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Primo Benaglia, 7 aprile 1939

    Primo Benaglia, 7 aprile 1939
    « di 4 »

    Carissimo, sono ormai passati tanti mesi da quando ci siamo
    lasciati, sono passati molti giorni da quando ti scrissi l’ul-
    tima mia lettera ( subito dopo la battaglia della Catalogna[1] )
    e non ho avuto risposta. Ieri una cartolina di Marino, che è
    ancora in Spagna, mi diceva che eri sano e salvo, ed io provo
    a scriverti per sapere notizie dirette da te. Tu buono e caro
    sempre, avrai nuovi amici , e la vita stessa di terrà distratto.
    Io, di tutte le persone che ho conosciuto in Spagna, non penso
    che a te, che tu solo ho sentito vero amico. Qui vedo, di pas-
    saggio qualche reduce; il colonnello Ferrara, in galleria, sta
    facendo l’apologia di se stesso, e sta cercando una sistemazio-
    ne che non trova; ho visto Bergonzoli[2] che mi ha tenuto fermo
    su di una cantonata per mezza ora a raccontarmi le sue disgra-
    zie, vidi a suo tempo Craveri, ancora e sempre ammalato di
    mania di persecuzione, vedo pochissimo Lodoli che vive in
    tutt’altro ambiente e fa differente vita, sempre divagato e
    caustico, vidi Tassinari che voleva rientrare in Spagna tre
    giorno prima della presa di Madrid, e non ho lettere di nessuno,
    tranne il buon Marino dalla Spagna, Pregaglia, che chiede il
    mio aiuto per trovare un posto, ed il sergente Nessi, con lo
    stesso scopo. Come vedi non è gran cosa. Le grandi cose le
    avete fatte voi. Apena sono andato via io dalla Spagna, Franco
    ha cominciato a far sul serio, ed a vincere la guerra. Tutto
    questo è poco delicato nei miei confronti, non ti pare?
    Mi è facile immaginare le tue fatiche ed i tuoi pericoli, ma
    penso alla tua felicità di questi giorni. Aver finito, e finito
    bene. D’altra parte ben ti meritavi questo premio Hai dato
    tutto te stesso, con tanta fede e tanto coraggio. Mi dispiace
    di non esser stato con te nelle ore del trionfo. Sarebbe stato

    tanto bello ! Te ed io ci comprendiamo perfettamente, e ….
    sarebbe stato tanto bello. Pazienza. Cosa fai adesso ?, dove
    sei?, come stai ?. Vorrei sapere tante cose. Ma tu vincerai
    la tua speciale pigrizia, e mi scriverai almeno una cartolina
    non e vero?. Anche di Cuccioli non so più nulla se non le no-
    tizie di Marino, che Cuccioli sta bene. La guerra è fatta
    così. Lega gli uomini stretti stretti per il periodo di vita
    comune, eppoi … ciascuno dimentica i vecchi compagni.
    Ma io non voglio dimenticar te, perché tu sei fratello in pace
    ed in guerra. Ho adesso una piccola casa a Roma, dove spero
    di vederti presto. La mia bambina, che avevo messo in collegio
    per questo periodo di sistemazione, oggi rientra nella
    sua casa, che non ha mai visto, e che ho accomodata con cura
    per lei. Stasera per me sarà una grande festa, era tanto che
    aspettavo il momento di avere una casa, e la mia famigliola
    riunita. Proprio oggi, festa per me, o attesto a scriverti.
    ho parlato tanto con te di questo giorno, che anche tu devi
    esser qui presente in spirito.
    Oggi non voglio pensare che a questa mia intima gioia.
    Ho avuto delle disillusioni, e non poche e non semplici.
    Ho creduto, pochi giorni addietro di avere un posto di dirigen-
    te la propaganda e le pubblicazioni dell’ esposizione del 42[3],
    un posto che mi avrebbe dato per qualche tempo la pace, la
    serenità, ed anche la soddisfazione personale, perché era la valo-
    rizzazione del mio lavoro di tanti anni, e della mia cultura
    nel ramo. Poi, ad un tratto, per una grave ingiustizia, ed una
    cattiveria ( pensa che mi hanno accusato di immoralità perché
    7 anni fa chiesi il fallimento della mia litografia a Firenze[4],
    fallimento che venne cassato con successiva sentenza, tanto è
    vero che ho i miei gradi di ufficiale, che non avrei se fossi
    un fallito), tutto è crollato.

    Nulla sono contate le pressioni di amici, e non ritorneran-
    no sulla decisione, perché così fa a loro comodo, ché un ele-
    mento tecnico, ed un controllo, forse potrebbe dar fastidio
    a qualcuno. Da molte parti mi si dice di protestare per l’ offesa
    e l’ ingiustizia fattami. Mi si dice che Starace[5] potrebbe rad-
    dirizzare le cose, ma credo di poter fare poco, pochissimo.
    Tento di riprendere il mio lavoro con Bertieri[6], Sarà un lavoro
    difficile, ed una via durissima. Ma poi chissà Il Signore
    che mai mi abbandonato, nemmeno nei momenti più duri della
    grerra, non mi abbandonerò, e troverò anche io il mio equili-
    brio e la mia modesta pace.
    Ma basta con le malinconie. Oggi torna la mia figliolina a
    casa, e fra due giorni è Pasqua[7]. Tu hai tutti i miei più
    affettuosi auguri per questa solennità.
    Io ho ancora la speranza di presto riabbracciarti, e non voglio
    pensare ad una delusione al riguardo.
    Scrivimi subito. Se incontri degli amici ricordami a loro.
    Una notizia importante !! mi sono tolto il pizzo perché era
    diventato così bianco che mi faceva addirittura sfigurare.
    Con questa novità sensazionale chiudo la lettera. Scrivimi.
    Ti abbraccio forte forte,[8]

    tuo Benaglia Primo

    BENAGLIA PRIMO
    Viale delle Provincie N° 96
    Telefono 854015 ROMA


    Note

    [1] La battaglia di Catalogna fu un’offensiva della guerra civile spagnola, lanciata il 23 dicembre 1938 dall’esercito nazionalista di Francisco Franco contro le forze repubblicane. L’offensiva condusse, il 26 gennaio 1939, alla caduta di Barcellona, capitale del territorio controllato dai repubblicani dall’ottobre del 1937. A seguito della sconfitta, il governo repubblicano si rifugiò in Francia, assieme a migliaia di persone in fuga dai nazionalisti.

