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Vincenza Febraiola. 13 agosto 1939

    Vincenza Febraiola. 13 agosto 1939

    Villamaina 13-8-939 – XVII
    La sottoscritta Febraiola Vincenza di ignoti si rivolge a
    Vostra signoria per avere giustizia-
    Sono madre di 7 figli il primo di anni 19 che serve la patria
    e l’ultima di anni tre. La prima figlia di anni 17 e mesi face=
    va l’amore, a mia insaputa, con un giovane pure di anni 18 a
    nome Famiglietti Pasquale di Gerardo di Frigento, il quale nel mese
    di maggio disonorò la mia figlia approfittando della partenza
    alle armi del fratello maggiore. In primo tempo negò ma
    dovette confessare la verità avendo io agito con la legge facendo=
    gli querela. Ora si fece capace di sposarla, tanto che giovedì 3
    corrente mese venne in compagnia del padre sul Comune di Villa=
    maina per fare la promessa, mentre la mamma non volle accom=
    pagnarlo perché contraria a questo matrimonio, e tanto è vero, che
    essa lo ha insinuato e lo ha fatto di nuovo mettere sulla nega=
    tiva di sposare mia figlia. Ora col consenso della madre il Pasquale
    è sparito senza poter sapere dove è andato. Egli fu chiamato
    due volte dal Brigadiere della Stazione di Gesualdo ma non
    si è mai presentato e dice che lui non ha paura della legge
    e se anche sarà condannato le carceri le farà contento.
    Faccio presente che il mio primo figlio è fidanzato con la sorella
    del Pasquale Famiglietti e questo non ha avuto rispetto per la
     mia figlia,  mentre il mio figliuolo in 3 anni d’amore con la sua
    sorella Maria Famiglietti non le ha fatto nessuna offesa e tenuto
    rispetto tanto che anche ora si amano e si scrivono.
    Con le lagrime agli occhi vi prego di fare in modo che il Pasquale
    sposi la mia figlia onde riscattare l’onore e vi faccio presente che ho
    altre 3 figlie femmine che se non si ripara a questo scandalo
    potrebbero subire da altri giovani scostumate la stessa sorte.
    Vi ringrazio e col cuore trafitto vi ossequio
    Analfabeta Febraiola Vincenza di ignoti

    16256.2
    19.8.939             Reg N 58 Nullo P

    R. QUESTURA
    19 AGO 1939
    DI AVELLINO


    Note

    [1] Da Diritto penale della famiglia. Di Marta Bertolino. Diritto on line (2019)
    Abstract

    Per cogliere la dimensione penale della famiglia non basta il titolo XI del codice penale del 1930, che disciplina appunto i delitti contro la famiglia. In esso non si esaurisce infatti la tutela penale dell’istituzione familiare, che, prima ancora che giuridica, è naturale, come lo stesso art. 29 Cost. riconosce. D’altra parte, fattori sociali, culturali, etici e giuridici hanno modificato l’idea tradizionale di famiglia come istituto pubblicistico-statuale, alla base del modello di tutela del titolo e di altre disposizioni del codice che si richiamano alla società familiare. Questa mutazione del concetto di famiglia, i cui confini si sono ampliati ma sono diventati, anche, poco definiti, ha reso inadeguata la disciplina del codice penale alle nuove, emergenti, esigenze di protezione delle realtà familiari, dettate dal modello individual-personalistico promosso dall’affermarsi della convivenza di fatto come paradigma alternativo, riconducibile all’art. 2 Cost. e dal riconoscimento delle unioni civili.

    La famiglia pubblicistico-istituzionale

    «La Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti», come emerge, in particolare, dalla disposizione dell’art. 2 della Costituzione, «conformemente a quello che è stato definito il principio personalistico che [l’art. 2 Cost.] proclama, risulta che il valore delle ‘formazioni sociali’, tra le quali eminentemente la famiglia, è nel fine a esse assegnato, di permettere e anzi promuovere lo svolgimento della personalità degli esseri umani» (C. cost., 28.11.2002, n. 494).

    Se questa è la moderna concezione di famiglia secondo il parametro costituzionale, ad essa nemmeno il codice penale può derogare, nonostante la tutela penalistica dell’istituzione familiare nelle scelte originarie, quelle storiche cioè del codice Rocco del 1930, avesse come asse portante un’idea di famiglia affatto diversa. Per il legislatore del 1930, infatti, secondo l’ideologia autoritario-statualistica dell’epoca, anche la famiglia non poteva che rispecchiare tale ideologia. La prima conseguenza è che la famiglia assurge ad oggetto di protezione penale secondo una dimensione pubblicistica, cioè quale entità, quale bene giuridico autonomo ed indipendente dai soggetti che la compongono e la cui tutela è di per sé meritevole, quale cellula originaria, portante della società, e non in quanto strumentale alla tutela dei diritti di coloro che ne fanno parte. Tanto ciò è vero, che autorevole giurista dell’epoca affermava a proposito del matrimonio «che non è un istituto creato a beneficio dei coniugi, ma è un atto di dedizione e di sacrificio degli individui nell’interesse della società, di cui la famiglia è nucleo fondamentale» (A. Rocco, La legislazione, in Civiltà fascista, 1935, 312). Con la conseguenza che gli interessi dei singoli avrebbero dovuto essere sacrificati, quando fosse stato necessario per la salvaguardia degli interessi del nucleo familiare.

