stato ripetutamente attaccato dal PNF per la sua linea politica giudicata troppo subordinata all’Inghilterra. Nel 1923 rientrò nel Consiglio di Stato, come presidente di sezione, ma continuò a rappresentare l’Italia alla Società delle Nazioni fino all’autunno del 1924.
    […]
    Nel marzo del 1932 fu sollecitato a intervenire in aula a favore del testo unico della legge comunale e provinciale. Si distinse ancora il 12 gennaio 1934 per un convinto discorso a favore della legge istitutiva delle corporazioni, e nel dicembre del 1935, per il dono di 141 grammi d’oro a sostegno della guerra d’Etiopia. Continuò a partecipare ai lavori del Senato, ormai confinati nelle commissioni, mentre assieme a pochi altri senatori liberali, non partecipò alla seduta in cui furono approvate le leggi razziali (1938).
    Il 7 agosto 1944 l’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo, Carlo Sforza, propose la sua decadenza, decisa dall’Alta Corte di giustizia con ordinanza del 21 ottobre 1944. Contro l’ordinanza Schanzer presentò ricorso alla Corte suprema di Cassazione, la quale, con sentenza dell’8 luglio 1948, annullò la decadenza. Trascorse gli ultimi anni riordinando le proprie carte e cercando di difendere la propria immagine dalle polemiche giornalistiche che di tanto in tanto ancora sorgevano attorno alla sua figura. Morì a Roma il 23 ottobre 1953.(fonte)

    [2] Vincenzo Pericoli, Nobile di Orvieto, Nobile di Norcia, Nobile di Camerino (Roma, 29 giugno 1862 – Ginevra, 1º ottobre 1931) è stato un prefetto e politico italiano. Nell’amministrazione dell’interno dal 1885, è stato prefetto a Chieti, Perugia, Palermo, Venezia, Bologna, Novara, Firenze, Como, Catania, Milano, commissario prefettizio dei comuni di Frascati e Napoli, direttore dell’Ufficio dei servizi civili di Bengasi, segretario generale per gli Affari civili della Tripolitania, regio commissario per le località danneggiate dal terremoto del 6-7 settembre 1920 in Garfagnana, Lunigiana e Toscana.(fonte)

    [3] Vittorio Emanuele Orlando. – Nacque a Palermo il 19 maggio 1860, da Camillo, avvocato appartenente a una famiglia di antiche tradizioni forensi, e da Carmela Barabbino. Compiuti gli studi classici, si iscrisse alla facoltà giuridica palermitana nel 1877, nello stesso anno di Gaetano Mosca.

    I giovani che arrivarono allora alle università furono i protagonisti del rinnovamento della cultura scientifica italiana, che si realizzò dopo la guerra franco-prussiana, anche con la recezione massiccia dell’influenza culturale germanica, nello sforzo di ammodernamento della vita intellettuale del paese. Oltre a Orlando, in Sicilia furono Mosca, Francesco Scaduto, Angelo Majorana e Antonio Longo i giovani giuristi che operarono per inserire completamente la cultura giuridica regionale in quella nazionale e rinnovare la stessa cultura nazionale.

    Se anche la cultura regionale continuava a esprimere eminenti personalità come il filosofo Simone Corleo e grandissimi studiosi delle tradizioni popolari come Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino, fu soprattutto la nuova apertura nazionale e internazionale della cultura isolana, specie universitaria, a segnare della propria impronta quegli anni. Arrivarono dal continente personaggi come Adolfo Holm, studioso tedesco di storia antica siciliana, chiamato da Michele Amari a coprire la cattedra di storia antica e moderna (e che guidò negli studi storici Mosca); alla cattedra di diritto costituzionale fu nominato Alessandro Paternostro, studioso anche di diritto internazionale, dal 1888 al 1892 consigliere giuridico in Giappone del ministero della Giustizia di Tokyo, avvocato, deputato, membro del ‘Comitato dei sette’ incaricato dell’inchiesta parlamentare sullo scandalo della Banca Romana; nel 1884 Giuseppe Salvioli, reduce da esperienze di studio in Germania e in Inghilterra, coprì la cattedra di storia del diritto, partecipò alla vita politica e lesse a Palermo il 9 novembre 1890 quella prolusione intitolata ai Difetti sociali del codice civile in relazione alle classi non abbienti ed operaie che si può considerare il manifesto del socialismo giuridico italiano; nel 1881 arrivò nella facoltà giuridica anche il filosofo positivista Raffaele Schiattarella, che suscitò «un vero fermento di spiriti», destinato a esercitare «un forte influsso sulla cultura dell’isola» nell’ultimo ventennio del secolo (G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Firenze 1963, pp.147 ss.).

    Dunque, l’Università assunse un ruolo di punta nella modernizzazione intellettuale dell’isola, un rinnovamento che accompagnò anche lo sviluppo economico, industriale e armatoriale palermitano, in una fase di forte dinamicità dell’intera vita sociale e intellettuale siciliana, destinata poi ad arrestarsi negli anni Novanta con la repressione dei Fasci siciliani e la grande emigrazione di fine del secolo e d’inizio Novecento.

    Orlando fu sin da studente fervido lettore degli scritti di Herbert Spencer e di Joseph-Ernest Renan sulla Revue philosophique e la Revue des deux Mondes e a Renan inviò il suo primo lavoro, Il Prometeo di Eschilo e il Prometeo della mitologia greca, apparso nel 1879 nella Rivista europea (pp. 475 ss.); nello stesso anno curò la rubrica economica della Rassegna palermitana, battagliando in difesa del liberismo (uno dei motivi culturali dell’intellettualità siciliana, culminato nel magistero di Francesco Ferrara), e scrisse per essa (I, pp. 161 ss.) un lungo articolo su Le condizioni finanziarie de’ nostri comuni, ove si mostrò ben addentro a problemi di finanze locali, bilanci e decentramento e buon conoscitore dei lavori di Antonio Salandra, Costantino Baer e Rudolf von Gneist; nel 1881 si cimentò, contemporaneamente, su un tema spenceriano, pubblicando l’articolo Delle forme e delle forze politiche secondo H. Spencer sulla Rivista europea (pp. 3 ss.), e su un tema già affrontato anni prima da Luigi Palma, quello de La riforma elettorale, dato quell’anno come argomento al concorso indetto dal Reale Istituto Lombardo, poi rielaborato e pubblicato in forma di monografia (Milano 1883).

    Laureatosi nel 1881, nel 1882 si recò a Monaco di Baviera dove seguì i corsi tenuti da Aloys Brinz, celebre romanista civilista, uno dei più eminenti pandettisti tedeschi. Il medesimo anno ottenne la libera docenza in Diritto costituzionale all’Università di Palermo e nel 1885 vinse la cattedra di Diritto costituzionale presso l’Università di Modena.

    L’incontro con Palma segnò una tappa fondamentale della sua formazione, assieme allo studio dell’opera di Johann Kaspar Bluntschli e all’insegnamento di Brinz. Nei lavori di Palma i tradizionali richiami ai rappresentanti del pensiero politico-costituzionale inglese e francese, John Stuart Mill, Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville, spartivano il campo con quelli rivolti alla costituzionalistica liberale tedesca, Robert von Mohl, Bluntschli, Lorenz von Stein e Gneist. Ma l’apertura di Palma alla dottrina tedesca non arrivò fino a un confronto con i risultati raggiunti dalla scuola storica, dalla pandettistica e dall’introduzione del metodo giuridico nello studio del diritto pubblico a opera di Karl von Gerber e di Paul Laband. Orlando, invece, accostatosi direttamente alla pandettistica seguendo i corsi di Brinz, conosciuta l’opera della Scuola storica di Friedrich Carl von Savigny e gli scritti dell’ultima giuspubblicistica tedesca, compì il passo non compiuto da Palma e poté avviare il rinnovamento dello studio del diritto pubblico in Italia.

    L’ormai avvenuto distacco da Spencer e l’adesione alla Scuola storica del diritto si manifestarono in quegli anni in due ricerche di carattere espressamente storico, Delle fratellanze artigiane in Italia (Firenze 1884) e La legislazione statutaria e i giureconsulti italiani del secolo XIV (Palermo 1884). Sempre nel 1884 si inserì nel dibattito ormai vivo intorno a La decadenza del sistema parlamentare con un articolo pubblicato sulla Rassegna di scienze sociali e politiche (II,1, pp. 589-600) scritto secondo i canoni della dottrina politico-costituzionale del tempo, aperto, al di là delle forme giuridiche, a considerare lo stato delle forze sociali e politiche. A partire proprio dalla netta separazione tra ordine giuridico e ordine politico, di lì a poco la svolta orlandiana avrebbe proposto lo studio delle forme dell’organizzazione costituzionale e amministrativa come l’oggetto esclusivo della giuspubblicistica italiana.

    La vicenda iniziò con il saggio Della resistenza individuale e collettiva (Torino 1885), ripubblicato con modifiche di poco conto nel quinto volume della «Biblioteca di scienze politiche» di Attilio Brunialti come seconda parte della Teoria giuridica delle guarentigie della libertà (Torino 1890), sotto il titolo di Guarentigie costituzionali, per completare la prima dedicata alle Guarentigie giurisdizionali. Si sviluppò così quel progetto di sistemazione rigorosamente giuridica delle libertà, avviato nel saggio sulla resistenza.

    Furono le nozioni del diritto e dello Stato assunti − sulle orme della Scuola storica di Savigny e nel rifiuto della concezione volontaristica e contrattualistica rousseauiana − come prodotti della storia, fatti storico-naturali, e anche la concezione gneistiana del Rechtsstaat e quella überöffentliche Rechte, svolta dai maestri dello Staatsrecht germanico a partire da Gerber, a fornire a Orlando, dal 1885 in poi, il modello statualistico teoricamente più maturo per un esame del problema della libertà «dal lato della guarentigia giuridica» dei «cittadini in rispetto all’autorità dello Stato» (p. 919 n. 2), dal lato insomma delle guarentigie giurisdizionali. Ma accanto a esse Orlando riaffermò l’esistenza anche delle guarentigie costituzionali, il loro nesso con le libertà politiche e i diritti politici in cui queste si attuano, così come il legame delle guarentigie giurisdizionali con le libertà e i diritti civili e l’indicazione della «storia costituzionale inglese» come solo «esempio mirabile del modo armonico con cui quelle due forme di libertà si sono sviluppate» (pp. 919-937).