    Contesto

    Dopo la sconfitta nella battaglia dell’Ebro, l’Esercito Popolare Repubblicano aveva subito gravi perdite, da cui non si sarebbe più ristabilito. Le unità avevano perso molti dei loro armamenti e delle truppe più esperte. Inoltre, nell’ottobre 1938, il governo repubblicano aveva accettato di ritirare i volontari delle Brigate internazionali, mentre sull’altro fronte, i nazionalisti avevano ricevuto nuovi rifornimenti di munizioni, armi e velivoli dalla Germania. In più, l’accordo di Monaco aveva fatto svanire la possibilità di un intervento delle democrazie occidentali in aiuto della repubblica contro le forze di Germania nazista e Regno d’Italia. Infine, nel giugno 1938, la Terza Repubblica francese aveva nuovamente chiuso la frontiera e congelato i beni repubblicani custoditi nelle sue banche.

    Fazioni

    Nazionalisti

    All’inizio del dicembre 1938, i nazionalisti concentrarono un gruppo d’armate, l’Ejército del Norte, comprendente fra i 300 000 e i 340 000 uomini e guidato dal generale Fidel Dávila, con l’obiettivo di conquistare la Catalogna. I nazionalisti utilizzarono le migliori divisioni a loro disposizione, schierandole su tutto il fronte dai Pirenei al Mediterraneo. Lungo il Segre furono poste il Cuerpo de Ejército de Urgel, guidato da Agustín Muñoz Grandes, il Cuerpo de Ejército del Maestrazgo di Rafael García Valiño e il Cuerpo de Ejército de Aragón di José Moscardó Ituarte; alla confluenza del Segre con l’Ebro vi era il Corpo Truppe Volontarie (Cuerpo Legionario Italiano) di Gastone Gambara, formato da quattro divisioni (55 000 uomini), e il Cuerpo de Ejército de Navarra guidato da José Solchaga Zala. Presso l’Ebro, infine, era dislocato il Cuerpo de Ejército Marroquí di Juan Yagüe. Secondo lo storico britannico Antony Beevor, i nazionalisti disponevano di oltre 300 carri armati, più di 500 aeroplani (fra cui anche dei moderni caccia Messerschmitt Bf 109 e Heinkel He 112) e 1 400 cannoni.

    Repubblicani
    Per fronteggiare l’attacco, i repubblicani disponevano dell’Ejército del Este del colonnello Sebastián Pozas Perea e dell’Ejército del Ebro del colonnello “Juan Modesto” (Juan Guilloto León), sotto il comando del generale Juan Hernández Saravia, comandante del Grupo de Ejércitos de la Región Oriental. Si stima che gli uomini totali fossero fra i 220 000 e i 300 000, molti dei quali privi di armi (secondo Hernández Saravia, l’armata repubblicana disponeva di soli 17 000 fucili per tutta la Catalogna), 106 aeroplani (molti dei quali erano Polikarpov I-15, soprannominati Chatos), 250 cannoni e 40 carri T-26 (molti dei quali inservibili per mancanza di parti di ricambio). Il governo dell’Unione Sovietica inviò in rinforzo un carico di 250 aerei, 250 carri e 650 cannoni, ma la spedizione non raggiunse Bordeaux che il 15 gennaio, e solo una piccola parte di essa attraversò la frontiera. In più, a causa dell’isolamento internazionale della repubblica e della carenza di cibo (secondo Beevor, a Barcellona la razione giornaliera era scesa a 100 grammi di lenticchie) il morale delle truppe e della popolazione della zona era molto basso. La gente desiderava solo la fine della guerra: “…facciamola solo finita, non importa come si conclude, ma finiamola ora.”

    La battaglia

    L’offensiva dei nazionalisti

    L’offensiva nazionalista era programmata per il 10 dicembre, ma fu posticipata al 23. In quel giorno, italiani e navarresi attraversarono il Segre presso Mequinenza, ruppero le linee repubblicane e avanzarono di 16 chilometri, ma il 25 dicembre furono fermati dal V e XV corpo repubblicano, guidati da Enrique Líster. Sul fianco sinistro, Muñoz Grandes e García Valiño avanzarono verso Cervera e Artesa, ma vennero bloccati dalla colonna di Buenaventura Durruti, della 26ª divisione repubblicana. A sud, le truppe di Yagüe furono trattenute da un’esondazione dell’Ebro. I repubblicani avevano fermato il primo attacco dei nazionalisti, ma avevano perso 40 aerei nei primi dieci giorni di battaglia.

    Il 3 gennaio, Solchaga attaccò Borjas Blancas, Muñoz Grandes e García Valiño occuparono Artesa, e Yagüe attraversò l’Ebro. Moscardó attaccò da Lerida e le truppe italiane entrarono a Borjas Blancas il 5 gennaio. Quello stesso giorno, l’armata repubblicana iniziò un attacco a sorpresa in Estremadura, la battaglia di Valsequillo, puntando verso Peñarroya per distogliere truppe nazionaliste, ma questa controffensiva fu fermata dopo pochi giorni, mentre l’attacco nazionalista in Catalogna continuò. Il 9 gennaio, il corpo d’armata d’Aragona di Moscardó si unì a quello di Gambara presso Mollerusa, e ruppe la parte settentrionale del fronte. Il V e il XV corpo repubblicano collassarono, e si ritirarono disordinatamente. Il 15 gennaio, i Corso d’Aragona e di Maestrazgo conquistarono Cervera, e il corpo marocchino, marciando di 50 km in un solo giorno, occupò Tarragona. A questo punto, i nazionalisti avevano conquistato un terzo della Catalogna, preso 23 000 prigionieri e ucciso 5 000 soldati repubblicani.