    È in tali termini che quest’ultimo entra nell’orizzonte del codice penale, che appunto al bene categoriale della famiglia intitola il titolo XI del libro II, Delitti contro la famiglia, suddividendolo in quattro capi, rispettivamente dedicati ai delitti contro il matrimonio (capo I: artt. 556-565); ai delitti contro la morale familiare (capo II: artt. 564 e 565); ai delitti contro lo stato di famiglia (capo III: artt. 566-569) e infine ai delitti contro l’assistenza familiare (capo IV: artt. 570-574).

    Da tale impianto, che è rimasto inalterato fino ai nostri giorni, si ricava un’idea di famiglia come «società coniugale e come società parentale» da proteggere contro condotte che tendono a disgregarla. Di conseguenza, come emblematicamente emerge dai lavori preparatori al codice penale del ‘30 a spiegazione della ratio di tutela della famiglia, lo «Stato deve rivolgere costantemente, e col massimo interesse, la sua attenzione all’istituto etico-giuridico della famiglia, che è il centro di irradiazione di ogni civile convivenza…». In tale prospettiva, in cui la famiglia riveste il ruolo di ente politico intermedio fra lo Stato e l’individuo, diventa compito del legislatore «cercare di rinsaldare, nella sua esistenza fisica e nella sua compagine morale, l’organismo famigliare; e a tale scopo serve anche la sanzione punitiva con la sua minaccia contro attentati all’istituto del matrimonio, che costituisce il fulcro di ogni ben costituita società, e contro l’organismo famigliare» (Lavori preparatori del Codice penale, Relazione sui libri II e III, Roma, 1929, § 610, 334).

    È, questo, il modello cd. pubblicistico-istituzionale di famiglia (v. M. Bertolino, La famiglia, le famiglie: nuovi orizzonti della tutela penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 574 ss.; S. Riondato, Cornici di «famiglia» nel diritto penale italiano, Padova, 2014, passim, spec. 92 ss.; Id., Riforme giuspenalistiche in tema di rapporti familiari, in Diritto penale della famiglia e dei minori, a cura di E. Palermo Fabris-A. Presutti-S. Riondato, in Tratt dir. fam. Zatti, Milano, 2019, III, 3 ss.) che dal punto di vista formale appare ancora caratterizzare la nostra realtà codicistica, non essendo mutata la sistematizzazione interna del titolo XI nei quattro capi, né la loro intitolazione. Proprio dalle intitolazioni emerge l’idea della famiglia in funzione strumentale agli interessi statuali di formazione e di educazione degli individui all’autoritarismo e alla gerarchia, onde garantire stabilità e continuità sociale e politica. Così la famiglia come istituzione viene tutelata nel capo I contro le condotte, come quelle di bigamia (art. 556), di adulterio e di concubinato (artt. 559 e 560; entrambi gli articoli sono stati dichiarati illegittimi rispettivamente da C. cost., 19.12.1968, n. 126 e C. cost., 3.12.1969, n. 147), che fanno vacillare l’unità e la stabilità della famiglia come istituzione giuridica fondata sul matrimonio; nel capo II contro condotte, come quella di incesto (art. 564), che minano i fondamenti etici della istituzione matrimoniale; nel capo III contro condotte, come quelle di supposizione o soppressione di stato (art. 566), di alterazione di stato (art. 567) e di occultamento di stato (art. 568), la tenuta delle quali offende la compagine familiare garantita dalla affidabilità delle relazioni familiari costituitesi nel rispetto delle forme giuridiche; infine nel capo IV contro condotte che sono in violazione dei fondamentali obblighi di assistenza derivanti dal negozio matrimoniale, come quella di violazione degli obblighi di assistenza famigliare (art. 570) o che rappresentano un eccesso nell’esercizio di obblighi di educazione e di premura affettiva e morale, come nel caso dell’abuso dei mezzi di correzione (art. 571) o che sono un’aperta violazione di tali obblighi, è il caso del reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli (art. 572) ovvero che interferiscono con l’autorità del genitore sui figli, impedendogli l’esercizio del diritto di educazione e di controllo di essi: i reati di sottrazione di minore (artt. 573 e 574).

