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Su Pomponio De Algerio. 1889

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    Marchese Francesco degli Azzi Vitelleschi

    Signori e Signore!
    L’anno 1889 ricorderà ai posteri un grande frutto, il quale provocò nella mente e nel cuore degl’Italiani, e possiam dire di tutti i popoli civili del mondo, non già un risveglio splendido e rallegrante, ma una forte vibrazione religiosa.
    – Voi avete già compreso, ch’io voglio accennare alle feste di Giordano Bruno in Roma. ‑ Nella Capitale d’Italia, per la terza volta risorta, vedemmo raccolte le personalità più distinte, e per intelligenza, per dottrina e per gli scritti famose. Colà fu celebrato il trionfo del libero pensiero e del santo amore di patria; colà un grido unanime levarsi di protesta contro la sfrenata tirannide della Chiesa Romana; colà infine venne proferita contro il suo usurpato potere spirituale una condanna solenne, terribile, irrevocabile, che, riecheggiando per le spaziose volte del Vaticano, fece impallidire e tremare sul suo trono dorato e fastoso, Colui, che si vanta essere di quella Chiesa Rappresentante e Pontefice Sommo.
    Se non che taluni, che meglio di tutti stimansi illuminati, si sforzarono, con pubbliche concioni, con libri e con articoli su per i giornali, far credere al mondo, che l’Italia, dopo 19 secoli di Fede, onorando la memoria di Bruno, avesse fatta chiara ed aperta professione di Ateismo.
    Gli uomini di cuore, veramente liberali, patriottici e religiosi respinsero con isdegno questo gratuito e fallace asserto.
    Non vi citerò un articolo di giornale evangelico, né le parole di un Missionario. Mi piace farvi conoscere il pensiero del vostro maggior poeta vivente – il Carducci. – Discorrendo agli studenti di Padova, che avevangli offerto una bicchierata, usa in queste elevate parole:
    « In Roma hanno solennemente ricordato Giordano Bruno. Al Bruno devesi certamente venerazione, perché attestò le sue credenze con la vita. Ma il Rinascimento riuscì nella fine a decadenza, e l’Italia, dopo 300 anni di dolori e di prove, è degna d’avere una idea molto più vasta che non fosse l’idea del Rinascimento; un Iddio molto più grande che non il Dio di Giordano Bruno. Questi parecchie forme divinò della scienza; concepì le relazioni fra l’uno e il tutto aspirò ad un nuovo indeterminato; ma a quella visione, che non poteva essere sistema, manca la virtualità dell’elemento morale, manca la Fede …….. Quei piccoli nemici che si oppongono al fatale andare dell’Italia, quei piccoli oscurantisti fanno pietà. Noi non dobbiamo provocar nessuno. Ma essi i deboli, gli anemici, gli scettici non vengano a provocare noi, non vengano a negare a noi l’ideale, a negare a noi Iddio».
    Fin tanto che adunque prevalse il concetto di onorare il Bruno come libero pensatore, come filosofo, come vittima dell’intolleranza clericale fummo tutti d’accordo; ma questo accordo si ruppe quando all’ombra del monumento di Giordano si pretese fare apoteosi del naturalismo e del materialismo.
    Ciò posto, non fa meraviglia, che alle feste patriotiche del Bicentenario, abbiano dato i Valdesi una intonazione spiccatamente religiosa.-
    E molto a proposito si raccolse a Torino l’Assemblea Generale delle Associazioni cristiane dei Giovani, sparse in tutta Italia per testimoniare con coraggio del vangelo di Cristo.-
    Da ogni parte della penisola, fra il laicato e fra gli evangelici, sursero uomini di ingegno preclaro, letterati, filosofi, per comprovare, che negli Italiani non venne mai meno la Fede, né cessò mai di manifestarsi la gloria e la potenza del Vangelo. Ed evocando la memoria di quei moltissimi che propugnarono la necessità d’una riforma religiosa in Italia e stigmatizzarono la Corte Romana, come centro di venalità, di cabale, di corruzione e di false dottrine, furono assai felici di poter constatare – ad esempio e conforto degl’Italiani – che quei Riformatori non dissociarono mai il libero pensiero dal principio cristiano, affrontando intrepidi per esso le torture ed il rogo.