    La caduta di Barcellona

    Il governo repubblicano provò a organizzare la difesa della capitale, ordinando la mobilitazione di tutti gli uomini fino ai 45 anni di età e militarizzando l’industria. Ciononostante, le tre linee difensive (L1, L2 ed L3) caddero, e le forze repubblicane si ritrovarono in grave inferiorità numerica (il rapporto di forze era di 1:6), mentre l’aviazione nazionalista eseguiva quotidiani bombardamenti di Barcellona (40 raid fra il 21 e il 25 gennaio). Divenne chiaro che la difesa della città era impossibile. Il 22 gennaio, Solchaga e Yagüe raggiunsero il fiume Llobregat, posto a pochi chilometri da Barcellona, Muñoz Grandes e García Valiño attaccarono Sabadell e Tarrasa mentre Gambara avanzò su Badalona. Il capo di stato maggiore dei repubblicani, Vicente Rojo Lluch, disse al suo primo ministro Juan Negrín che il fronte aveva cessato di esistere, sicché il governo abbandonò Barcellona dopo aver rilasciato molti dei suoi prigionieri. Anche buona parte della popolazione di Barcellona fuggì dalla città. Il 24 gennaio, García Valiño occupò Manresa, e il giorno seguente l’avanguardia nazionalista occupò il Tibidabo, nei pressi di Barcellona. La capitale fu infine conquistata il 26 gennaio, e saccheggiata per cinque giorni dai Regulares di Yagüe. Vi furono anche vari omicidi senza processo (paseos).

    La ritirata

    Dopo l’occupazione di Barcelona, le truppe nazionaliste, stanche a causa delle lunghe marce, rallentarono l’avanzata. Presto però ripresero l’offensiva, inseguendo le colonne in ritirata di truppe e civili repubblicani. Il 1º febbraio, nell’ultima riunione delle Cortes, tenutasi nel Castello di Sant Ferran a Figueres, Negrín propose la capitolazione, con le sole condizioni che fossero risparmiate le vite degli sconfitti e indetto un plebiscito per consentire agli spagnoli di scegliere la forma di governo. Franco però non accettò. Il 2 febbraio, i nazionalisti entrarono a Gerona, il giorno seguente arrivarono a 50 chilometri della frontiera, e l’8 febbraio occuparono Figueras, al che Rojo ordinò alle truppe repubblicane di ritirarsi verso la frontiera con la Francia. Centinaia di migliaia di soldati e civili repubblicani, fra cui anche donne, bambini e anziani, si diressero verso la frontiera, chi a piedi, chi su carri e mezzi motorizzati, affrontando neve e acquaneve. La loro ritirata fu coperta dalle unità dell’Esercito Popolare Repubblicano, che compì attacchi mordi e fuggi e imboscate. L’aviazione nazionalista e la Legione Condor bombardarono le strade verso la Francia. Il 28 gennaio, il governo francese annunciò che i profughi civili potevano attraversare la frontiera, e il 5 febbraio estese il permesso anche ai militari repubblicani. Passarono il confine fra i 400 000 e i 500 000 rifugiati, fra cui il presidente della repubblica Manuel Azaña, il primo ministro Juan Negrín e il capo di stato maggiore Vicente Rojo. Negrín tornò in Spagna il 9 febbraio, ma Azaña e Rojo rifiutarono di farlo. Il 9 febbraio i nazionalisti raggiunsero la frontiera; il giorno seguente le ultime unità dell’armata dell’Ebro, di Modesto, arrivarono in Francia e i nazionalisti chiusero la frontiera.

    Conseguenze

    Ripercussioni militari e politiche

    A seguito della sconfitta, la Repubblica perse la seconda più grande città della Spagna, l’industria bellica catalana e gran parte della sua armata (più di 200 000 soldati). Il 27 febbraio, Azaña si dimise; nello stesso giorno, Francia e Regno Unito riconobbero il governo di Franco. Un’ulteriore resistenza militare divenne impossibile e la guerra divenne di fatto perduta per la Repubblica, malgrado questa controllasse ancora il 30% del territorio spagnolo e il primo ministro insistesse sulla possibilità di continuare a combattere.

    Lo Statuto di Autonomia della Catalogna fu abolito. La lingua catalana, la Sardana (una danza popolare) e i nomi di battesimo catalani furono vietati. Tutti i giornali catalani vennero sequestrati e i libri proibiti ritirati e bruciati. Furono perfino rimosse le iscrizioni sulle tombe del cimitero di Montjuïc che commemoravano Buenaventura Durruti, Francisco Ascaso e Francesc Ferrer i Guàrdia.

    Il destino dei rifugiati repubblicani

    Gli esuli repubblicani furono internati dal governo francese in quindici campi di concentramento improvvisati (perlopiù recinti di filo spinato su sabbia, senza ripari, sanitari né strumenti per cuocere il cibo). Esempi di campi simili furono quelli di Argelès, Gurs, Rivesaltes e Vernet. Le condizioni di vita nei campi erano molto dure. Nei primi sei mesi, 14.672 profughi morirono di malnutrizione o dissenteria. Il governo francese incoraggiò i rifugiati a ritornare, sicché, alla fine del 1939, fra i 70.000 e i 180.000 profughi erano tornati in Spagna. Altri 300.000, invece, non fecero ritorno: molti fuggirono in Unione Sovietica (fra i 3.000 e i 5.000), Stati Uniti e Canada (circa 1.000), e paesi europei fra cui Gran Bretagna e Belgio (fra i 3.000 e i 5.000). Molti altri riuscirono a raggiungere l’America latina (30.000 in Messico, 10.000 in Argentina, 5.000 in Venezuela, 5.000 in Repubblica Dominicana, 3.500 in Cile ecc.), in cerca di asilo. Tuttavia, almeno 140.000 rifugiati rimasero in Francia, e altri 19.000 si trasferirono nelle colonie francesi del Nordafrica. Dopo la caduta della Francia, da 10.000 a 15.000 rifugiati furono catturati dai nazisti e deportati nel Campo di concentramento di Mauthausen-Gusen. Altri 10.000 si unirono alla Resistenza francese e più di 2.000 alle forze della France libre.(fonte)