    Un altro aspetto specifico che distinse il lavoro di Orlando dalla pubblicistica antiparlamentaristica della Destra e dai giuristi tedeschi, da Gerber a Laband, a Gneist, fu la difesa scientifica del governo parlamentare, del suo carattere giuridico, lo sforzo teso a mostrare come il governo parlamentare fosse scientificamente conciliabile con il Rechtsstaat, anzi fosse il Rechtsstaat.

    Non a caso, la prima applicazione concreta del metodo giuridico fu dedicata nel 1886 agli Studi giuridici sul governo parlamentare (in Diritto pubblico generale, Milano 1940, pp. 345-415), alla fondazione scientifica della natura giuridica del governo parlamentare, che postulava sia la critica al principio della divisione dei poteri (perché la specialità dello Stato costituzionale moderno riguardava piuttosto la distinzione, garantita da norme di diritto pubblico, della forma, natura ed efficacia degli atti legislativi, esecutivi e giudiziari in cui si manifestavano le singole funzioni fondamentali della sovranità); sia quella della rappresentanza politica per via di delegazione di poteri (perché il popolo non era un ‘organismo giuridico’ che potesse conferire mandati, non era persona, si personificava nello Stato), per affermare invece che la forma rappresentativa mirava solo ad assicurare l’elezione e l’esercizio del governo ai migliori, ai più capaci, e che il Gabinetto derivava il suo carattere giuridico dalla Corona: insomma, per sostenere una concezione dualistica della costituzione e della forma di governo, palesemente tributaria nei confronti della storia e del modello costituzionale inglesi, che contemperava in una forma di governo bilanciato, nel governo di gabinetto, prerogativa regia e maggioranza parlamentare.

    Provata l’identità di Rechtsstaat e governo parlamentare, iniziò in quegli anni gli studi sull’altro istituto fondativo del Rechtsstaat italico, la giustizia amministrativa. Fu l’avvio di un lungo travaglio ermeneutico che approdò, in una Nota pubblicata nel 1896 nell’Archivio di diritto pubblico (VI, pp. 24-30) alla negazione del carattere giurisdizionale della IV Sezione del Consiglio di Stato all’affermazione della sua natura di semplice contenzioso amministrativo esercitato con le garanzie del contraddittorio (a integrazione della funzione garantista svolta dal giudice ordinario) e dunque al principio della non impugnabilità delle decisioni della IV Sezione dinanzi alla Cassazione di Roma. Nonostante la giurisprudenza contraria e pur prendendo poi atto dell’esplicito dettato della legge del 1907, Orlando sostenne quelle opinioni nella voce Contenzioso amministrativo (in Digesto italiano, VIII, 2, Torino 1895-98, pp. 849-947), nel saggio su La giustizia amministrativa (in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, III, Torino 1901, pp. 633-1165) e anche nelle edizioni dei Principii di diritto amministrativo successive alle riforme del Consiglio di Stato e della Giunta provinciale amministrativa del 1907.

    Nel 1885 vinse il concorso per la cattedra di diritto costituzionale dell’Università di Modena e l’anno successivo di quella di Messina. I principi indicati nelle prolusioni inaugurali di Modena e di Messina furono rielaborati nella prolusione su I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico (in Diritto pubblico generale, cit., pp. 3-22), letta l’8 gennaio 1889 nell’Università di Palermo, dove il 16 dicembre dell’anno precedente era stato chiamato alla cattedra di diritto amministrativo.

    La prolusione costituì il manifesto del moderno specialismo scientifico disciplinare nella giuspubblicistica italiana e «fece in questo senso epoca» per il diritto pubblico (S. Romano, Il diritto pubblico italiano, Milano 1988, p. 6 n.13). Orlando − distinti «l’ordine politico ed il giuridico», «la discussione filosofica e politica circa la natura e la convenienza» di un istituto dallo «studio giuridico di esso», e rifiutata l’aridità del «commento esegetico» − non formulò invero una compiuta trama teorica ma semplici indicazioni tecniche, propose di ricorrere alla tecnica perfezionata nella secolare elaborazione del diritto romano e di costruire il diritto pubblico come «un complesso di principi giuridici sistematicamente coordinati», a cominciare dalle idee «di personalità giuridica dello Stato», di «diritti pubblici subiettivi» e di rapporto giuridico, regolato dalla signoria della volontà dello Stato e dei soggetti individuali, a cominciare dunque dagli elementi costitutivi del soggettivismo pandettistico.

    Se la prolusione di Orlando fece epoca per il diritto pubblico in Italia, più risalente e corale era stato l’inizio del rinnovamento nelle scienze del diritto romano e privato, a opera di Filippo Serafini, Vittorio Scialoja, Carlo Fadda e Paolo Emilio Bensa. Medesimi ne furono, però, gli obiettivi: la costruzione dello Stato giuridico italiano e l’affermazione in esso del ruolo di guida teorica da assegnare alla scienza giuridica universitaria nei confronti della pratica forense, amministrativa e politico-legislativa. Ed era nell’accoglimento della lezione savigniana riguardo al dualismo tra diritto e legge, tra legge e sistema che si aprivano al giurista universitario gli spazi necessari per interporsi tra il momento della statuizione e quelli dell’interpretazione e applicazione giudiziale e amministrativa; per farsi garante del controllo scientifico di legittimità dell’operato della giurisprudenza, subordinando l’applicazione della legge al suo inserimento nel sistema del diritto positivo e affidando la costruzione scientifica del sistema al concettualismo giuridico.

    A sua volta, il dualismo tra diritto e legge generava nella dottrina l’ipostatizzazione dei principi e degli istituti del sistema, con il richiamo al Rudolf von Jhering del Geist des römischen Rechts, ancora rappresentante della Begriffsjurisprudenz,«l’abitudine a considerare le varie nozioni e i vari istituti giuridici, come delle entità reali, esistenti, viventi»; e pareva assicurare solidità e generalità ai concetti, sino a ricordare a Orlando il «calcolo colle idee» dei giuristi romani di leibniziana e savigniana memoria. Tra Ottocento e Novecento il paradigma pandettistico divenne così, a partire dalla scienza romanistica e da quella giuspubblicistica, lo statuto scientifico del moderno specialismo in tutte le discipline giuridiche e permise a tutti i nuovi rami della scienza giuridica la costruzione della specifica identità di propri ambiti teorici rigorosamente disciplinari. Nel diritto pubblico il giurista diventava il tecnico, lo specialista, l’elaboratore esclusivo delle forme di organizzazione e di esercizio del potere statuale. Il formalismo del sapere giuridico era in funzione del formalismo del potere statuale e Orlando, adottando il primo, legava indissolubilmente le discipline giuspubblicistiche allo Stato italiano e faceva di quest’ultimo, del polo statuale, del modello statocentrico, il loro unico oggetto teorico.

    Le Università, luoghi di produzione del paradigma pandettistico, ne erano naturalmente anche luoghi privilegiati di trasmissione: «il centro motore di questo nuovo indirizzo», come aveva auspicato nella prolusione palermitana. E come Gneist aveva concluso il suo Rechtsstaat invitando i giuristi tedeschi alla ‘missione’ del Rechtsstaat germanico, Orlando concluse la prolusione palermitana indicando ai giuristi italiani nella ricostruzione scientifica del diritto pubblico italiano l’apporto che potevano dare all’edificazione dello Stato giuridico nazionale e al compimento della «meravigliosa storia del Risorgimento».

    Con i Principii di diritto costituzionale (Firenze 1889), Orlando cercò di introdurre nella stessa manualistica il metodo giuridico e i concetti con esso costruiti. Era un’opera anticipatrice, ma con tutti i limiti di un tentativo di sistemazione precoce in un campo teorico ancora quasi tutto da dissodare e da trasformare con analisi particolari informate al nuovo metodo giuridico. Ne seguì quel carattere eclettico tipico «di un periodo di preparazione e transizione», come lo stesso Orlando avrebbe avvertito quindici anni dopo pubblicando la quarta edizione (Firenze 1905, p. 6).

    Uno dei risultati costruttivi importanti comunque raggiunti nei Principii fu, per esempio, l’affinamento formale delle nozioni di personalità e sovranità dello Stato, già attinte dall’insegnamento di Bluntschli fin dal saggio del 1885 sulla resistenza e poi perfezionate confrontandole con l’elaborazione che avevano avuto nell’opera di Gerber. Orlando ritenne di poter precisare la nozione gerberiana per definire la sovranità «come l’affermarsi dello Stato come giuridica persona, e quindi la fonte della sua generale capacità di diritto» (p. 45), una definizione che saldava sovranità e diritto, ovvero sovranità e limite giuridico al suo esercizio, che fondava insomma lo Stato liberale di diritto come Stato a un tempo sovrano e limitato appunto dal diritto.

    Ben più innovatori apparvero i Principii di diritto amministrativo (Firenze 1891), che segnarono un decisivo avanzamento del metodo, della dogmatica e della sistematica giuridica. Definivano la scienza del diritto amministrativo come «il sistema di quei principi giuridici che regolano l’attività dello Stato pel raggiungimento dei suoi fini» (p. 17) e «dalla definizione della scienza» ricavavano, «per via di deduzione, le [tre] parti costitutive di essa»: l’«organizzazione dell’amministrazione», l’«attività dell’amministrazione» e la «difesa del diritto individuale verso l’amministrazione» (p. 45)La definizione pose il ‘centro di gravitazione’ del sistema nella «nozione di attività amministrativa» (G. Miele, Contributi al diritto amministrativo, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, III [1953], p. 54), svolta dall’organizzazione amministrativa, e dunque riproduceva l’architettura concettuale pandettistica, accoglieva lo schema soggettivistico das Rechtssubject – die Rechtsgeschäfte, doppiava il dualismo privatistico tra soggetto e negozio.