    Inspirandomi ancor io a questo ideale, mi sorrise il pensiero di narrarvi la storia pietosa, da molti ignorata, di un martire Evangelico, ch’ebbe nome – Pomponio De Algerio – e che potrete ammirare profondo nelle scienze, eroe della Fede, costante nel martirio.
    Se questo santo e caro ricordo renderà per un istante più celere il palpito del vostro cuore, se una lagrima brillerà sul vostro ciglio, ne sarà cagione la melanconia del soggetto e la squisita gentilezza dell’animo vostro, che qui vi condusse per soccorrere del vostro incoraggiamento la mia povera ed umile prosa.
    Signori e Signore!
    Tutti gli scrittori della Storia della Riforma religiosa, che iniziata in Italia tre secoli prima di Lutero, andò svolgendosi con incredibile rapidità e meraviglioso vigore, cor ché quella grande e nobile figura apparve sulla scena del mondo, parlarono di pomponio De Algerio, ma dandone brevi ed oscuri cenni.- Agli Storici protestanti, nella massima parte stranieri, mancavano notizie e documenti; ai cattolici sovrabbondavano la malafede e il vivo desiderio di tenersi celate le macchie e le vergogne della Chiesa Romana. E vergogna e macchia grandissime erano lo aver dannato un giovane evangelico a barbara morte.- Al silenzio della storia si aggiunse la distruzione dei documenti, che avrebbero dovuto arricchirla.- Meglio e più diffusamente di ogni altro ne ragionò testè il De Blasiis, egregio e dotto Professore di questa antica e celebre Università di Napoli. Egli, dopo faticose ricerche negli Archivi e nelle Biblioteche e raccogliendo gli sparsi frammenti, compilò un lavoro letterario degno del giovane martire. Sono lieto di congratularmi secolui e mi permetto mandargli affettuoso e cristiano saluto.
    Pomponio De Algerio nacque intorno al 1531, in Nola, in quella stessa città, che, poco più tardi dette i natali a Giordano Bruno. Gli fu genitore Nicola Ambrogio, rampollo d’illustre prosapia. Ancor fanciullo, ebbe la sventura di perdere gli amati genitori. Suo Zio, Giovan Giacomo De Algerio, lo accolse in casa e con paterno affetto educollo, ammaestrandolo nelle dottrine della Riforma. – Lo storico Pantaleon ci fa sapere che Pomponio era tanto innamorato delle verità evangeliche, che non poteva astenersi dal parlarne di continuo ai suoi piccoli amici, studiandosi di farle ben penetrare nell’animo loro.- Quindicenne e già missionario!- O cari fanciulletti della Scuola Domenicale, che qui veniste per udire la storia di questo giovane martire della Fede, domani, narrandola ai vostri compagni, rammentate loro che Iddio parla sovente per la bocca dei pargoli e dei lattanti, e molte cose nasconde ai grandi e le rivela ai piccoli.
    Pomponio avea vivace ed acuto l’intelletto, impetuoso lo ardir giovanile, nobile l’animo. Sobrio di parole, avea il gesto concitato e di slancio, perché ricco di squisito e meraviglioso sentire il cuor suo.
    Gli angusti confini del loco natio male si addicevano alla sua energica attività. Li mirava a più vasti orizzonti. Sentivasi inspirato a grandi cose. Era sitibondo di scenza, e si decise partire alla volta di Padova per addottorarvisi.
    Già da tempo eran soliti recarsi allo Studio Padovano, dalle Province Napolitane, scolari e professori. La storia, sin dalla metà del 13° secolo, ci ha tramandato i nomi di celebri medici, giuristi, filosofi, teologi napolitani, che da quelle cattedre dettarono splendide lezioni.- Prima che Pomponio andasse a Padova, lo Studio era salito in grandissima fama, e le nuove dottrine religiose vi aveano trovato largo e libero accesso. Gli studenti forestieri, che numerosi vi accorrevano da tutte le Nazioni d’Europa, specie dalla Germania, e la tolleranza della Veneta Repubblica favorivano la rapida propagazione delle medesime.