    [2] Annibale Bergonzoli (Cannobio, º novembre – Cannobio, luglio) è stato un generale italiano, pluridecorato veterano della guerra italo-turca e della prima guerra mondiale, dove venne decorato con due Medaglie d’argento e una di bronzo al valor militare, e con la Military Cross inglese. Prese poi parte alla guerra d’Etiopia, combattendo nel fronte meridionale al comando della ª Brigata Celere “Emanuele Filiberto Testa di Ferro”, e quindi nella guerra di Spagna al comando della ª Divisione d’assalto “Littorio”, distinguendosi particolarmente nel corso della battaglia di Santander, tanto da venire decorato con la Medaglia d’oro al valor militare a vivente e con il titolo di Commendatore dell’Ordine militare di Savoia. All’atto dell’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il giugno , comandava il XXIII Corpo d’armata di stanza in Africa Settentrionale Italiana. Partecipò all’Invasione italiana dell’Egitto, ma la controffensiva inglese, condotta con largo impiego di mezzi corazzati e truppe meccanizzate travolse le truppe italiane, costringendole dapprima a ritornare sulle posizioni di partenza e poi ad evacuare la Cirenaica. Caduto prigioniero il febbraio a Beda Fomm, fu internato a Yol, in India, e poi trasferito negli USA dapprima a Monticello, Arkansas, e poi a Hereford, Texas. Dopo la firma dell’armistizio dell’ settembre con gli anglo-americani rifiutò qualsiasi forma di collaborazione, e per questo fatto venne punito con l’internamento nel reparto psichiatrico dell’ospedale militare di Long Island, New York, per circa due anni e mezzo, rientrando in Italia nel marzo . Reintegrato brevemente in servizio, fu promosso generale di corpo d’armata nel e quindi congedato definitivamente.

    Biografia
    Nacque a Cannobio (provincia di Novara) il º novembre , figlio di Pompeo e Francesca Branca. Dopo aver completato gli studi superiori, si arruolò nel Regio Esercito come ufficiale della riserva, entrando nel novembre nella Regia Accademia Militare di Modena.

    Due anni dopo fu nominato sottotenente, fu assegnato al º Reggimento fanteria il settembre . Promosso tenente nel settembre , dal dicembre partecipò alla guerra italo-turca, in forza al º Reggimento fanteria, ricevendo un encomio solenne dal comando della ª Divisione speciale di Derna, e rientrando in Italia nel dicembre . Divenuto capitano il dicembre , quando prestava servizio nel ° Reggimento fanteria, all’atto dell’entrata in guerra del Regno d’Italia, il maggio , entrò in servizio nel º Reggimento fanteria della Brigata Chieti. Poco dopo l’arrivo in prima linea fu assegnato in servizio presso il comando della ª Divisione, e nell’autunno di quello stesso anno a quello della ª. Decorato di Medaglia d’argento al valor militare e con la Military Cross inglese nell’agosto fu inviato in Macedonia, venendo trasferito al Corpo di Stato maggiore all’inizio del . Decorato con una Medaglia di bronzo al valor militare rientrò in Italia nell’autunno del , assegnato all’intendenza della ª Armata. Trasferito al XXIII Corpo d’armata, al comando del generale Armando Diaz, partecipò alle fasi della ritirata sul Piave venendo insignito con la Croce al merito di guerra e la promozione a maggiore per merito di guerra, avvenuta nel febbraio . Partecipò alla battaglia del solstizio, dove fu decorato con la seconda Medaglia d’argento al valor militare, rimanendo gravemente ferito mentre accompagnava all’attacco i fanti della Brigata Bisagno.

    Promosso tenente colonnello del Corpo di Stato maggiore nel dicembre , entrò in servizio come Capo di stato maggiore della ª Divisione d’assalto, il cui impiego era previsto in relazione all’inizio delle operazioni di riconquista della Libia. Trasferito in Tripolitania nel febbraio , vi rimase poco tempo, rientrando in Patria per essere assegnato allo Stato maggiore della ª Divisione.

    Promosso colonnello nel dicembre , comandò in successione il º Reggimento fanteria di Conegliano, il º Reggimento fanteria “Lupi di Toscana” a Bergamo, e la Scuola Ufficiali della Riserva di Palermo,[N ] in Sicilia. Nel settembre assunse il comando del º Reggimento fanteria “Aosta”. Il aprile fu promosso generale di brigata, partecipando alla guerra d’Etiopia al comando della ª Brigata Celere “Emanuele Filiberto Testa di Ferro”, operante sul fronte meridionale (Somalia italiana), sotto il comando del generale Rodolfo Graziani. Durante l’avanzata su Neghelli, fu sempre presente in prima linea, combattendo al fianco i suoi soldati e rimanendo gravemente ferito in un combattimento con la resistenza etiope avvenuto alla periferia di Dunun il maggio . Rimpatriato in Italia per curarsi, divenne molto popolare tra i suoi uomini per via della fluente barba, tanto da meritarsi l’appellativo di “Barba elettrica”, soprannome assegnatogli anche per il dinamismo e il coraggio dimostrato in combattimento.

    Mentre si trovava in convalescenza scoppiò la guerra civile spagnola e Mussolini rispose all’appello lanciato dal generale Francisco Franco, che chiedeva assistenza militare al movimento nazionalista. Nel febbraio egli sbarcò in Spagna per assumere il comando della ª Divisione d’assalto “Littorio”, che disponeva di tre reggimenti di fanteria e uno d’artiglieria. La “Littorio” partecipò a numerose battaglie, come quelle di Guadalajara, Santander, Aragona e Catalogna. Nella battaglia di Santander ( agosto- settembre ), la “Littorio” sostenne feroci combattimenti conquistando la strategica posizione di Puerto del Escudo che diede la vittoria ai nazionalisti. Per questo risultato egli fu insignito della Medaglia d’oro al valor militare, e ottenne la promozione a generale di divisione.
    Rientrato in Patria nell’aprile , il ottobre dello stesso anno assunse il comando del neocostituito XXIII Corpo d’armata[N ] forte di uomini, e di stanza in Africa Settentrionale Italiana, con Quartier generale a Homs. All’atto della dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e la Francia, il giugno , iniziò subito le operazioni belliche che culminarono successivamente nell’invasione dell’Egitto. Durante l’avanzata sul Sidi el Barrani ebbe il comando tattico delle truppe, dando prova di energia[N ] e coraggio. Il dicembre scattò la controffensiva inglese che costrinse le truppe italiane a una precipitosa ritirata, dapprima sulle posizioni di partenza, e poi ad evacuare addirittura la Cirenaica. Dopo la caduta della città libica di Bardia ( gennaio ) riuscì a sfuggire alla cattura e percorse a piedi circa km raggiungendo Tobruk. Il febbraio venne fatto prigioniero dalle truppe inglesi a Beda Fomm, e come prigioniero di guerra fu dapprima internato a Yol, in India e poi trasferito negli USA dapprima a Monticello, Arkansas, e poi a Hereford, Texas. Nel maggio , quando tramite il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio fu fatta pervenire alla sede del SOE (Special Operations Executive) di Berna una prima proposta di resa dell’Italia, fu fatto il suo nome per sostituire Mussolini, che doveva essere deposto con un colpo di Stato, alla testa del nuovo governo.