    Lo Stato soggetto, persona giuridica, era titolare di una peculiare capacità di agire, la sovranità, che esercitava necessariamente tramite i suoi strumenti, gli organi (Principii di diritto amministrativo, p. 46), i quali nel loro insieme formavano, accanto all’organizzazione costituzionale, l’organizzazione dell’amministrazione (cui erano dedicati i libri secondo, terzo e quarto). Oltre a compiere attività di diritto privato comune, gli organi esercitavano la sovranità nella forma di ‘atti imperativi’, che nel loro complesso costituivano l’attività dell’amministrazione (libri quinto e sesto), sicché i privati, titolari dei diritti o degli interessi che assumessero lesi dall’attività amministrativa, potevano adire gli organi della giustizia ordinaria o amministrativa, preposti alla difesa giurisdizionale contro l’azione amministrativa (libro settimo). Il principio dello Stato persona giuridica appariva, infine, un presupposto necessario delle obbligazioni dello Stato (libro ottavo) e della responsabilità dello Stato per gli atti dei suoi funzionari. Al tema della responsabilità dello Stato era dedicata negli ultimi due capitoli del libro ottavo una riflessione insieme innovativa e tradizionale, volta a soddisfare le esigenze di specialità del diritto pubblico amministrativo, ma anche a «non alterare l’unità del diritto espressa dai principi del diritto comune civilistico» (G. Cazzetta, Responsabilità aquiliana, Milano 1991, p. 502).

    Nel 1891, nell’anno in cui uscirono i Principii di diritto amministrativo, Orlando fondò a Palermo l’Archivio di diritto pubblico. Nel Programma della rivista riassunse i nuovi principi metodici e teorici di diritto pubblico generale, di diritto costituzionale e amministrativo e nell’Archivio svolse in quegli anni una gran parte del lavoro di elaborazione teorica e di direzione culturale volto alla rifondazione della scienza del diritto pubblico secondo i canoni del nuovo metodo giuridico.

    Nella storia della giuspubblicistica italiana, l’Archivio risultò la prima rivista programmaticamente impegnata a elaborare un’identità disciplinare specialistica per il diritto costituzionale e per quello amministrativo e a dare inizio alla formazione di una ‘scuola nazionale’ di una nuova scienza del diritto pubblico italiano intesa come scienza giuridica autonoma, articolata in una pluralità di discipline specialistiche, capace di immettere i giuristi nelle forme dello specialismo giuridico e, attraverso esse, nelle istituzioni dello Stato nazionale.

    Il progetto dell’Archivio, interrotto nel 1896 (risorse per un breve periodo a Roma sotto la direzione di Orlando e Luigi Luzzatti tra il 1902 e il 1903, per riprendere le pubblicazioni nel 1909 col titolo di Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia e diventare l’organo ufficiale della giuspubblicistica italiana), venne continuato l’anno dopo con la pubblicazione, presso la Società Editrice Libraria di Milano, dei fascicoli iniziali del Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, che, nell’arco di quasi un trentennio e con il concorso di gran parte degli amministrativisti italiani, illustrò tutte le branche del diritto amministrativo.

    Nella partizione del Trattato, anticipata assieme alle teorie fondamentali nella Introduzione dell’opera e rappresentata anche in un grande prospetto grafico, Orlando riprendeva lo schema dei Principii, articolato nel dualismo soggettivistico organizzazione/attività − fedele, come abbiamo visto, al modello pandettistico soggetto/negozio − e nella distinzione dell’attività in giuridica e sociale; distribuiva la materia amministrativa in una serie di monografie, che seguivano in prevalenza un ordine espositivo, di tipo contenutistico, senza curarsi di raggruppare i diversi «istituti retti da comuni principi» in un quadro sistematico di teorie generali. Ma così operando si «contribuì in maggior copia al progresso scientifico della nostra scienza, perché, applicandosi direttamente al diritto positivo», finalmente si «ridusse nei freni della costruzione giuridica, certi gineprai di norme complessi e intricati» (M.S. Giannini, Profili storici della scienza del diritto amministrativo [1940], ora in Id., Scritti, II, Milano 2002, p. 151). Né, d’altra parte, il tentativo di inquadrare gli istituti giuridici in teorie generali fu sempre assente. Non mancarono nel Trattato monografie che miravano proprio alle «generalizzazioni e alle costruzioni sistematiche» e intendevano comporre i risultati delle indagini analitiche «in una sintesi sistematica, la teoria generale» (S. Romano, Le giurisdizioni speciali amministrative, in Primo Trattato, cit., III, pp. 507 s.).

    Il grande lavoro di ‘caposcuola’, promotore e organizzatore degli studi delle nuove scienze costituzionalistica e amministrativistica italiane svolto da Orlando poté dirsi esaurito intorno al 1900, con l’inizio della sua attività politica.

    Chiamato nel 1903 alla Sapienza di Roma − dove continuò l’insegnamento di Diritto pubblico interno sino al 1931, quando chiese il collocamento a riposo per evitare di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista, per riprenderlo poi nel 1947 con la prolusione su La rivoluzione mondiale e il diritto (in Scritti giuridici varii (1941-1952), Milano 1955, pp. 373-435), letta a sessantadue anni dalla prima − i suoi interventi scientifici assunsero, prevalentemente, la forma dei lavori d’occasione e della discussione di teorie altrui, a principiare dai gran temi della natura del diritto e del rapporto tra diritto e Stato, svolti in un confronto ininterrotto con le teorie, formulate dal suo allievo Santi Romano, del diritto come istituzione e della pluralità degli ordinamenti giuridici, tra i quali, a suo avviso, lo Stato rimaneva comunque «l’organizzazione giuridica per eccellenza» (Stato e diritto [1926], in Diritto pubblico generale, cit., p. 235) e, dinanzi a «i dissidi e gli urti sociali» di partiti, sindacati e classi, il «principale presidio di […] libertà politica» (Sul concetto di Stato [1910], ibid., p. 220) e l’«organo di un interesse generale, come rappresentante di una collettività di popolo» (Lo Stato sindacale nella letteratura giuridica contemporanea [1924], ibid., p. 331).

    In quel periodo il suo contributo scientifico più rilevante fu l’introduzione dell’opera di Georg Jellinek nella cultura giuridica italiana, con la traduzione e la prefazione del System der subjektiven öffentlichen Rechte nel 1912 (un libro cui si era rifatto già negli anni Novanta Romano nel saggio su La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, in Primo trattato, cit., I, pp. 111-220) e l’accoglimento del principio dell’autolimitazione dello Stato come loro presupposto (le cui aporie gli furono però ben presenti), cui fecero seguito la traduzione e l’annotazione della Allgemeine Staatslehre tra il 1921 (G. Jellinek-V.E. Orlando, La dottrina generale dello Stato, Milano 1921) e il 1949 (La dottrina generale del diritto dello Stato, Milano 1949).

    Orlando − che nel 1890 aveva sposato Ida Castellano (da cui ebbe sei figli), figlia di Ambrogio, fondatore del Lloyd Siciliano e socio dei Florio, la grande famiglia di imprenditori e armatori palermitani − iniziò l’attività politica nel 1895, quando si presentò nel collegio di Partinico contro l’uscente deputato Paolo Figlia, un vecchio parlamentare della Sinistra storica, fedelissimo sostenitore di Francesco Crispi: ottenne una buona affermazione personale ma non fu eletto. Con l’appoggio del ‘partito di Antonio di Rudinì’, fu eletto invece nel 1897, rimanendo rappresentante del collegio di Partinico sino alle dimissioni dal Parlamento, nel 1925.

    Seguì la maggioranza di centro-destra nel sostegno ai governi Pelloux e Saracco, ma il 20 giugno 1901 nel discorso di approvazione del bilancio dell’Interno prese le distanze dalla Destra e, aderendo ai motivi dell’intervento di Giovanni Giolitti, auspicò la neutralità dello Stato dinanzi alle agitazioni operaie e il riconoscimento del diritto di sciopero. Chiamato da Giolitti al ministero dell’Istruzione nel 1903, vi rimase sino al 1905 e realizzò la riforma della scuola primaria: una riforma non organica, ma importante, perché estendeva l’obbligo scolastico dal nono al dodicesimo anno di età, migliorava le condizioni economiche degli insegnanti e sosteneva l’assistenza scolastica.

    Con Giolitti fu di nuovo ministro, di Grazia e Giustizia dal 1907 al 1909, quando portò a compimento la riforma dell’ordinamento giudiziario che unì alle garanzie di status giuridico dei magistrati e all’istituzione del Consiglio superiore della magistratura l’avvio di un processo di burocratizzazione e il rafforzamento del ruolo interno di direzione svolto dagli alti gradi, destinato a divenire il principale canale di trasmissione dell’influenza politica sulla magistratura. Nel 1908 fu autore dello statuto giuridico degli impiegati dello Stato, basato su un sistema di tutele inderogabili dei pubblici dipendenti, che confermò nel 1919 con la legge sull’impiego privato.

    Ancora ministro di Grazia e Giustizia con Salandra, dal 1914 al 1916, preparò il disegno di legge per la «difesa economica e militare dello Stato» con l’attribuzione al governo dei pieni poteri in un ampio numero di materie, e predispose l’ordinamento della legislazione di guerra. Come già nella sua precedente attività ministeriale, operò anche per il miglioramento dei rapporti tra Stato e Chiesa e, intervenuta la guerra, seppe garantire la salvaguardia delle prerogative sovrane e delle immunità diplomatiche assicurate alla S. Sede dalla legge delle guarentigie.

    Questi buoni rapporti furono la premessa dei colloqui riservati a Parigi con l’inviato pontificio, monsignor Bonaventura Cerretti, tra il maggio e il giugno 1919, nei mesi della conferenza della pace, volti a predisporre una soluzione normativa del rapporto tra lo Stato italiano e la Chiesa, contatti che Orlando volle più tardi ricordare come una preparazione del Concordato del 1929 (Miei rapporti di governo con la S. Sede, Napoli 1930, 2a ed. Milano 1944, rist. Bologna 1980).

    Ministro dell’Interno con Paolo Boselli dal 1916, avendo ispirata la sua azione di governo del ‘fronte interno’ al rispetto delle libertà costituzionali, venne coinvolto in un durissimo scontro con il comando supremo di Luigi Cadorna, che lo accusò di mancata repressione del disfattismo dei partiti estremi.

    Fu presidente del Consiglio dal 29 ottobre 1917 al 23 giugno 1919; dai giorni della rovinosa sconfitta di Caporetto a Vittorio Veneto seppe dirigere l’enorme sforzo di resistenza militare e civile del paese, che accompagnò e sostenne con la sua efficacissima oratoria parlamentare ed eloquenza politica, una retorica patriottica culminata in memorabili discorsi parlamentari come quello del «Resistere! resistere! resistere!» del 22 dicembre 1917 o quello del «Monte Grappa, tu sei la mia patria!» del 23 febbraio 1918, che concorse a fondare ‘la leggenda del Piave’.