    Ecco la ragione, per cui il crudele e fanatico Giovan Pietro Carafa, che fu Papa col nome di Paolo IV, avea giudicato quello Studio un vero ricettacolo di eretici, sin da quando fuggito da Roma messa a sacco ed a ruba dai cattolici soldati di Carlo V, era andato a ricoverarsi a Venezia. E sin d’allora smanioso di distruggere quel pestifero seme, avea istigata la Repubblica e sospinto il Papa ad adoperarvi ferro e fuoco. Ma il suo grido d’allarme era rimasto inefficace.- E ancora dopo, che promosso da lui, si fondò a Roma, il supremo Tribunale del Sant’Officio, se pure compilaronsi a Padova processi d’eresia, e se alcuni scolari e professori furono costretti a partirsene, la persecuzione non v’infierì, affrenandola la gelosa prudenza della Repubblica ed il riguardo di non togliere credito allo Studio.
    Ma pochi anni appresso, Venezia, la gloriosa e serenissima Repubblica, permise che la schifosa lue papale s’infiltrasse nelle sue vene; e non per spirito fervente di religione cattolica, ma spinta da mire ambiziose e politiche, cominciò a mostrarsi più arrendevole alle petulanti richieste della Curia Romana. Lo attestano le Molestie che affissero Pietro Paolo Vergerio e lo costrinsero ad esulare.- Il Vergerio era Vescovo di Capo d’Istria, ed il Vicario del Vescovo di Padova aveva riferito all’umanista epicureo, al gentile autore del Galateo, Monsignor Giovanni Della casa, Nunzio a Venezia, che il dotto prelato avea trovato gran seguito in quella città, e che « in casa sua concorreva gran parte dello Studio Padovano, leggendo lui l’Epistole di S. Paolo et seminando cose luterane.» – Lo attestano le carcerazioni subito dopo avvenute di molti inquisiti di Luteranesimo, tra i quali erano parecchi delle province Napolitane. Di questi imprigionati, alcuni furono restituiti a libertà, altri condannati a levissime pene, sia per aver da essi ottenuta l’abiura degli errori e la denunzia dei complici, sia per il timore di muovere a tumulto lo Studio.
    Ben altra fu la sorte di Pomponio De Algerio! Giunto a Padova in quell’epoca di persecuzione papale, vi trovò più guardinghi, ma sempre numerosi i seguaci della Riforma; ed’indole ardente ed immaginosa di sublimi idealità unitosi ad essi, crescendo il fervore nei segreti convegni e tra i pericoli, ebbe tempo e favorevoli occasioni di erudirsi intorno alle contrastate dottrine di Fede.
    Si applicò allo studio con intelletto d’amore e con incredibile perseveranza. ben presto percorse il cerchio delle scenze divine ed umane. – Fu scritto di lui ch’era un giovane di somma erudizione. E in un Avviso del tempo vien chiamato eccellente filosofo e teologo.- Ricca la mente di tanti pregi, abbellita l’anima di ornamenti suoi propri, la fede, la temperanza, la carità, la famiglia intera delle virtù, si pose con zelo impaziente a propagandare le pure dottrine del Vangelo per le case, nei crocchi degli amici e conoscenti, nello stesso Studio Padovano, con familiari conversazioni, con catechismi e sermoni.
    Tradito da alcuni che gli s’infingevano amici e fratelli in fede fu denunziato ed immediatamente carcerato. Fu fatta quindi una visita scrupolosa al suo domicilio, e tutte le sue carte furono sequestrate, tra le quali trovaronsi molte lettere inviategli da diversi amici e maestri, ed amministratori.
    Nel dì 29 maggio 1555 nel palazzo pretorio di Padova si adunarono Gerardo Busdrago, Vicario del Vescovo e fra Geronimo Girello, inquisitore, assistiti dal magnifico Podestà, da tre giudici e da Geronimo Contareno – tribunale costituito in conformità al decreto del Senato bandito nel 1548.
    Il Processo ci dice che Pomponio De Algerio, da Nola, avea barba incipiente e rada, biondi i capelli; vestiva alla foggia dei laici con berretto ed abito di velluto, con cappa e calzoni di panno nero; fissa l’età di anni 25, ma da calcoli più esatti risulterebbe, che dovesse essere ancor più giovane.
    Interessantissimo è il suo interrogatorio._ Apponevangli di negare Iddio!- La solita accusa lanciata anche oggi contro gli Evangelici dalla plebe ignorante e fanatica!- Egli rispose esser questa, claunnia tanto ridicola, da non meritare nemmeno l’onore della discussione.- Incalzato dai giudici a confessare l’obbligo di credere alla Chiesa Cattolica Romana, di cui è Capo visibile il Papa, quale Vicario di Cristo, senza esitare e con forza rispose, La Chiesa cattolica essere per lui la comunione dei santi; non riconoscere per Capo della medesima neppur altro se non Cristo Gesù; ed il Papa essere semplicemente un uomo, come tutti gli altri uomini.