    Ma l’idea di famiglia come istituzione pubblico-statuale si può cogliere anche da altre fattispecie, che il legislatore ha disperso in maniera disorganica in altri titoli della parte speciale del codice del ‘30 e dalle stesse norme definitorie di cui agli artt. 307 e 540 c.p. Quanto a queste ultime, è in particolare dall’art. 307, inserito nell’ambito dei delitti contro la personalità dello Stato e relativo al delitto di assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata, che si evince una nozione penalmente autonoma dei rapporti di natura familiare, la cui ampiezza è segnata dalla fonte da cui promana la sua veste giuridica e, cioè, il matrimonio. Il legislatore del 1930 agli effetti della legge penale definisce infatti al co. 4 di detto articolo «prossimi congiunti», accanto ai parenti (ascendenti, discendenti, fratelli, sorelle, zii e nipoti), gli affini nello stesso grado e il solo coniuge. Il fronte fattuale dei sentimenti, degli affetti delle convivenze, delle famiglie di fatto viene così emarginato, discriminato a favore di quello normativo rappresentato dalla istituzione matrimoniale, nella sua dimensione del potere, della soggezione, tanto da prevedere espressamente che fuoriescono dalla nozione di prossimo congiunto gli affini in caso di morte del coniuge. Lo stesso dicasi dell’art. 540, collocato all’interno del titolo dedicato ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, che, sul fronte della famiglia parentale, a proposito della filiazione, dettava una disciplina che, fino alla riforma del d.lgs. 28.12.2013, n. 154, rispecchiava ancora la discriminazione fra figli legittimi e figli illegittimi, in quanto nati fuori dal matrimonio. Discriminazione che il codice civile nelle scelte storiche sanciva proprio in ragione della esclusività della famiglia matrimoniale, e che viene definitivamente superata solo con la l. 10.12.2012, n. 219, che abolisce la tradizionale distinzione e introduce lo stato unico di figlio (art. 315 c.c.; per una conferma dell’unicità dello status di figlio, v. anche C. cost., 14.12.2018, n. 236, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, co. 1, lett. a, del d.lgs. 28.8.2000, n. 274 e successive modificazioni, nella parte in cui per il delitto di lesioni volontarie, previsto dall’art. 582, co. 2, c.p. non prevede l’esclusione della competenza del giudice di pace anche per i fatti aggravati ai sensi dell’art. 577, co. 1, n. 1, commessi contro il discendente non adottivo, quale il figlio naturale, e non solo di quelli consumati dal genitore nei confronti del figlio adottivo).

    Quanto alle altre disposizioni del codice penale, basti ricordare: l’art. 591, co. 4, che punisce più gravemente il fatto di abbandono di persone minori o incapaci se commesso, oltre che dal genitore, dal figlio, dal tutore, dall’adottante o dall’adottato, dal coniuge, che con l’abbandono viola i doveri morali ed economici derivanti dal matrimonio (per un isolato tentativo di estensione della disciplina aggravata anche al convivente, con il rischio peraltro di una fondata censura di applicazione analogica in malam partem, C. ass. Milano, 10.7.2007, in Foro amb., 2007, 3, 323); gli artt. 522 e 523 del titolo relativo ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, abrogati con la riforma dei reati sessuali (l. 15.2.1996, n. 66), che incriminavano le condotte di ratto rispettivamente a fine di matrimonio di donna non coniugata, a fine di libidine di donna maggiore di età, in quanto condotte che violavano non tanto i diritti fondamentali di libertà della rapita, quanto piuttosto la potestà del capo famiglia. Proprio perché l’offesa ruotava intorno alla potestà violata, l’offesa a quella maritale era talmente grave da legittimare un’aggravante in caso di ratto a scopo di libidine di donna coniugata, mentre dalla condotta riparatoria di restituzione della rapita mettendola «a disposizione della famiglia stessa», senza aver commesso alcun atto di libidine in danno della stessa (art. 525), ben poteva derivare un’attenuazione della pena, essendo stato restituito al suo possessore quanto sottratto. Occorre infine ricordare anche l’art. 544 dello stesso titolo, abrogato nel 1981, che attribuiva al matrimonio cd. riparatore, cioè quello contratto dall’autore del reato con la vittima, la natura di causa estintiva del delitto di violenza carnale, assicurando così l’impunità e cancellando come un colpo di spugna l’offesa arrecata alla vittima del reato. Ma anche all’interno di fattispecie orientate alla tutela di beni personalissimi come la vita, il legislatore del ‘30 mostra una preferenza per la persona maritata, prevedendo all’art. 577, co. 2, una circostanza aggravante nel solo caso di omicidio volontario del coniuge e non anche in quello del convivente.