    Alla vittoria seguirono le delusioni della Conferenza della pace a Parigi, dove sulla questione adriatica finì con esaurirsi in sei mesi di negoziati inconcludenti, tra il gennaio e il giugno 1919, l’intera attività della delegazione italiana guidata da Orlando e dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino. Le incertezze e le divergenze della delegazione, tra il rispetto integrale del patto di Londra e la volontà di servirsene come mezzo di scambio per ottenere Fiume, le oggettive difficoltà delle rivendicazioni italiane che si scontravano con il nazionalismo slavo, la politica filoslava del presidente americano Thomas Woodrow Wilson e le chiusure francesi e inglesi, portarono all’isolamento dell’Italia, al messaggio di Wilson diretto al popolo italiano il 23 aprile e all’abbandono della conferenza da parte della delegazione italiana il giorno successivo.

    Il rientro a Roma, il bagno di folla del 26 e il voto di fiducia della Camera del 29 aprile non influirono affatto sulla conferenza, che continuò senza i delegati italiani. Orlando e Sonnino rientrarono a Parigi il 7 maggio a seguito delle pressioni di Francia e Inghilterra e senza giustificazioni ufficiali. L’insuccesso diplomatico, attribuito all’indecisione e alla debolezza della linea politica di Orlando, compromise il prestigio del governo e del paese, diffuse il sentimento di un’umiliazione subita, creò il mito della ‘vittoria mutilata’ e provocò la caduta del governo il 19 giugno 1919.

    Lasciato il governo, dal 1919 al 1920 Orlando fu presidente della Camera dei deputati. Di fronte alla lotta politica e sindacale del dopoguerra e alla nascita e all’affermarsi del movimento fascista, assunse, come buona parte della classe dirigente liberale, un atteggiamento favorevole a quest’ultimo, perché, come scrisse nel novembre 1922, all’indomani della marcia su Roma, in una delle sue corrispondenze inviate al giornale La Nación di Buenos Aires, riteneva il fascismo un movimento di necessaria reazione a una «profonda crisi istituzionale»: allo «stato patologico» del governo parlamentare tramutato in un «direttorio», nella «più anarchica e perniciosa forma di governo che la storia delle costituzioni conosca», in un’«assemblea di delegati dei gruppi» parlamentari e degli interessi partitici e particolaristici, in cui la legge elettorale proporzionale, invano da lui osteggiata, aveva dissolto il parlamento, infrangendo «la spirituale unità del popolo» e provocando la «permanente impotenza di costituire un forte e saldo governo» (Cianferotti, 1980, pp. 220 s.)

    Sembra che la notte tra il 27 e il 28 ottobre 1922 Orlando intervenisse presso il re Vittorio Emanuele III perché non firmasse il decreto di stato d’assedio predisposto dal governo Facta per reprimere l’insurrezione fascista e opporsi alla marcia su Roma. Lo raccontano le memorie di Dino Grandi (Il mio paese, Bologna 1985, pp. 181 s.) e lo attesta una lettera autografa indirizzata a Orlando il 28 luglio 1943 dallo stesso Grandi, che ricordava «l’episodio che tutti ignorano: quando il 27 ottobre [1]922 Ella intervenne presso il Sovrano per evitare la guerra civile a seguito di una visita che allora Le feci» (Archivio centrale dello Stato, Archivio V.E. Orlando, b. 12, f. 588).

    Nel 1924, dopo aver appoggiato il governo fascista e svolto un ruolo di primo piano nella stesura della nuova legge elettorale maggioritaria, la legge Acerbo (cfr. anche una lettera di Giacomo Acerbo a Orlando del 21 giugno 1923, ibid., b.1, f. 7), ed essere stato eletto nel listone nazionale, fu sorpreso dall’assassinio di Giacomo Matteotti mentre si trovava impegnato in un viaggio in Sud America. Non aderì all’Aventino ma il 22 novembre 1924, in occasione della votazione del bilancio del ministero dell’Interno, passò all’opposizione, seguendo di pochi giorni la scelta compiuta da Giolitti.

    Il discorso che in quell’occasione pronunciò alla Camera risultò la confessione pubblica delle ragioni dell’abdicazione della classe dirigente liberale in favore del governo fascista. Fu il discorso «di una crisi di coscienza, che segnava la fine della «fiducia» riposta sino ad allora nel fascismo, la «fiducia» che aveva giustificato l’intera sequenza degli eventi di quegli anni in nome della legge storica della «necessità, per la salvezza del paese»: dall’«atto extra-parlamentare e […] di violenza» della marcia su Roma al voto di fiducia parlamentare per «una sanatoria […] della violenza [e] la legalizzazione della illegalità», alla «dittatura» del governo fascista (perché «non v’è incompatibilità tra dittatura e governo parlamentare», purché «la dittatura sia temporanea»), alla «cooperazione» con esso. Ma ora la «fiducia» nel governo fascista come «controrivoluzione» capace di restaurare il regime parlamentare era venuta meno, soprattutto perché «oltre» e «accanto» al governo si era imposto «un altro potere costituzionalmente indefinito e indefinibile, cioè il potere del partito politico» fascista: «questo quid, imprecisato e imprecisabile, che si chiama partito, colla sua organizzazione non statale e che può essere antistatale, il quale interviene, il quale svia l’azione dell’autorità, […] sovverte le basi del regime» parlamentare e ferisce «nella sua essenza il principio dello Stato». Nello statualismo liberale orlandiano mancava uno spazio teorico per il partito politico (che contrastava con l’«unità organica» del popolo e con l’unità e la sovranità della persona giuridica statale) e dinanzi a un partito fascista che addirittura si poneva «come un’entità accanto al governo, concorrente all’esercizio dei poteri sovrani» e annunciava così il sorgere dello Stato totalitario del Novecento, la sua «ripugnanza» era «insuperabile»» (Discorsi parlamentari di Vittorio Emanuele Orlando, IV, Roma 1965, pp. 1566-1575).

    Dopo il famoso discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, nella tornata del 16 gennaio un intervento di Orlando nella discussione sulle modifiche della legge elettorale fatto per illustrare un energico ordine del giorno recante, tra le altre, le firme di Giolitti e di Salandra, che denunciava la violazione di tutte le libertà costituzionali a causa degli «attuali metodi di governo», venne ripetutamente e aspramente interrotto da Giuseppe Bottai, Italo Balbo e dallo stesso Mussolini (Discorsi, cit., IV, pp. 1576-1584). Il 10 agosto dette le dimissioni da deputato e si ritirò dalla vita politica per le sopraffazioni e le violenze subite nelle elezioni amministrative palermitane, dove si era presentato a capo di una lista antifascista. Dopo l’abbandono dell’Università, nel 1931, si dedicò solo alla professione di avvocato e non prese più parte alla vita politica, eccetto la lettera indirizzata a Mussolini il 3 ottobre 1935 in occasione della guerra d’Etiopia, in cui offriva la sua opera «nella pura forma del servizio» alla patria.

    Convocato dal re alla vigilia della caduta di Mussolini, fu autore della famosa frase «la guerra continua» (ibid., cit., IV, p. 1692; cfr. anche una minuta di lettera di Orlando a Palmiro Togliatti datata 23 giugno 1945, con annotazione autografa, «lettera progettata ma non inviata», in Archivio centrale dello Stato, Archivio V.E. Orlando, b. 24, f. 1163), ma anche radicalmente contrario alle esitazioni del re e di Pietro Badoglio che portarono al disastro dell’8 settembre. All’indomani dell’armistizio e sino alla liberazione di Roma trovò rifugio in una casa di religiosi sotto la protezione del Vaticano.

    Tornato all’attività politica dopo la liberazione di Roma, nominato nel settembre 1945 alla Consulta su designazione del Partito liberale, presiedette la commissione per le modifiche al decreto luogotenenziale 25 giugno 1944 n. 151 relativo all’Assemblea costituente, stabilite dal decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946 n. 98, che sottrasse alla Costituente e affidò a un referendum popolare la decisione sulla forma istituzionale dello Stato (Repubblica o Monarchia).

    Il 9 marzo 1946, come relatore sulla proposta di modifica, Orlando riprese dopo ventun anni la parola a Montecitorio in un discorso che volle intitolare «Da un’epoca ad un’altra», come testimone ed «estremo superstite» («di un’altra età, di un altro mondo, di un’altra storia») di un’epoca storica e costituzionale che si chiudeva e di un’altra che si apriva, un discorso di cui l’Assemblea deliberò l’affissione negli albi pretori dei Comuni italiani.

    Eletto alla Costituente tra i candidati indipendenti proposti dalla Unione democratica nazionale, presiedette quale decano le prime due sedute dell’assemblea del 25 e 26 giugno 1946. Non fu designato a far parte della Commissione dei 75 delegata a redigere la bozza della nuova Costituzione. Su di essa intervenne in maniera radicalmente critica nel discorso del 10 marzo 1947, a cominciare dalla forma di governo, negando che quella prevista fosse una forma di governo parlamentare e che anzi, per i limiti imposti ai poteri del capo dello Stato e «per la debolezza del potere esecutivo», rischiava di mutarsi in una confusa forma di governo assembleare di giacobina memoria.

    La fedeltà alle antiche convinzioni liberali, il modello storicistico di fondazione delle libertà costituzionali, l’avversione al giacobinismo politico-costituzionale risultavano perfettamente contrari ai principi e agli istituti che fondavano la legittimità stessa dell’attività costituente e della nuova Costituzione repubblicana: dalla dottrina del potere costituente al concetto di una legalità costituzionale sovraordinata alla legge ordinaria, dalla nozione di rigidità della Costituzione all’istituzione di una Corte costituzionale e alla formulazione di norme programmatiche, come quelle contenute nel titolo secondo della parte prima della Costituzione sui rapporti etico-sociali, da lui ritenute lesive della certezza del diritto e che invano tentò di far eliminare (Fioravanti, 1988, pp. 288-290; Quaglioni, 2007, pp. 421-459). I suoi pensieri e le sue idee non ebbero, insomma, «alcun peso sulle decisioni dei costituenti italiani» (C. Esposito, La dottrina del diritto e dello Stato di V. E. Orlando, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, III [1953], p. 93).