    Dopo la firma dell’armistizio dell’ settembre con gli anglo-americani rifiutò qualsiasi forma di collaborazione con questi ultimi, e per questo fatto venne punito con l’internamento nel reparto psichiatrico dell’ospedale militare di Long Island, New York per circa due anni e mezzo, fatto passare per pazzo e rinchiuso in una camera dalle pareti imbottite. Ritornò in Italia nel marzo , rilasciato ufficialmente per malattia, riprendendo per breve tempo la vita militare, e venendo promosso al rango di generale di corpo d’armata nel . Congedatosi definitivamente visse a Cannobio fino alla morte, avvenuta il luglio , ricoprendo anche l’incarico di presidente dell’Associazione nazionale degli ex combattenti italiani in Spagna. Tuttora riposa in una modesta tomba nel cimitero del paese.

    Curiosità
    La figura di Annibale Bergonzoli è ricordata all’Imperial War Museum di Londra tramite una sua foto scattata durante la prigionia e un breve riassunto della sua vita in una bacheca in cui è conservata un’uniforme di soldato italiano durante la campagna d’Africa.(fonte)

    [3] L’E.U.R. Esposizione Universale di Roma (già E42 Esposizione Universale 1942) è un complesso urbanistico e architettonico di Roma.

    La zona venne progettata negli anni 1930 per la costruzione della sede dell’Esposizione universale di Roma, dal cui acronimo ha assunto il nome, prevista per il 1942 ma che non ebbe mai luogo a causa dell’inizio della Seconda guerra mondiale; il complesso fu completato nei decenni successivi, modificando e ampliando il progetto originario. Ospita alcuni esempi di architettura monumentale, che convivono con edifici moderni edificati nei decenni successivi, con la maggior parte degli edifici che è di proprietà della società omonima di proprietà statale.

    Il toponimo è utilizzato anche per indicare il XXXII quartiere di Roma e la zona urbanistica 12A.

    Storia

    Il progetto originario

    Nel 1935 il governatore di Roma, Bottai, propose a Mussolini di candidare la capitale per la futura esposizione universale del 1942, che avrebbe permesso di celebrare i vent’anni della marcia su Roma e proporre il successo del fascismo di fronte a un pubblico internazionale. Il governo sostenne l’iniziativa con la creazione di un apposito ente autonomo – l’Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma – presieduto dal senatore Vittorio Cini. Fu scelta la zona delle Tre Fontane, preferita per collegare idealmente la Roma imperiale, rappresentata dalle Terme di Caracalla, con il mar Tirreno lungo la via Imperiale (oggi via Cristoforo Colombo): il nuovo quartiere fu progettato per essere il terzo polo di espansione a sud-ovest della città. Questa area meridionale di Roma era estranea al piano regolatore del 1931, che richiese di adottare alcune norme per consentire la realizzazione del progetto: un’apposita commissione approvò le norme attraverso alcuni piani particolareggiati esecutivi.

    Il senatore Cini propose la collaborazione di numerosi architetti italiani – Giuseppe Pagano, Luigi Piccinato, Luigi Vietti, Adalberto Libera, Gaetano Minnucci, Ernesto Lapadula, Mario Romano, Luigi Moretti – sotto il coordinamento tecnico di Marcello Piacentini, già apprezzato dal regime fascista per il suo classicismo essenzializzato. Il governatorato ebbe ingenti risorse finanziarie per gli espropri dei circa 400 ettari di estensione del progetto e la costruzione degli edifici; il progetto principale fu completato solo nel 1938. I lavori ebbero inizio il 26 aprile 1937, quando Mussolini piantò un pino romano sul luogo dove sarebbe nato il nuovo quartiere romano.

    Il quartiere fu ispirato, secondo l’ideologia del fascismo, all’urbanistica classica romana, apportandovi gli elementi del razionalismo italiano: la struttura prevede un impianto vario ad assi ortogonali e edifici architettonici maestosi e imponenti, massicci e squadrati, per lo più costruiti con marmo bianco e travertino a ricordare i templi e gli edifici della Roma imperiale. L’elemento simbolo di questo modello architettonico è il Palazzo della Civiltà Italiana, soprannominato “Colosseo Quadrato”. Tuttavia, l’esposizione universale non ebbe mai luogo a causa del ritardo dei lavori di costruzione, dell’improvvisa morte del governatore Piero Colonna e dei preparativi per la partecipazione italiana alla Seconda guerra mondiale: il progetto originario non fu mai portato a termine e i lavori vennero interrotti nel 1942. La maggior parte delle opere furono destinate a rimanere incompiute; altre, come per esempio il teatro sulla piazza Imperiale, non furono mai iniziate. Nonostante ciò, l’Esposizione favorì l’esecuzione di un complesso di opere e servizi che successivamente avrebbe favorito la formazione di un nuovo quartiere. Il progetto fu ridefinito e completato nei decenni successivi con edifici moderni, palazzi congressuali e architetture sportive.