    Ed interrogato come la pensasse intorno al numero e alla natura dei Sacramenti, al Purgatorio e alla presenza reale del corpo e sangue nel pane e nel vino, con entusiasmo e con piena convinzione rispose il Battesimo consistere nell’acqua semplice ed essere del tutto inutili il crisma, il sale ed altro; dopo questo non poter ammettere che un solo Sacramento, l’Eucarestia, ossia la Santa Cena, la quale non trovasi in contraddizione col vocabolo. Ed affermò impossibile ed assurda la trasformazione divina del pane e del vino; impossibile l’esistenza del Purgatorio questa miniera inesauribile di lucro e sorgente di strane e ridicole superstizioni, perocché, ammettendolo, si distrugge, o almanco si menoma la efficacia del grande e completo purgamento fatto da Cristo, in sul Calvario, coll’offrirsi vittima espiatoria per togliere ogni peccato dal mondo.- Molte e molte cose tralascio per amore di brevità.
    Non potendo quei giudici, sebbene tutti dottori, convincere del contrario il De Algerio, nè dalle sue opinioni rimuoverlo, ordinarono che venisse ricondotto in carcere. Ivi lo lasciarono per un mese e mezzo senza interrogarlo.- Pensavano che le sofferenze della prigione e lo spavento delle pene lo avrebbero forzato al ravvedimento. Ma invece la solitudine e la riflessione ravvivarono la sua pertinacia.
    «Io ho trovato qui », scriveva agli amici pietosi e dolenti di lui «chi lo crederebbe! il miele nelle fauci del leone, un ameno nell’oscura fossa; la tranquillità, la speranza della vita nell’albergo dell’amarezza e della morte; la letizia nel baratro infernale…. Chi potrà accusarmi, e di quale colpa, se ho obbedito al Signore? Chi oserà condannarmi, sfidando il giudizio di Dio e la pena destinata agli uccisori dei giusti»?
    Altre due notti- al 17 ed al 28 Luglio – Pomponio fu condotto innanzi a quel Tribunale, che dal cancelliere compilatore del Processo, vien chiamato «elegantissima Curia». In quelle due sedute il De Algerio discusse le più ardue questioni della Religione Cristiana; e contro le affermazioni del Concilio di Trento sostenne, che i meriti e le opere individuali non sono fonti di salvezza, ma giustificazione soltanto della Fede, che si ottiene per mezzo della Grazia.
    Quei Giudici elegantissimi non se la finivano mai dal ripetere a Pomponio, ch’egli dovesse almeno riconoscere l’autorità del Papa, come Vicario di Cristo; ed egli sempre fermo nel rispondere: «Il Papa non è altro che un uomo. il Capo della Chiesa universale è Cristo, Cristo solo!»
    Pomponio De Algerio non solo amava di tutto cuore Iddio, ma anche il prossimo. – Quando quel Tribunale pretese sapere il nome de’ suoi fratelli in Fede, e quello degli autori delle lettere sequestrate, egli addivenne mutolo; e non valsero né minacce e terrori, né: contumelie ed insulti a rompere il suo pertinace silenzio; in tal guisa col sacrificio di se stesso, salvò la vita di altri cento e cento.
    La profonda convinzione, con la quale il giovane Nolano aveva esposti i suoi principii religiosi, la straordinaria dottrina addimostrata nel difendersi, fatta più bella alla luce della Bibbia e dei SS. Padri, e la sua incrollabile fermezza, tale meraviglia destarono nella Curia, ch’essa non ebbe il coraggio di pronunziar la sentenza.
    Egli è certo che dai processi verbali delle sedute di quel Tribunale e dalle lettere, che ancor ci restano di Pomponio, chiaro risulta ch’egli possedeva appieno la somma delle dottrine teologiche che oggi costituiscono il patrimonio e la gloria della grande Chiesa Evangelica universale. E tutto ben considerato, si può argomentare che qualora lo stame della sua vita non fosse venuto sì presto e sì barbaramente troncato, Pomponio De Algerio sarebbe addivenuto il Lutero d’Italia, ed avrebbe a Lei risparmiato l’ignominioso titolo di «schiava » che per tre lunghi secoli portò impresso sulla sua fronte lacera ed insanguinata per opera nefanda dei Sommi Pontefici Romani!