    Quanto ai suoi interventi alla Costituente in materia di politica estera, furono fatalmente dominati dalla sua storia personale di ‘presidente della Vittoria’ che aveva portato al compimento dell’Unità d’Italia; ciò spiega la strenua opposizione alla ratifica del Trattato di pace, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, avversione giunta sino ad accusare il 30 luglio 1947 i negoziatori di abiezioni fatte per cupidigia di servilismo.

    Nominato senatore di diritto in base alla terza disposizione transitoria della Costituzione, partecipò ai lavori del Senato sui maggiori temi di politica estera e interna. Si astenne nel voto di adesione al Patto Atlantico, criticò la proposta della Comunità europea di difesa (CED) e prese posizione contro la legge maggioritaria. Il suo tempo di ‘estremo superstite’ della vecchia Italia liberale era passato.

    Morì a Roma il 1° dicembre 1952 dopo una breve malattia. Il 19 novembre aveva discusso la sua ultima causa di fronte alla seconda Sezione civile della Cassazione e Piero Calamandrei ebbe la ventura di essergli associato nello stesso patrocinio.(fonte)

    Il Capello, di sua iniziativa, fece dell’azione complementare sul rovescio di Tolmino l’operazione principale: ma proprio l’azione contro le alture di Tolmino, compiuta dalla destra del XXVII corpo, naufragava per prima, e falliva. poteva considerarsi il 21 agosto anche l’azione sul Carso. Tuttavia, al centro il XXIV corpo comandato da E. Caviglia avanzava, mentre alla sua destra il B. con le tre divisioni del II corpo vincolava più di due divisioni austriache. Ma invece di concentrare gli sforzi al centro, il Capello s’intestava contro le alture di Tolmino: esonerava il comandante del XXVII corpo e, il 22 agosto, in piena battaglia, poneva al suo posto il B., che, essendosi gli Austriaci rinforzati da quel lato, poté ottenere però solo qualche successo locale. Comunque il 23 agosto gli era confermata la promozione straordinaria per merito di guerra a tenente generale e il 14 ottobre aveva il comando effettivo del XXVII corpo d’armata che aveva finito per trovarsi a cavaliere dell’Isonzo, con tre divisioni sulla sinistra dei fiume e una, più grossa, sulla destra.
    Si avvicinava intanto il turbine della grande offensiva tedesco-austriaca sull’Isonzo, in un momento di particolare stanchezza per l’esercito italiano.
    Il 18 sett. 1917 il Cadorna ordinava alla 2ª e 3ª armata di concentrare ogni attività nei preparativi per la difesa ad oltranza, ma, credendo poco a una grande offensiva nemica in un settore montano con la stagione avanzata, non prendeva le misure di sua spettanza, quali la costituzione di una riserva strategica sul medio Tagliamento e l’emanazione di precise norme sulla condotta della battaglia difensiva. Lasciava perciò praticamente mano libera al Capello, che intendeva, appena arginato l’impeto nemico, sferrare una controffensiva dalla Bainsizza a continuazione dell’offensiva fallita nell’agosto. Solo il 19 ottobre, avuta piena coscienza dell’imminente offensiva nemica, il Cadorna prescriveva tassativamente la difesa ad oltranza: il provvedimento era però tardivo e l’offensiva nemica coglieva l’esercito italiano in piena crisi di schieramento, con l’artiglieria priva di una sicura dottrina difensiva. La pressione nemica si ebbe il 24 ottobre principalmente proprio all’ala sinistra del XXVII corpo d’armata, comandato dal B., e qui si verificarono le due penetrazioni decisive, quella della 12ª divisione slesiana da Tolmino fin oltre Caporetto, grazie alla quale il contiguo IV corpo fu preso alle spalle, e la penetrazione dell’Alpenkorps tedesco sulle alture fronteggianti Tolmino, per cui fu scardinato il VII corpo posto come difesa arretrata e aggirato il caposaldo italiano dello Jeza. Davanti a Tolmino mancò quasi il tiro di contropreparazione e poi quello di sbarramento. Il B. in quella triste giornata restò tagliato fuori dalle sue truppe, cercando invano di raggiungere la sede del comando della sua artiglieria, e solo alle 16 fu in grado di rendersi parzialmente conto della situazione. I suoi difensori hanno voluto vedere in lui, in seguito, soprattutto la vittima della disobbedienza del suo superiore e maestro, il Capello, che avrebbe voluto sferrare la controffensiva proprio all’estrema ala destra del corpo di B., e che era assertore del semplicistico principio del tiro di sbarramento all’ultimo momento. Sta di fatto che, a differenza degli altri generali, il B., che pure in seguito scrisse a lungo sull’opera propria in altre circostanze, sul 24 ott. 1917 nulla scrisse, né ha lasciato alcun documento, sebbene l’argomento riguardasse anche l’onore e il prestigio di vari altri generali, fra cui il suo protettore Capello, e il buon nome del soldato italiano.
    A sera il B. per vie traverse si portava nella zona del Globokak, importante altura alla testata della valle dello Judrio, per la difesa della quale il Capello gli aveva già assegnato la 47ª divisione bersaglieri; intanto le divisioni del XXVII corpo rimaste oltre l’Isonzo passavano agli ordini del gen. Caviglia. Venuto l’ordine di portare la difesa su una linea che andava dal Monte Maggiore al Kuk-Vodice, anche il B. retrocedeva e con il suo corpo d’armata, ricostituito con la 47ª divisione più la brigata Taranto e alcuni battaglioni d’assalto, ebbe il compito di difendere il tratto Judrio-monte Corada. Ma il 27 ottobre sopraggiungeva l’ordine di ritirata al Tagliamento e il nemico entrava in Cividale. La divisione bersaglieri, separata dal resto, si aggregò alle truppe di Caviglia; il XXVII corpo veniva quindi ricostituito per la seconda volta, dietro il Torre, con la 13 divisione al posto della 47ª. Il 28, superata anche la debole linea dietro il Torre, gli Austriaci giungevano a Udine. Il B. con due battaglioni di arditi e poche altre truppe ripiegò a nord-ovest verso San Daniele, mentre il resto del XXVII corpo si dirigeva a ovest verso Codroipo. Con le poche forze rimastegli il B. contribuì alla difesa sul canale di Ledra e poi a quella della testa di ponte di San Daniele, assieme alla cavalleria e ai bersaglieri ciclisti, e il 30 ottobre passava dietro il Tagliamento.
    L’8 novembre il Cadorna era sostituito nella carica di capo di Stato Maggiore dal gen. A. Diaz, con il gen. G. Giardino quale sottocapo, ma due giorni dopo veniva nominato un secondo sottocapo nella persona del Badoglio.
    Quest’ultima nomina non destò sulle prime meraviglia: l’infelice bollettino di Cadorna dei 28 ottobre rovesciava tutta la colpa dell’improvvisa rotta sulle truppe, e il disastro nella sua stessa fulmineità e gravità non lasciò dapprima discernere le singole responsabilità. Per di più proprio il XXVII corpo, rimesso in sesto per la terza volta, non fu sciolto come tanti altri; il B. inoltre ebbe una medaglia d’argento per la difesa di San Daniele. La sua nomina si dovette a L. Bissolati, che già al tempo della conquista del Kuk e del Vodice, parlando con il direttore della Tribuna O. Malagodi, aveva definito il B. “soldato splendido, mio vecchio amico”.
    Entro il triumvirato, nelle cui mani erano poste le sorti d’Italia oltreché dell’esercito, il B. si occupò con lena instancabile e in modo veramente egregio soprattutto della parte organizzativa: lavoro immane quando si pensi che l’esercito era letteralmente dimezzato e che in quattro mesi vennero ricostituite 50 brigate di fanteria e 409 batterie. A metà febbraio 1918 il Giardino lasciava il Comando supremo e unico sottocapo di Stato Maggiore restava il B., che fu veramente il braccio destro di Diaz, tanto che, quando la Commissione d’inchiesta su Caporetto chiese di averlo a disposizione, il Diaz si oppose, non volendo privarsi di un così valido collaboratore in vista della grande offensiva austriaca. Il B. seppe far tesoro dell’esperienza dolorosa dell’ottobre: ebbe parte notevole nel definire i criteri per la nuova sistemazione difensiva del terreno e per l’impiego dell’artiglieria e delle mitragliatrici nell’azione difensiva. Dopo la battaglia del Piave, veniva elevato (27 giugno 1918) al rango di comandante d’armata per merito di guerra. Anche nella preparazione della battaglia di Vittorio Veneto ebbe una parte importante. Presiedette infine la commissione d’armistizio e, di fronte ai tentativi dilatori degli Austriaci, mostrò dignitosa energia. Per la sua opera dal novembre 1917 al novembre 1918 fu creato cavaliere di gran croce dell’Ordine Militare di Savoia e il 24 febbr. 1919 venne nominato senatore.
    Nel marasma del dopoguerra il B. si trovò a partecipare in primo piano alle vicende della questione adriatica. Per ordine del presidente del consiglio Nitti aveva assunto nell’estate il comando dell’8ª armata e si era trasferito a Udine; dopo l’occupazione di Fiume da parte di D’Annunzio, veniva nominato commissario straordinario nella Venezia Giulia (14 novembre). Era suo compito impedire altri pronunciamenti militari e un ulteriore inasprimento della già difficile situazione. E realmente seppe agire con tatto, valendosi dell’influenza che aveva sul poeta; ma, desiderando levarsi presto da quel ginepraio, il 24 novembre accettava la carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito, in sostituzione di A. Diaz, ritiratosi per motivi di salute. Tre giorni prima era stato promosso generale d’esercito per merito di guerra.
    Nella nuova veste dovette affrontare la grave questione del riordinamento dell’esercito secondo l’esperienza del grande conflitto e nell’ambito della nuova situazione politica: questione che suscitava dissensi profondi fra conservatori e democratici e che portò il B. ad urtarsi col ministro della Guerra I. Bonomi. Il 3 febbr. 1921 si dimetteva dall’alta carica, rimanendo soltanto membro del Consiglio dell’esercito, organo consultivo allora creato. Era inviato quindi in Romania per decorare le città di Bucarest, Jaşi e Galati, e i sovrani dello Stato amico; a fine giugno partiva per una missione negli Stati Uniti, per esprimere la riconoscenza dell’Italia verso i suoi figli in America, che tanto patriottismo avevano mostrato durante la guerra, e per far conoscere oltre Oceano il grandioso sforzo compiuto allora dal nostro paese.