    Nel 1944 il territorio dell’Eur fu occupato dalle forze armate tedesche che dal mare avanzavano verso Roma e fu usato come luogo di accantonamento delle truppe; il Palazzo della Civiltà Italiana fu trasformato in officina di riparazione, mentre il villaggio operaio fu trasformato in caserma. I tedeschi avevano completamente svuotato gli edifici, in particolare avevano portato via tutta l’attrezzatura del ristorante per equipaggiare le loro mense militari; i civili svuotarono il villaggio operaio. Quando i tedeschi cominciarono la ritirata abbandonando Roma, il 2 giugno 1944, all’Eur furono sostituiti dagli alleati; dopodiché rimase vuota e inabitabile. Dell’impresa E42 nel dopoguerra rimangono solo ruderi e spazi non edificati non collegati alla città, ma è proprio da qui che riparte lo sviluppo dell’Eur, che a partire dai primi anni 1950 rappresentò il caso esemplare della ricostruzione del dopoguerra, che fu alla base della ripresa economico-sociale italiana. Il verde, grande carenza di Roma, sarebbe stata la caratteristica, la specialità dell’Eur. Dunque, un quartiere-parco, di cui occorreva potenziare le qualità urbane. Oltre all’edilizia residenziale era fondamentale il completamento degli edifici storici: furono completati l’edificio degli Uffici, il Palazzo della Civiltà Italiana, la chiesa dei Santi Pietro e Paolo, il Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, una parte del complesso delle Esedre (oggi piazza delle Nazioni Unite), una parte della piazza Imperiale (oggi piazza Guglielmo Marconi), una parte del Palazzo delle forze armate, destinato ora a sede dell’Archivio centrale dello Stato, l’ex Ristorante Ufficiale, che ora ospita un bar ed uffici di Roma Capitale. Negli edifici storici di piazza Italia si insediano importanti musei: il museo della Civiltà romana, il museo delle Arti e delle Tradizioni popolari, il museo Pigorini e il museo dell’Alto Medioevo. Inoltre, venne completata la viabilità e vennero sistemate le zone parco.

    Dal 1955 progettarono di trasferirsi all’Eur i ministeri delle finanze, della sanità, delle comunicazioni, del commercio estero e della marina mercantile. Arrivarono all’Eur l’Eni, l’INPS, l’Alitalia, la Esso, la Immobiliare, la SIAE, l’ICE.

    L’evoluzione contemporanea

    Lo stesso argomento in dettaglio: Europa (Roma).

    Negli ultimi decenni il quartiere ha assunto una funzione residenziale e commerciale, grazie alla sua posizione decentrata e alla vicinanza alle principali infrastrutture per il trasporto, ospitando sedi centrali o periferiche di enti pubblici e di imprese – ministeri dello sviluppo economico, delle infrastrutture e dei trasporti, ICE, SIAE, INAIL, INPS – e privati – Confindustria, UniCredit, Poste italiane, Eni, Iliad Italia, AbbVie, Q8, Procter & Gamble, Engineering, Microsoft, Unilever, Accenture, Bristol-Myers. Nell’ottobre 2004 il quartiere ha ospitato la conferenza intergovernativa dell’Unione europea. Gli ultimi progetti di riqualificazione hanno contribuito alla progettazione di nuovi edifici architettonici, come il Nuovo Centro Congressi, noto come Nuvola, su progetto di Massimiliano Fuksas.

    In occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960, l’EUR ha subito un ulteriore sviluppo urbanistico e architettonico che ha fatto decollare l’immagine pubblica del quartiere, proseguito poi fino ai giorni nostri. Con la fine degli anni 1960 si conclude il primo lungo ciclo evolutivo dell’Eur, coincidente con la ripresa e il suo rilancio come istituzione pubblica dalla riconosciuta funzione di centralità.[4] Oggi l’EUR è sede del più importante polo finanziario e terziario della capitale e tra i maggiori d’Italia con la presenza di numerose sedi di banche italiane quali UniCredit, BNL, Fideuram – Intesa Sanpaolo Private Banking, Poste italiane oltre alla presenza di palazzi e uffici pubblici e privati (INPS, Ministero dello sviluppo economico, Ministero della salute, Eni, ecc.) e un polo museale, risultando oggi l’area più attiva della capitale dal punto di vista economico.

    Nell’ottobre del 2021 il quartiere ha ospitato il G20, che si è svolto al Nuovo Centro Congressi.

    Proprietà degli immobili

    Lo stesso argomento in dettaglio: EUR (azienda).

    Gran parte del patrimonio mobiliare e immobiliare del quartiere è di proprietà di EUR S.p.A. (già Ente EUR), partecipata al 90% dal Ministero dell’economia e delle finanze e al 10% da Roma Capitale.

    L’Ente Autonomo Esposizione Universale di Roma gestisce l’organizzazione del quartiere in parziale autonomia dal Comune di Roma. Istituito con legge del 26 dicembre 1936, n. 2174, è stato in seguito trasformato in società per azioni.(fonte)

    [4] Primo Benaglia, l’autore della lettera indirizzata a Giuseppe Cabella, è il padre dell’artista Enrico Benaglia che, in un’intervista presente sul suo sito personale, su ricorda così l’evento: “Ho avuto dei genitori eccellenti. Purtroppo sono stato indipendente a partire dai miei 15 anni perché mio padre ebbe un disastro finanziario e ho dovuto iniziare a lavorare per guadagnare la giornata e sono stato nello studio del pittore Achilli che pagava poco, però nei momenti di pausa mi metteva la matita in mano e mi ha insegnato tutto il mestiere”.(fonte).

    [5] Achille Starace. – Nacque a Sannicola (allora frazione di Gallipoli), in provincia di Lecce, il 18 agosto 1889, da Luigi, affermato commerciante di oli e di vini, e dalla nobildonna Francesca Vetromile dei baroni di Palmireto, una facoltosa famiglia del Salento. Achille aveva due fratelli più grandi, e quattro sorelle di lui più giovani.

    Trasferitosi a Venezia nel 1905, s’iscrisse a una scuola tecnica, conseguendo il diploma di ragioniere. Nel 1909 si sposò con la triestina Ines Massari, da cui avrebbe avuto due figli, Francesca, detta Fanny, e Luigi (un terzo figlio, Vincenzo, morì alla nascita). Nello stesso 1909 fu richiamato alle armi come ufficiale nel corpo dei bersaglieri, e, terminato il periodo di leva, firmò per trattenersi in servizio.