    – Ma i decreti imperscrutabili della divina Provvidenza aveano altrimenti disposto!
    L’anno e il mese stesso, in cui Pomponio era stato imprigionato, al 23 Maggio 1555, era uscito Papa dal Conclave il terribile Giovan Pietro Carafa col nome di Paolo IV. – Vecchio decrepito a 79 anni, due veementi passioni erano bastate a prolungargli la vita e a dar energia all’animo indomabile, e vigore alla persona nervosa e stecchita – l’odio contro gli Austro-Spagnoli e l’odio contro gli eretici. – Per cui nell’udire che l’austero Inquisitore era stato eletto dal pontefice, gl’imperialisti n’ebbero sdegno e sospetto, e in tutta l’Italia spaventaronsi i fautori della Riforma. E tanto più che andavasi sussurrando che il Papa avesse detto, voler mostrare come «un vecchio italiano pur vicino a morire, invece di attendere a riposare ed a piangere i suoi peccati» poteva esser buono ad atti disegni.
    Lo sguardo vigile di Giovan Pietro Carafa non si era mai rimosso dallo Studio Padovano, e voi avete udito poco fa quali atroci sentimenti egli nutrisse contro quell’asilo della scienza. – Avendo saputo dal Vescovo di Padova l’accusa mossa contro Pomponio De Algerio, e come Ei fosse ritenuto in quelle carceri quale «Eretico pertinace » si affrettò a chiedere al Governo Veneto, che venisse subito espedito, giusta la frase del tempo, ossia condannato, e quindi inviato a Roma acciò, secondo giustizia, subisse il meritato castigo. – La Repubblica Veneta, la quale avea sempre respinte le ingerenze papali, tanto in politica quanto in fatto di religione, rispose con un ardito e secco rifiuto. Il focoso e superbo Pontefice tornò alla carica con maggiore insistenza, e sembrava adoperasse termini assai imperativi e minacciosi. Perocché se non gli venne fatto di persuadere quella Repubblica a prestargli aiuto per abbattere l’invisa dominazione della Casa Austriaca e cacciarla dall’Italia, ostinandosi essa a restar neutrale, ottenne almeno la estradizione dell’imputato cittadino di Nola.
    Con siffatta condiscendenza, Il Consiglio dei Dieci gratificava il Papa e il suo dispetto affievoliva. E per inorpellare ed onestare di lealtà la sua biasimevole condotta, quel consiglio trovò assai commodo di simulare per un istante il riconoscimento dei vantati diritti sovrani della Sede Apostolica sul Regno di Napoli,
    – quei diritti d’Investitura che furono il flagello e lo strazio di queste ridenti ed infelici contrade –
    e dichiarò Pomponio suddito del Papa. Mediante questa furbesca finzione legale, ebbe pretesto a scusare l’abbandono delle gelose prerogative giurisdizionali, e ad ottenere, che questo esempio non potesse servire in futuro ad eccitare le brame usurpatrici della Curia Romana.
    Quale e quanta gioia provasse il Papa nel veder soddisfatto l’ardente suo desiderio d’aver nelle mani «il gran tristo ed empio » qual’era per lui Pomponio De Algerio, si apprende dalla lettera di ringraziamento scritta da Roma all’Ambasciatore Veneziano. Questa lettera che la storia ci ha conservata a vergogna eterna del Vaticano, ci rivela l’odio profondo e l’incredibile crudeltà del Papa, il quale, fra le altre cose, chiama i Protestanti le pecore ammorbate del gregge cristiano, che doveansi far a pezzi con la spada.
    Nel Marzo 1556, per ordine della Serenissima Repubblica il giovane Nolano, non più Napoletano, ma cittadino Romano, in forza di quella enorme gesuiteria escogitata dal Consiglio dei Dieci, mentre la storia afferma che tra i comportamenti del medesimo non pochi si nascondevano seguaci delle dottrine della Riforma, fu trasferito a Ravenna e di là a Roma.
    Il viaggio attraverso l’Italia di questo «atleta di Cristo» come lo chiamarono gli storici della Riforma, grandemente commosse gli animi di coloro, ai quali era giunta l’eco gradita e sonora della splendida difesa delle dottrine evangeliche da esso sostenuta al cospetto del Tribunale inquisitorio di Padova, secondo che già ne presagivano misera e sfortunata la sorte.