    Intanto il movimento fascista prendeva vigore. Dapprima il B. l’aveva guardato con una certa indulgenza, ma poi il dilagare delle violenze e la rumorosa adesione ad esso da parte di Capello l’avevano reso diffidente e quasi ostile. Alla vigilia della marcia su Roma, nell’ottobre del ’22 interpellato dal Facta, il B. dichiarò che con dieci o dodici arresti al massimo il governo avrebbe potuto stroncare tutto il movimento. Rimase quindi per oltre un anno in disparte, sino a che, alla fine del 1923, compì il primo accostamento al fascismo, accettando la carica di ambasciatore straordinario in Brasile. Restò in quella sede per un anno e mezzo, ma già nel giugno ’24, quando l’Italia fu scossa dal delitto Matteotti, egli inviava un telegramma di netta solidarietà a Mussolini. Questi, dopo essersi posto decisamente sulla via della dittatura con il discorso del 3 genn. 1925, non tardò a chiamare a sé il B. nominandolo capo di Stato Maggiore generale (4 maggio). Continuavano più che mai le polemiche sul riordinamento dell’esercito, e il compromesso tra conservatori e democratici tentato dal ministro della Guerra, gen. A. Di Giorgio, aveva suscitato un vespaio fra gli stessi militari. Mussolini, riuniti nelle sue mani i tre ministeri militari, con tre docili sottosegretari, intendeva creare le forze armate dell’Italia fascista e valersi dello stesso B. come semplice strumento. Tanto più che il 7 nov. 1925, fallito l’attentato Zaniboni con la rovina del gen. Capello, passato ormai all’antifascismo militante, il B. aveva nuovamente espresso a Mussolini la propria solidarietà.
    Cominciava così il grande equivoco, destinato a protrarsi per quindici anni e in forma sempre più grave dopo il 1936, fra il B., che in fondo non era fascista, ma si considerava la più alta personalità militare italiana e, non rassegnandosi a restare in disparte, si adattava ad accomodamenti sempre meno sinceri, e Mussolini, sempre più intollerante di ogni obbiezione. Dal canto suo il re, sempre più esautorato da Mussolini, cercava di tenere il B. legato a sé.
    Tra il 1926 e il 1929 si verificava un progressivo esautoramento di B. a vantaggio delle velleità militari di Mussolini, ma accompagnato da un contemporaneo crescendo di onorificenze. L’11 maggio 1926 si aveva l’”ordinamento Mussolini” dell’esercito; in compenso quindici giorni dopo il B. era creato maresciallo d’Italia. Il 6 febbraio del 1927 il capo di Stato Maggiore generale veniva ridotto come dice il decreto di nomina a consulente tecnico del Capo del Governo per quanto concerne la coordinazione e la sistemazione difensiva dello Stato e i progetti di operazione in guerra; e colle attribuzioni, in tempo di guerra, che saranno stabilite per la sua carica dal Governo”. Il 12 giugno 1928 però il re nominava il B. marchese del Sabotino. Si era intanto acuito l’attrito con il sottosegretario gen. Cavallero; alla fine di quell’anno Mussolini nominava il B. governatore della Tripolitania e Cirenaica, pur lasciandogli la carica di capo di Stato Maggiore generale, e il 6 genn. 1929, poco prima che partisse per Tripoli, il re lo creava cavaliere dell’Ordine della SS. Annunziata.
    Si trattava di completare la riconquista e la sottomissione della Libia. Dopo il successo dell’azione condotta nel Fezzan dal gen. R. Graziani, fra il dicembre 1929 e il febbraio 1930, grazie soprattutto all’aviazione, il B. poteva volgere l’attenzione alla Cirenaica, ove nominava vicegovernatore lo stesso Graziani. Alla fine del 1930, con metodi durissimi, anche la Cirenaica era sottomessa e nel gennaio 1931 riconquistata l’oasi di Cufra. Il B. si dedicava quindi all’opera di riordinamento e di colonizzazione. Il 4 febbr. 1934 lasciava definitivamente la Libia.
    Lasciati nel 1929 i ministeri militari, Mussolini ne riprendeva i portafogli in vista della conquista dell’Etiopia. Nel periodo 1929-33 era stata allestita una nuova aviazione e iniziato il rinnovamento del naviglio di guerra, ma l’esercito era rimasto nelle vecchie condizioni di preparazione. Gravissimo si presentava in particolare per una azione in Etiopia il problema logistico, mentre di fronte all’ostilità della Società delle Nazioni sarebbe stato necessario invece agire con grande celerità, sia per presentare il fatto compiuto, sia per non essere sorpresi dalla stagione delle piogge. Per questi motivi il B. era contrario all’impresa; seguì però tutti i preparativi e compì anche un viaggio in Eritrea. Mussolini avrebbe desiderato che l’impresa fosse attuata da un generale fascista, il quadrumviro De Bono, che in effetti il 3 ott. 1935 iniziava le ostilità con l’occupazione di Adigrat, Adua e Axum, e, dopo una necessaria sosta, Macallè (8 novembre). Ma, per il suo procedere, troppo lento agli occhi di Mussolini, fu sostituito dal Badoglio.
    Questi il 30 novembre sbarcava a Massaua, trovandovi una situazione non favorevole, ad onta dello sforzo grandioso dei mesi precedenti. Mentre gli Italiani si erano spinti avanti per centinaia di chilometri, gli Abissini avevano compiuto la mobilitazione e la radunata prima del previsto e, contro le loro precedenti abitudini, prendevano l’iniziativa dell’offensiva, tendendo a tagliare la lunga linea di operazione italiana con una duplice azione sul fianco destro, l’una a raggio ristretto, l’altra ad amplissimo raggio; contemporaneamente una grossa massa avanzava frontalmente. Molto saggiamente il B., lungi dal proseguire nell’avanzata, decise di prolungare la sosta per migliorare tutta la sistemazione logistica e tattica, e chiese altre due divisioni in rinforzo alle sette già sul posto. Gliene furono mandate tre, mentre altre due divisioni rafforzavano il fronte somalo. La situazione delle forze contrapposte era pertanto ben diversa da quella del 1895-1896, allorché 20.000 Italiani fronteggiavano 100.000 Abissini: adesso di fronte ai 215-000 Abissini, con pochi cannoni e senza aviazione, l’Italia allineava 200.000 uomini con 750 cannoni, 7000 mitragliatrici e 350 aerei. L’azione abissina a largo raggio, stante l’opportuno ripiegamento del II corpo italiano fino ad Axum, si risolveva alla fine di dicembre in una puntata nel vuoto; quella a raggio più ristretto era fermata con la prima battaglia del Tembièn. Dopo tre mesi di sosta, gli Italiani, sicuri sul fianco destro, riprendevano l’offensiva: con la battaglia dell’Amba Aradam (11-15 febbr. 1936) il B., con duplice azione convergente, sostenuta validamente dall’aviazione e da opportuni concentramenti d’artiglieria, annientava la massa principale nemica, composta di 80.000 uomini, di fronte a Macallè; quindi con abili mosse combinate annientava successivamente le due masse ancora impegnate nell’azione avvolgente, mentre il 28 febbraio sulla principale direttrice di marcia occupava l’Amba Alagi. Dopo un altro periodo di sosta il B. riprendeva ad avanzare e il 31 marzo sbaragliava presso il lago Ascianghi la guardia del corpo del negus. Intanto dalla Somalia avanzava vittorioso il gen. Graziani e il negus fuggiva imbarcandosi a Gibuti. Il 5 maggio il B. entrava in Addis Abeba alla testa di una spedizione autocarrata, partita da Dessiè dodici giorni prima.
    Proclamato l’impero il 9 maggio, il B. fu nominato viceré d’Etiopia e l’11 duca di Addis Abeba; ma lasciò subito il posto al gen. Graziani per rientrare in Italia e riprendere le sue funzioni di capo di Stato Maggiore generale. Roma gli conferì la cittadinanza onoraria e il partito fascista gli dette la tessera ad honorem. Nell’ottobre dello stesso 1936 il B. narrava gli avvenimenti d’Etiopia nel volume La guerra d’Etiopia, edito a Milano, che recava una prefazione di Mussolini.
    Nel settembre 1937 il B. succedette a G. Marconi nella presidenza del Consiglio delle ricerche, venendo così a trovarsi a capo del Comitato nazionale per l’indipendenza economica e della Commissione per gli studi sulle materie fondamentali per la difesa. Ma le sue fortune cominciavano a declinare. Il 30 marzo 1938 Mussolini annunziava al senato che la guerra futura sarebbe stata guidata da lui solo, e poco dopo si faceva proclamare dalla Camera e dal Senato, insieme con il re, primo maresciallo dell’Impero, suscitando lo sdegno, senza conseguenze, del sovrano e del Badoglio. In realtà, Mussolini intendeva così dividere con il B. la direzione delle cose militari, lasciandogli l’alta direzione degli apprestamenti bellici e riservando per sé il supremo comando in guerra. Il compito di B. si faceva sempre più arduo: la guerra e la sistemazione d’Etiopia, la guerra di Spagna, l’occupazione dell’Albania avevano assorbito e disperso le scarse risorse; ormai la sua voce era ben poco ascoltata da Mussolini, al quale egli disse a volte la cruda verità, indulgendo altre volte a un ottimismo di maniera estremamente pericoloso.
    Allo scoppio della seconda guerra mondiale il B. fu per la neutralità: il 26 maggio 1940 giunse a dichiarare a Mussolini che l’entrata in guerra sarebbe stata un suicidio, ma, tre giorni dopo, nel consiglio di guerra tenuto da Mussolini, non sollevò alcuna opposizione o riserva. Scesa in campo anche l’Italia, il B., pur nella sua alta carica, non prese parte attiva alle decisioni sulla condotta della guerra, che Mussolini, spesso senza neppure preavvisarlo, riservava a sé. Pure continuò a pazientare: anche quando Mussolini decise di invadere la Grecia, non seppe tenere un contegno deciso. Solo quando, cominciati i rovesci sul fronte greco e attaccato con virulenza da R. Farinacci su Regime Fascista, non ottenne soddisfazione, si dimise (4 dic. 1940).