    Ancor più significativi di una disciplina sperequata a favore dell’istituzione matrimoniale sono gli artt. 384 e 649 c.p., dove si prevede nell’ambito dei rapporti di coppia una causa di non punibilità a favore esclusivo però di coloro che sono legati da un rapporto di coniugio. Così l’art. 384, che, rinviando alla nozione di prossimo congiunto di cui all’art. 307, finisce con il riconoscere la non punibilità del solo coniuge e non anche del convivente per una serie di reati contro l’amministrazione della giustizia. Investita della questione di costituzionalità, la Consulta l’ha dichiarata infondata. Sulla base, in particolare, di una riconosciuta maggior stabilità che l’istituzione familiare sarebbe in grado di garantire alla convivenza, la Corte ha distinto la famiglia di fatto da quella coniugale per la quale «non esiste soltanto un’esigenza di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà personali», ma anche quella di tutela della istituzione familiare, alla realizzazione delle quali la causa di non punibilità dell’art. 384 sarebbe da considerare strumentale (C. cost., 11.3.2009, n. 140; C. cost., 11.1.1996, n. 8; in senso critico la dottrina, v., da ultimo, C. Bernasconi, La tutela penale delle relazioni familiari: brevi note tra passato e presente, in disCrimen, 11.6.2019, 13; A. Vallini, Il diritto penale alla prova di “vecchi” e “nuovi” paradigmi familiari, in Scritti in onore di Giovanni Furgiuele, a cura di G. Conte-S. Landini, Mantova, 2017, 299 ss.).

    Stabilità e certezza sono dunque le esigenze soddisfatte dal matrimonio. Per il Giudice delle leggi, esse legittimano una tutela differenziata anche a proposito della non punibilità per alcuni reati contro il patrimonio se commessi a danno di congiunti conviventi, così come previsto dall’art. 649, co. 1, n. 1. Tale articolo, come è noto, riserva questo trattamento di favore al coniuge non legalmente separato e non anche al convivente more uxorio. Anche su questa disposizione la Consulta mantiene un atteggiamento di chiusura verso la famiglia di fatto, escludendo la possibilità di estendere la causa di non punibilità al convivente, poiché la convivenza more uxorio «manca dei caratteri di stabilità e di certezza propri del vincolo coniugale, essendo basata sull’affectio quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile». In particolare, per la Consulta l’art. 649 è applicabile al solo coniuge, dato che la ratio di tale disposizione sarebbe da rinvenire nella esigenza di proteggere l’istituzione familiare «ad eventuale discapito del singolo componente, il quale viene privato della tutela penale offerta dalle norme incriminatrici poste a presidio del patrimonio pure se abbia, nel caso concreto, un personale interesse alla punizione del colpevole» (C. cost., 12.7.2000, n. 352; C. cost., 20.12.1988, n. 1122; C. cost., 7.4.1988, n. 423 e, da ultimo, nella giurisprudenza di legittimità, v. Cass. pen., 8.7.2016, n. 28638; contra, isolatamente, Cass. pen., 21.5.2009, n. 32190). Criticamente osserva, tra l’altro, la dottrina che l’interesse a preservare l’istituto matrimoniale in realtà sarebbe venuto meno di fronte a fatti di reato che già sono una probabile testimonianza della mancanza di volontà dei coniugi di mantenere la stabilità familiare. In tale ottica, non solo non si giustificherebbe la disparità di trattamento tra coniugi e conviventi, ma lo stesso istituto della non punibilità (cfr. M. Riverditi, La doppia dimensione della famiglia (quella “legittima” e quella “di fatto”) nella prospettiva del diritto penale vigente. Riflessioni, in Studi in onore di Franco Coppi, I, Torino, 2011, 575 ss., per il quale tale decisione non sarebbe giustificabile, anzi, «appare, di per sé, irragionevole», in quanto individua «nell’esigenza di tutela del ‘valore aggiunto’ costituito dalla stabilità del rapporto di coniugio» il criterio discretivo fra famiglia matrimoniale e famiglia di fatto; contro l’estensione della causa al convivente, v. R. Bartoli, Unioni di fatto e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 1623).  A favore dell’abrogazione tout court dell’istituto si è pronunciata anche la Consulta (v. C. cost., 5.11.2015, n. 223), che nel dichiarare l’inammissibilità della questione proposta, afferma: «Non stupisce, dunque, che una causa di non punibilità concepita in epoca segnata dal ruolo dominante del marito e del padre, già criticata in epoca risalente per la sua inopportunità (sebbene il Guardasigilli Rocco avesse stimato di conservarla per non allontanarsi «da una tradizione legislativa universalmente accolta»), sia posta oggi in discussione: la protezione assoluta stabilita intorno al nucleo familiare, a prezzo dell’impunità per fatti lesivi dell’altrui patrimonio, non è più rispondente all’esigenza di garantire i diritti individuali e gli stessi doveri di rispetto e solidarietà, che proprio all’interno della famiglia dovrebbero trovare il migliore compimento».(fonte)