    Giunto appena in Roma, fu racchiuso nelle carceri del Sant’Officio. E subito fabbricossi un altro Processo, del quale, come di moltissimi altri allora compiuti, poco o nulla sappiamo. Di quei giorno un insolito spettacolo vedevasi per le vie della Città. Soldati, cavallo, cittadini in arme, le ingombravano; riparavansi le mura e qua e là si buttano a terra case, palagi, Chiese per meglio resistere all’impeto di schiere nemiche e poderose che si avanzavano a grandi giornate. E forte era il timore che gli Spagnuoli provocati dalle loquaci invettive del Pontefice non dovessero cominciar le offese prima che fosser giunti gli aiuti dalla Francia promessi.
    Pure tra quelle gravi cure e in mezzo a tante altre brighe, il vecchio Carafa non aveva una volta sola trasandato di recarsi a presiedere il Tribunale del Sant’Officio e allora più che mai s’era mostrato implacabile nei giudizi.
    Quello stesso Papa, di cui il nipote Cardinale passava per miscredente, che non avea scrupoli d’allearsi ai Luterani e d’istigare i Turchi contro Carlo V e Filippo II, e che diceva, chiamerebbe anche il Diavolo dall’inferno per combatterli, quello stesso Papa, in quei giorni, accendea roghi per bruciare gli Eretici, e , senza pensare allo scandalo proprio, a mezzo Giugno faceva arderne una dozzina!
    Poco più di un mese dopo, a quell’odio veemente soggiacque anche Pomponio De Algerio.
    Messosi di nuovo innanzi al Sant’Officio a negare la Confessione, il Purgatorio, i Sacramenti della Chiesa Romana, e l’autorità del Papa, venne condannato al fuoco. – Il Cancelliere sfiatavasi a leggere il voluminoso processo; Pomponio lo interruppe e disse: «Di grazia, leggetemi la sentenza». Poscia che la ebbe udita, ringraziando Iddio, esclamò: «Questo è quello che ho sempre domandato dal mio Signore. Viva il mio Signore in eterno»!
    Con infinita pietà vollero quei giudici assegnargli due termini di settanta giorni ciascuno, per indurlo a ricredersi e ad abiurare.
    -Tutto fu invano! – La sua Fede di giorno in giorno cresceva; la sua fermezza e rassegnazione facevano tutti stupire!
    Allora, il 18 Agosto 1556, Pomponio De Algerio fu condotto con funebre corteo, preceduto dalla Confraternita della Misericordia, e seguito da chierici e preti, da monache, frati e Cardinali, a Piazza Navona. – Forte mano di soldati e di sgherri, pronti a scannare, vegliava al mantenimento del buon ordine. Quella vastissima piazza che Roma antica chiamò Circo Agonale ed ove celebrava le sue grandiose e civiche feste, era gremita di spettatori e quali semi di odio e di vendetta covassero nel cuore contro il Pontefice Carafa, lo vedremo fra poco. – Per spaventare quel giovane tanto coraggioso e tanto temuto, si volle scegliere una strana foggia di tormento. – Nel centro della piazza (narra un testimone oculare) s’era messa «una caldaia bollente di olio, pece e trementina»; un fuoco ben nutrito ardeva sotto di essa, che le fiamme con acute lingue lambivano, avviò il grado di calore ognor meglio ascese, nell’impura miscela, da cui sprigionavansi densi vortici di fumo acre e nauseante. Pomponio «spontaneamente si offerse con allegra faccia,» al carnefice, e questi, robusto com’era, lo ghermì per le reni, lo sollevò di peso e lo gittò nella bollente caldaia!