    Visse allora a Roma il 1941 e 1942 tenendosi appartato, ma nella primavera del 1943, in coincidenza con l’aggravarsi della situazione dell’Italia nel conflitto, cominciò a prendere contatti con elementi antifascisti e con il re, con il quale aveva avuto buoni rapporti negli anni precedenti. Non prese parte alla preparazione degli avvenimenti che portarono, il 25 luglio 1943, alla caduta di Mussolini e al suo arresto, ma i contatti con la corte, anche tramite il conte Acquarone, fecero sì che, quando si dovette cercare un militare da porre a capo del nuovo governo, la scelta cadesse su di lui, anziché sul gen. Caviglia, come era stato proposto da D. Grandi.
    Il B. per il suo passato non rappresentava certo un elemento di rottura decisiva con il fascismo, ed era quindi l’uomo adatto agli scopi del sovrano, che lo poneva alla presidenza di un ministero di tecnici e di funzionari con pieni poteri e con il compito di avviare il distacco dalla Germania nazista e di cercare una via d’uscita dalla guerra. Ma il governo di B. iniziava con un tentativo di prendere tempo: nel proclama, scritto da V. E. Orlando e da B. solo sottoscritto trasmesso la sera del 26 luglio 1943, si diceva che la guerra continuava mantenendo fede alla parola data. In realtà continuare la lotta, dopo l’occupazione della Sicilia e con la disastrosa situazione dei rifornimenti, era impossibile, ma assai difficile era l’apertura di trattative con gli Anglo-Americani, molto diffidenti anche nei confronti del governo dei B., mentre assai arduo era lo sganciamento dai Tedeschi.
    Il ministero di B. visse nel timore di una ripresa da parte dei fascisti, di movimenti di sinistra e di un colpo di mano tedesco: in urto con gli esponenti democratici e antifascisti, non aveva neppure il cordiale appoggio del sovrano, che, troppo compromesso con il fascismo, non aveva voluto un ministero di carattere politico ed escludeva qualsiasi concessione agli elementi di sinistra. Così, respinta da Hitler la proposta di un incontro con il re, avanzata da B., a guadagnar tempo fu volto anche il convegno di Tarvisio (7 agosto) fra i ministri degli Esteri e i capi di Stato Maggiore generale italiani e tedeschi. Persa una settimana preziosa, furono avviate le trattative con gli Anglo-Americani, prima con sondaggi per via diplomatica, poi con l’invio di un militare, il gen. G. Castellano, in Portogallo, a prendere contatto con i rappresentanti degli Stati Maggiori alleati. Non si poté ottenere nulla più che la resa incondizionata: il 1° settembre il B., insieme con il capo di Stato Maggiore Ambrosio, e il ministro degli Esteri Guariglia, accettò il gravissimo armistizio, cui dette il proprio assenso il re, e che fu firmato il 3 settembre a Cassibile, presso Siracusa.
    In esso fra l’altro gli alleati si arrogavano pieno diritto di disarmo, smobilitazione e demilitarizzazione di tutte le forze militari italiane. L’articolo 12 del trattato preannunziava poi l’imposizione di altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario. Alle rovinose clausole del “corto armistizio” si sarebbero aggiunte così quelle del “lungo armistizio”. Al Castellano era però stato letto un “promemoria aggiuntivo”, concordato fra Churchill e Roosevelt, in cui era detto: “La misura nella quale le condizioni saranno modificate in favore dell’Italia dipenderà dall’entità dell’apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra”. Gli alleati prescrivevano inoltre che il governo italiano avrebbe proclamato l’armistizio subito dopo l’annuncio datone dal gen. Eisenhower, ordinando alle forze armate e al popolo di collaborare da quel momento con gli alleati e di resistere ai Tedeschi. Il Castellano ottenne che unitamente allo sbarco principale a sud di Roma un altro ne venisse effettuato nelle vicinanze della capitale, con una divisione aviotrasportata, paracadutisti e artiglieria, ma non poté saper altro se non che sbarco e proclamazione di armistizio sarebbero avvenuti un giorno “X”. La notte sull’8 settembre due ufficiali alleati venuti a Roma per accordarsi sull’operazione di sbarco presso Roma, resisi conto del rischio che avrebbero corso le truppe alleate per l’immediata vicinanza ai campi di aviazione di potenti forze tedesche, e dell’estrema difficoltà di ricevere un valido appoggio italiano, fecero sospendere l’aviosbarco. Il B. telegrafò chiedendo inutilmente agli Anglo-Americani di rinviare di alcuni giorni la dichiarazione dell’armistizio e implicitamente l’aviosbarco e le operazioni ad esso connesse; fallito questo tentativo, la sera dell’8 settembre trasmetteva per radio la notizia dell’armistizio. All’alba del 9 settembre il B., con i ministri militari e gli Stati Maggiori, circa un centinaio di persone, seguì il re e il principe ereditario a Brindisi nel precipitoso abbandono della capitale: si trattò di ben altro che di un regolare spostamento del governo, come allora si disse, e soprattutto ciò avvenne senza che venissero lasciati ordini precisi a chi restava nella più disperata situazione a Roma stessa e in tutte le località più lontane, ove i soldati italiani erano stati mandati a combattere. Tristemente ironica potrà suonare la tarda accusa lanciata da “radio Bari” ai primi di ottobre: “A Roma sono state lasciate sei divisioni contro due germaniche. A suo tempo saranno appurate le cause della resa della capitale”. Proprio a Roma reparti dell’esercito, già messi in stato di allarme dal gen. G. Carboni la sera dell’8, ed elementi popolari, avevano tentato, nel disfacimento degli organi di governo, una generosa resistenza ai Tedeschi, primo episodio di una più grande lotta contro il nazismo. Resistenza per nulla infeconda, perché valse a trattenere 60.000 Tedeschi con 600 carri armati medi e pesanti, quando gli Anglo-Americani compivano (9-16 settembre) con circa cinque divisioni soltanto lo sbarco nel golfo di Salerno ed era provvidenziale per il gen. Clark di poter disporre dell’82ª divisione aviotrasportata.
    Il 9 settembre a Roma il Comitato nazionale delle correnti antifasciste si mutava in Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) “per – chiamare si dichiarava – gli Italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni”; e tre giorni dopo si proclamava governo di fatto, espressione della volontà popolare. Il B. si trovava a Brindisi senza autorità; e più che mai diveniva pesante la sua posizione fra i sospetti degli alleati, l’ostilità degli antifascisti, e la diffidenza e scontentezza nei suoi riguardi dello stesso sovrano. Sotto un certo rispetto Churchill, con il suo discorso ai Comuni il 21 ottobre, prese le sue difese, dichiarando necessario che tutte le forze vive della nazione italiana si stringessero attorno al loro legittimo governo. Ma in realtà egli intendeva valersi, date le condizioni di confusione e di anarchia prevalenti in Italia, del re e di B. per ottenere la piena esecuzione delle clausole dell’armistizio; solo per salvare le apparenze parlava poi della necessità che venisse costituito un governo di coalizione antifascista, da mantenere sino al termine della guerra, quando il popolo italiano avrebbe deciso non già del proprio regime, ma semplicemente di un altro governo.
    Intanto, nell’immane tragedia del dissolvimento dell’esercito, non poche truppe italiane in Iugoslavia, in Grecia, a Lero, a Samo, a Cefalonia, isolate e senza ordini, ancora si battevano contro i Tedeschi, fino allo sterminio, o si univano ai partigiani greci e iugoslavi; e altre combattevano in Corsica, mentre nell’Italia occupata dai Tedeschi Napoli si ribellava il 27 settembre e si andava allargando ovunque la lotta partigiana. Nel “regno del sud” mentre alcuni animosi attorno a Benedetto Croce si adoperavano per crear formazioni di volontari, il B. pensava di organizzare un piccolo corpo regolare italiano. Il 28 settembre era infatti costituito a Brindisi un raggruppamento motorizzato agli ordini del gen. Dapino, composto da due battaglioni di fanteria, uno di bersaglieri, nove batterie di artiglieria, un battaglione controcarri. Negli stessi giorni il B. era avvertito di doversi trovare a Malta, con altri suoi capi militari, il 29; ma non fu per trattare della collaborazione militare, bensì per firmare il documento previsto dall’art. 12 delle condizioni di armistizio di Cassibile.
    Esso era intitolato “strumento di resa dell’Italia” e aggravava notevolmente le già durissime condizioni, ponendo a disposizione degli alleati tutti i mezzi di trasporto terrestri, acquei, aerei, tutti i mezzi di diffusione di notizie e di propaganda; sottomettendo al loro controllo la vita economica italiana e togliendo all’Italia ogni diritto a rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero. Anche ora però una lettera di Eisenhower al B. riconosceva come molte clausole fossero ineseguibili e che tutto poteva essere modificato con l’intensificarsi della cooperazione italiana. Il B. firmò; quanto all’entrata in guerra dell’Italia, affermò di poter apprestare, appena ritirate le truppe dalla Sardegna, da otto a dieci dìvisioni, ma non si impegnò circa la dichiarazione di guerra alla Germania, poiché tali erano gli ordini del re, che si illudeva di poterla negoziare.
    Tornato a Brindisi, il B. cercò di ottenere armi, trasporto in terraferma delle truppe della Sardegna, passaggio di questo territorio all’amministrazione italiana; ma il gen. Mac Farlane, capo della delegazione militare alleata, dichiarò che la guerra alla Germania era la premessa di ogni concessione alleata. Il re dovette cedere, e alla dichiarazione di guerra, comunicata l’11 ottobre via Madrid, fece seguito il riconoscimento dell’Italia quale co-belligerante. In realtà però il governo del re e di B. doveva servire quasi esclusivamente, non già a rafforzare l’azione militare italiana contro i Tedeschi, bensì a spremere dall’Italia quanto ancora fosse possibile. Dal canto suo il re, dopo aver invano preteso d’includere il gerarca fascista Dino Grandi nel ministero, si appoggiava a elementi fascisti e anche comunisti. Il B. tornava più che mai a trovarsi fra l’incudine e il martello: a Napoli nessuno voleva partecipare al suo governo, e a Roma il 16 ottobre il C.L.N. precisava il suo atteggiamento con un ordine del giorno che, fu detto, segnava “lo statuto fondamentale del C.L.N. in Italia”, ma sanciva pure il distacco dalla monarchia e dal suo governo da parte delle forze democratiche. In questa difficile situazione il B. il 24 ottobre manifestò al re con una lettera leale ed esplicita l’opportunità d’abdicare, lui e il figlio, per salvare la monarchia, creando una reggenza per il giovanissimo Vittorio Emanuele. Di eguale parere erano il conte Sforza, rimpatriato da poco dall’America, e Benedetto Croce: il re però non volle saperne, poiché riteneva che l’abdicazione avrebbe affrettato la caduta della monarchia. Intanto però la guerra assumeva, dal Volturno al Sangro, un carattere di logorio, e la liberazione di Roma appariva sempre meno prossima.