    Nell’agosto del 1914 si fece notare a Milano, in Galleria, per l’aggressione ai danni di un gruppo di manifestanti pacifisti. Partecipò alla prima guerra mondiale comportandosi valorosamente e guadagnandosi una medaglia d’argento, quattro di bronzo, due croci di guerra e la promozione a capitano.

    Nel dopoguerra aderì tra i primi al movimento dei fasci, e nel 1920 fu inviato da Benito Mussolini a fare il segretario del fascio a Trento, dove si distinse per la ferocia con cui condusse alcune azioni squadristiche. Nel congresso di fondazione del Partito nazionale fascista (PNF) del novembre 1921, fu nominato vicesegretario (insieme a Giuseppe Bastianini e Attilio Teruzzi).

    Nell’ottobre del 1922 partecipò alla marcia su Roma al comando delle squadre della Venezia Tridentina, di Verona, Vicenza e Padova. In quanto vicesegretario, entrò a far parte di diritto del Gran consiglio del fascismo, il massimo organo direttivo del partito. Nel 1923 venne incaricato di seguire la pubblicazione del nuovo settimanale dei giovani fascisti, Il giornale dei Balilla. Lasciò la carica di vicesegretario nell’ottobre 1923, quando venne inviato a Trieste a ricoprire il ruolo di comandante della sede locale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN). Venne eletto deputato nelle elezioni politiche dell’aprile 1924. Dal 1926 fu di nuovo vicesegretario del partito.

    Nel 1931 venne scelto per succedere a Giovanni Battista Giuriati nella carica di segretario del partito, che avrebbe ricoperto ininterrottamente fino all’ottobre del 1939, quando sarebbe stato sostituito da Ettore Muti.

    Dopo la ‘cura dimagrante’ nel numero degli iscritti portata a termine dai due precedenti segretari, Augusto Turati e Giuriati, e nella prospettiva delle imminenti celebrazioni del decennale del regime (1932), Starace riaprì le iscrizioni, e l’afflusso dei giovani – quelli che, come disse Mussolini, non avevano fatto né la guerra del 1915-18 né la ‘rivoluzione’ fascista – fu imponente: il partito passò in un anno da 1 milione circa di iscritti a 1 milione e 415.000.

    Il nuovo statuto del PNF, fatto approvare da Starace, formalizzava la più stretta dipendenza del partito da Mussolini e lo svuotamento dell’autorità del Gran consiglio. Limitando i propri compiti essenzialmente agli aspetti organizzativi e propagandistici, Starace annesse al partito alcune organizzazioni che fino ad allora erano riuscite a garantirsi un minimo di autonomia, tra cui l’Opera nazionale dopolavoro (OND). Dette inoltre un forte impulso all’Opera nazionale Balilla (ONB) e a tutto il movimento giovanile fascista, un impulso che raggiunse il suo culmine nella costituzione, nel 1937, di un’unica organizzazione, la Gioventù italiana del Littorio (GIL), che raccoglieva l’eredità sia dell’ONB sia dei Fasci giovanili e delle Giovani fasciste, inquadrando di fatto nelle proprie file tutti i giovani di ambo i sessi dai sei ai ventun anni. Anche i giovani universitari furono oggetto del ‘furore organizzativo’ di Starace, che avviò, con la costituzione dei Littoriali dello sport, la valorizzazione delle attività sportive e agonistiche, alle quali attribuiva importanza fondamentale per legare i giovani universitari al regime. Anche le iniziative culturali dei Gruppi universitari fascisti (GUF) ebbero un notevole impulso. Si cercò nel contempo di rafforzarne i processi di penetrazione a carattere politico-ideologico attraverso una presenza ossessiva del partito sulla stampa universitaria, nel teatro sperimentale, nei Cine-GUF e nei Littoriali della cultura, e con l’affidamento ai giovani universitari di corsi di preparazione politica da condurre presso le federazioni.

    Ma dove Starace lavorò con più costanza fu nell’introduzione nella vita del regime di usi e rituali, imposti tramite i cosiddetti Fogli di disposizioni, che avrebbero dovuto forgiare lo ‘stile fascista’, preludio alla formazione dell’uomo nuovo del regime. A questa stagione appartennero l’introduzione del saluto romano, l’uso del voi al posto del lei e di Duce al posto di Capo, il ricorso massiccio all’esibizione pubblica di divise e medaglie, l’iscrizione sui muri delle città delle frasi celebri di Mussolini, il divieto tassativo di termini e nomi di origine straniera, i giochi ginnici, i raduni oceanici, l’istituzione del ‘sabato fascista’, con le prestazioni di ciascuno dei partecipanti annotate su un «libretto personale di valutazione dello stato fisico e della preparazione del cittadino» (Nolte 1963; trad. it. 1971, p. 380). Starace dette vita, insomma, a quella che un altro dirigente del partito, Giuseppe Bottai (1982, 1989), chiamò una «dittatura formalistica e cancelleresca» (p. 489).

    Nei grandi eventi Starace cercò sempre di garantire a Mussolini il concorso delle folle, che egli radunava attivando in modo capillare le strutture periferiche e territoriali del partito.

    Starace si mostrò un fedele esecutore delle direttive di Mussolini anche quando si trattava di liberare il capo del fascismo da dirigenti locali del PNF divenuti politicamente ‘ingombranti’.

    Nella veste di vicesegretario, già tra la fine del 1928 e i primi mesi del 1929, incaricato da Mussolini di risolvere la spinosa questione della liquidazione politica di Mario Giampaoli, segretario della federazione di Milano, si era distinto per determinazione e assenza di scrupoli nel liberarsi di quest’ultimo – ormai inviso a Mussolini perché fautore di un fascismo ‘di sinistra’ – e nell’avviare un’ampia epurazione tra le file dei suoi seguaci.