    Terrore e spavento percossero gli astanti. Pomponio solo mostratosi sereno e tranquillo «nel mezzo delle fiamme e dei tormenti, tenendo le mani alzate e lo sguardo rivolto al Cielo, continuando così per lo spazio d’alcuni minuti che visse. ». Certo in quegli istanti terribili, per potenza di Fede, la psiche immortale ebbe atterrata nella lotta la carne peritura, che geme e piange e si agita convulsa nella strettoia dell’angoscia e del dolore. E data libertà alle ali del pensiero, sollevossi sino al Cielo e contemplò anche una volta quella stupenda visione, che, scrivendo agli amici, narrò essergli apparsa nella spaventosa caverna del carcere, ed avergli rovesciate tante dolcezze nel cuore. E vide spalancarsi le porte della santa città, la nuova Gerusalemme, la patria eterna degli eletti; e là nel mezzo il Re dei re, il Signore dei signori, l’Iddio onnipotente, assiso sul trono sfolgorante di gloria. E contemplò il Leone di Giuda, la radice di Davide, l’Agnello immacolato, e a Lui d’intorno i Patriarchi, i Profeti, gli Apostoli, gli Evangelisti e le moltitudini dei servi di Dio, dei veri fedeli in tante varie guise martirizzati ed uccisi; e tutti ad infondergli coraggio, a prodigargli conforto, a riempirlo di gioia e di pace. Ed egli attratto dalla ineffabile armonia delle celesti melodi, assorbito dalla luce divina, ad alta voce sclamò: « Signore Dio mio! il morire è principio della vita! deh! ti degna troncare gl’indugi! Accogli il tuo servo e martire! »
    E l’alito della morte sfiorò la possente e larga fronte dell’intrepido soldato di Cristo; chinò il capo e rimase inerte cadavere, come il fiore, spezzato dal turbine, impallidisce e muore sul suo verde stelo.
    I fratelli della Compagnia della Misericordia, alla meglio ed in fretta, composero nel feretro le combuste e lacere membra. Il popolo fuggì inorridito e commosso. Il Clero ed i Cardinali stessi rimasero spaventati dalla costanza cristiana, con cui il giovine martire soffrì la barbara morte.
    Così entrato appena nel cammino della vita, disparve Pomponio De Algerio, che vi promisi mostrarvi profondo nella sua scenza, Eroe della Fede, costante nel martirio. Mi giova sperare non aver fallito alla meta; ed ora rapido concludo, invocando per un sol minuto la vostra gratissima benevolenza. A Pomponio De Algerio sopravvisse il decrepito Carafa. Ma tristi anni furono i suoi. Il Duca d’Alba Viceré di Napoli occupò l’una dopo l’altra le città e le castella, intorno a Roma; e vennero tardi, e invano, al soccorso i Francesi; e discordie, disastri, sconfitte, costrinsero il vecchio superbo ad umiliarsi e ad accettare la pace imposta dai nemici. Con intenso dolore vide dileguarsi il disegno di far grande la sua Casa; e quei congiunti che avrebbe voluto innalzare a dignità di principi, imbrattarsi le mani di sangue, macchiarsi di orrendi delitti e costringendo a maledire il seme ond’erano nati.
    Allora, ferito nell’orgoglio, deluso nelle speranze, distolto dai maneggi politici, Paolo IV, ridivenne più fiero Inquisitore; e contro Cardinali, Vescovi, frati, uomini di lettere, cumularonsi processi e si riempirono d’eretici, veri o sospetti, le carceri di Ripetta e della Minerva; e giunto a morte, nella disperata agonia, le ultime parole sue furono, che tutti pensassero a dar sempre sostegno al Sant’Offizio, e senza pietà si adoperasse sempre il ferro ed il fuoco, essendo l’Inquisitore l’unica speranza, la sola salvezza del Papato.
    Prima però che colui spirasse, il Popolo Romano levato a tumulto, corse a distruggere quelle carceri, malmenò gli aguzzini, fece liberi 400 prigionieri e bruciò carte e processi. Troncò il naso e le mani alla statua del morente Pontefice, e spiccatone poi il capo, l’andò ruzzolando per le vie della Città, furiosamente gridando ed imprecando, e finalmente inabissolla nel Tevere.
    La storia, la quale ha pagine d’oro e pagine di sangue registrando il Martire di Nola e quello del carnefice Carafa, ha sacrato il primo alla gloria, il secondo all’infamia! – Ho finito! Iddio sia benedetto in eterno! Amen! –

    Su Francesco Maria degli Azzi Vitelleschi

    Molti anni dopo (il 1862) tradusse, sempre dal francese, I diritti dell’umanità e la questione sociale (Napoli 1894), opera del filosofo svizzero Ch. Secrétan. Nell’introduzione e nelle ampie note il D., proclamandosi repubblicano, auspicava l’impostazione ma soprattutto l’attuazione di un vasto programma di riforme sociali, sostenendo che la miseria non era frutto di preordinate leggi di natura, ma il prodotto dell’egoismo e della sopraffazione di pochi.

    Dizionario Biografico degli Italiani -voce di Lauro Rossi – Treccani