    Il 16 novembre il B. annunciava il completamento del governo, formato soprattutto con sottosegretari aventi funzione di ministri: la presenza alle Finanze dell’ex ministre fascista Guido Jung sollevò specialmente contro il re, ma anche contro il B., l’indignazione generale. Il B. cercò poi di impedire che venisse autorizzato un convegno dei C.L.N. delle province dell’Italia occupata, ma il 7 genn. 1944 gli alleati, dopo varie oscillazioni, dettero il consenso ed esso venne fissato per il 28-29 gennaio a Bari. Anche la preparazione militare andava a rilento; falliva la costituzione di corpi volontari autonomi, patrocinata dal Croce, ma osteggiata dal re e dagli alleati; costoro non volevano saperne neppure di forze regolari notevoli: non più di 14.000 uomini avrebbero dovuto combattere in prima linea. Non fu concessa la costituzione di otto o dieci divisioni, e si rifiutò il concorso di tre gruppi alpini per la guerra fra le aspre montagne del Sannio: dei 300.000 uomini disponibili gli alleati si servirono solo in parte, e per lavori nelle retrovie, mentre vuotavano i magazzini superstiti per mandare armi e indumenti ai partigiani greci e jugoslavi. L’aviazione italiana, che contava ancora trecento aeroplani, si prodigò fra continui rischi, ma non ricevette il materiale necessario per il ricambio e per le riparazioni; anche l’uso della flotta fu sempre limitato e contrastato. Alla fine i 5000 uomini del gruppo motorizzato furono portati in zona di guerra; essi parteciparono a Monte Lungo, dall’8 al 16 dicembre, alla grande lotta per il forzamento della stretta di Mignano, sulla via verso Cassino, distinguendosi per valore e subendo gravissime perdite.
    Il 22 genn. ’44 ebbe luogo lo sbarco alleato ad Anzio, potente diversivo che colse di sorpresa il gen. Kesselring; ma non si seppe sfruttarlo, e la liberazione di Roma restò sempre lontana. Intanto il gen. Eisenhower aveva lasciato la direzione della guerra nel Mediterraneo, e il gen. inglese Alexander, capo delle forze alleate in Italia, si mostrava ostilissimo al congresso di Bari. Una nuova soluzione del problema istituzionale, escogitata da Enrico De Nicola, e che comportava l’abbandono del potere da parte del re e la luogotenenza al figlio Umberto, fu ancora respinta da Vittorio Emanuele III. Ma al congresso di Bari si chiese all’unanimità l’abdicazione del re, si dichiarò che il governo doveva avere i pieni poteri fino all’elezione della Costituente e si elesse una giunta che prese a funzionare regolarmente. La situazione del governo di B. era quanto mai difficile: il maresciallo, premuto dal sovrano, si valeva di elementi fascisti, come l’ex generale della milizia O. Giannantoni, provocando le rimostranze degli stessi suoi sostenitori, ma nel contempo assumeva un atteggiamento contrario al re nella questione istituzionale. Il 20 febbr. 1944 Vittorio Emanuele finì con l’accettare la soluzione della luogotenenza, purché ciò avvenisse dopo la liberazione di Roma.
    Intanto il B., minacciando le dimissioni, doveva sventare la minaccia della cessione di un terzo della flotta italiana all’URSS, quale compenso per l’appoggio sovietico al re e al suo governo; il 18 marzo infatti Mosca, al fine di far sentire l’influenza russa nel Mediterraneo, annunziava che avrebbe stabilito rapporti diretti con il regio governo di Badoglio. Il 27 giungeva dall’URSS Palmiro Togliatti, il quale si dichiarava pronto a entrare nel governo Badoglio, con viva soddisfazione del maresciallo. In realtà l’intervento sovietico, che sulle prime irritò quasi tutti gli antifascisti, valeva a modificare la politica degli Anglo-Americani che il 10 aprile, per bocca del generale Mac Farlane, presenti i membri nuovi e vecchi del Consiglio consultivo d’Italia, dichiaravano essere ormai indispensabile la rinuncia immediata del re alle sue prerogative e ai suoi poteri e suggerivano una luogotenenza del principe di Piemonte. Era un vero ultimatum: il re dovette cedere, salvo rinviare la trasmissione del potere al momento della liberazione di Roma.
    Il B. iniziava allora le consultazioni per il nuovo ministero, che il 21 aprile era formato, con rappresentanti dei partiti – conservando solo in carica i ministri militari – e con sede a Salerno: esso s’impegnava a far eleggere a guerra finita un’assemblea costituente. In questo modo però il nuovo governo risultava più che mai legato all’Inghilterra e all’America, e faceva cadere i timori di Churchill che un governo democratico potesse richiedere una revisione o un’attenuazione delle durissime clausole del duplice armistizio. Contro la permanenza di B. al governo e contro il nuovo ministero, considerato legato a circostanze transitorie e di carattere provvisorio, si schierava il C.L.N. dell’Italia settentrionale con una mozione del 26 aprile. Invece il C.L.N. romano, nel cui seno si erano pure manifestati forti contrasti, riflesso anche dell’eccidio delle Fosse Ardeatine del 24-25 marzo, il 5 maggio stabiliva che tutti i partiti cooperassero con il governo “ai fini della guerra di liberazione nazionale”.
    Ma una vera partecipazione alla guerra con forze adeguate secondo i piani di B. e del nuovo capo dello Stato Maggiore generale, maresciallo G. Messe, incontrava ancora ostacoli. Solo il 10 febbraio si ottenne che il raggruppamento motorizzato, riorganizzato dal gen. U. Utili, fosse di nuovo impiegato come unità combattente nella zona alle sorgenti del Volturno, settore relativamente secondario, dove il 18 febbraio ebbe il primo, onorevole contatto con il nemico. Spostato poi a nord di Cassino, il 31 marzo il raggruppamento conquistava monte Morrone, dopo aver preso l’antistante cima di Castelnuovo, respingendo poi con gravi perdite per l’assalitore un tentativo tedesco di riprendere monte Morrone nella notte sul 10 aprile. Il 18 aprile il raggruppamento assumeva il nome di Corpo italiano di liberazione, ed era subito ingrossato da un battaglione di fanteria di marina e dalla divisione paracadutisti Nembo, finalmente trasportata dalla Sardegna. Anche la marina e l’aviazione si prodigavano. Nella grande battaglia per la liberazione di Roma, iniziata il 12 maggio 1944, le truppe italiane, aggregate all’8ª armata, che si mosse dopo il successo della 5ª, non vennero impegnate che molto tardivamente, dietro insistenze e non poterono entrare in Roma, il 5 giugno, fra le truppe liberatrici.
    Liberata Roma, Vittorio Emanuele intendeva firmare nella capitale il decreto di nomina di Umberto a luogotenente, ma la maggioranza del ministero era per la firma immediata, che fu imposta dal gen. Mac Farlane a Ravello, presso Salerno, nella villa Rufolo, nel pomeriggio del 5 giugno, presente anche il Badoglio.
    Avuto dal principe Umberto l’incarico di costituire il nuovo ministero, il B. giunse a Roma con il luogotenente la mattina dell’8. Ma qui tutti i membri del C.L.N. romano, presente il gen. Mac Farlane, dichiararono necessario un governo schiettamente democratico, formato da elementi di sicura fede antifascista, e tale da poter condurre energicamente la guerra e preparare la libera consultazione popolare per la scelta della forma istituzionale, designando unanime il Bonomi quale presidente. Così il B. lasciava silenziosamente Roma la mattina del 9 giugno, invano sperando che P. Togliatti non approvasse l’operato del C.L.N. Il 10 giugno il Bonomi presentava al luogotenente la lista del nuovo ministero: gli alleati tardarono a riconoscere il fatto compiuto, e si dové attendere a Salerno il loro placet; solo il 15 luglio il nuovo ministero poteva insediarsi a Roma. Pare che il B. si adoperasse per avallare il nuovo governo presso gli alleati. Ma prima di sparire definitivamente dalla scena politica, nella speranza di cancellare la macchia della fuga di Pescara, il B. si adoperò perché venisse iniziata una severa inchiesta circa la mancata difesa di Roma, e specialmente contro il gen. Carboni che, invece, di sua iniziativa, aveva cercato di difenderla contro i Tedeschi.
    Ritiratosi a vita privata, fu dichiarato decaduto da senatore il 30 marzo 1945 per l’adesione data al fascismo; due anni dopo il provvedimento era cassato dalla Corte di Cassazione. Pubblicava poi due libri di memorie: Rivelazioni su Fiume, Roma 1946, con ampia appendice di documenti, e L’Italia nella seconda guerra mondiale (Memorie e documenti), Milano 1946.
    Il B. morì a Grazzano il 1° nov. 1956.(fonte)

    [4] Approvazione degli accordi e convenzioni (di Santa Margherita) firmati a Roma il 23 ottobre 1922 fra il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, per la esecuzione del Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920
    486-644 cc./ volume 1076 in: Legislatura XXVI | Sessione unica | Esaminati
    Descrizione del contenuto, decreto di presentazione; relazione e testo dei proponenti con allegati testi di accordo e convenzioni fra l’Italia ed il Regno serbo-croato-sloveno; richiesta della dichiarazione di urgenza; relazione e testo della Commissione rapporti politici con l’estero – colonie, con parere della Commissione finanze e tesoro; ordini del giorno; elenco dei deputati iscritti per la discussione in Aula. Approvato nella seduta del 10 febbraio 1923.
    Note. Un’altra copia di relazione e testo dei proponenti è erroneamente conservata nel fasc. n. 1591, Legislatura XXVI, Sessione unica.(fonte)