    Nella veste di segretario si trovò subito, tra la fine del 1931 e gli inizi del 1932, ad affrontare il caso di Carlo Scorza, segretario della federazione di Lucca, che, su richiesta di Mussolini, fu allontanato dal Direttorio nazionale del PNF, inseguito da accuse infamanti, fatte circolare ad arte da Starace, che riguardavano anche voci su uno sfrenato affarismo di Scorza e di alcuni membri della sua famiglia. In realtà Scorza dava fastidio a Mussolini poiché si era esposto troppo nella polemica con il Vaticano sulla questione dell’Azione cattolica, sviluppatasi nel corso della primavera-estate del 1931. Una volta raggiunto l’accordo con la S. Sede (2 settembre 1931), Mussolini aveva deciso di sacrificare sull’altare della ritrovata sintonia l’uomo più inviso alle gerarchie d’oltretevere. Starace fu in quell’occasione l’esecutore della sentenza.

    Stesso ruolo giocò qualche anno dopo nella liquidazione di Leandro Arpinati, segretario della federazione di Bologna, che non solo venne cacciato dal partito ma addirittura subì il confino. Arpinati aveva sempre manifestato insofferenza per l’ala intransigente del fascismo e verso i tentativi di Starace di militarizzare il partito e il Paese. Nella primavera del 1933 espresse, per di più, critiche verso la politica economica del regime, incentrata sul progetto corporativo. Il vago liberismo di Arpinati in materia economica, espresso anche in pubblico, dette fastidio a Mussolini, che trovò di nuovo in Starace il fido esecutore delle sue direttive. Arpinati, defenestrato, venne in seguito, come detto, spedito al confino, e, come aveva fatto con Giampaoli e i suoi seguaci, Starace iniziò una vasta epurazione nel partito bolognese, con la cacciata di tutti i fedeli di Arpinati.

    In occasione della guerra d’Etiopia (ottobre 1934-maggio 1935) volle dare l’esempio dello spirito guerriero che avrebbe dovuto animare l’uomo fascista: partecipò così all’ultima fase del conflitto, nel corso della quale si fece notare per la sua crudeltà verso i prigionieri etiopi. Partito dalla capitale dell’Eritrea, Asmara, a metà di marzo del 1935, alla testa di una colonna celere di bersaglieri, entrò a Gondar il 1° aprile, raggiungendo successivamente il lago Tana. Si trattò di una marcia senza battaglie, con un nemico ormai sconfitto e in fuga. Starace pubblicò sulla sua ‘impresa’ africana un libro di memorie, La marcia su Gondar (1936), infarcito di una retorica fastidiosa per i toni epici con cui egli esaltava l’evento, nel patetico tentativo di celare l’assenza di una sia pur minima scaramuccia con il nemico. Ma le stesse relazioni della polizia segreta (l’Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo, OVRA) descrivono l’avanzata della sua colonna nell’Etiopia occidentale come «una marcia automobilistica priva di reali incognite» (cit. in Festorazzi, 2002, p. 149).

    La segreteria staraciana del partito è stata oggetto di analisi storiografiche controverse, ma riteniamo che sia stato Renzo De Felice (1974, 1996) a metterne meglio a fuoco i caratteri (pp. 216-220). Dopo avere definito Starace un «uomo di scarsa intelligenza, animato da una mentalità grettamente militaresca e niente affatto politica», lo storico restringeva a tre i riflessi negativi che lo staracismo ebbe sulla vita del partito fascista e più in generale sul regime: la «depoliticizzazione e la burocratizzazione del PNF e la sua trasformazione in una super organizzazione di massa in funzione del consenso»; il progressivo venir meno del partito «come effettivo strumento politico», con la conseguente trasformazione del gruppo dirigente fascista «in tanti notabili senza reale potere proprio»; infine, la mancata formazione di una nuova classe dirigente fascista, che lo storico indicava come l’unico modo «per cercare di scongiurare i pericoli insiti nella nuova realtà del regime e per poter pensare ad una sopravvivenza del fascismo o, meglio, ad una nuova ‘civiltà fascista’ dopo Mussolini». De Felice considerava quindi una prova della poca intelligenza politica di Starace la soddisfazione che questi non nascondeva di fronte agli apparenti successi della sua azione nell’inquadramento delle masse, organizzate «con criteri essenzialmente burocratici», e nella loro partecipazione alla vita del regime «solo su basi emotive e coreografiche (in parte coattive)». Concludeva come la segreteria di Starace avesse finito per incidere alla lunga «su tutto il tessuto morale del regime ed ebbe su di esso una influenza indubbiamente negativa».

    Tuttavia, considerata la totale dipendenza di Starace dalle direttive che Mussolini di volta in volta gli imponeva, e l’assenza, per tutti gli anni della sua lunga segreteria, di un vero contrasto tra i due sul modo di concepire la funzione del partito, si può concludere che la funzione subalterna a cui venne ridotto il PNF dallo staracismo non fu altro che il risultato della volontà di Mussolini. Si chiedeva ironicamente Bottai, dopo la defenestrazione di Starace, se la sua lunga segreteria, con i suoi problemi di ‘stile’, non fosse altro che «il paradigma ideale del metodo educativo di Mussolini» (Bottai, 1982, 1989, p. 357).

    Negli anni 1938-39 Starace fu protagonista di momenti significativi della vita del regime, dalla partecipazione ai lavori preparatori per l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, al deciso sostegno della politica razziale e antisemita, in cui si mostrò fautore della linea ‘dura’ da adottarsi nei confronti della comunità ebraica italiana. Si schierò inoltre per l’alleanza con la Germania e per l’ingresso dell’Italia in guerra, fino a giungere, nel settembre del 1939, quasi alle mani, nell’anticamera dell’ufficio di Mussolini, con il capo della polizia, Arturo Bocchini, che poco prima aveva illustrato al capo del fascismo l’impreparazione militare e psicologica del Paese. Come avrebbe in seguito raccontato nelle sue memorie l’allora capo dell’OVRA Guido Leto (1951), mancò poco che la discussione degenerasse «in una colluttazione», e Bocchini tornò al suo posto di lavoro «rosso come un gambero ed ancora, visibilmente, assai agitato» (p. 205). Si trattava del culmine di un conflitto tra i due che era latente da anni, e il cui motivo era da ricercarsi nella forte resistenza che Bocchini aveva sempre opposto ai continui tentativi da parte di Starace di assoggettare lo strumento poliziesco alle direttive del partito.

    Forse quest’ultimo episodio – insieme all’ostilità che il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano da tempo riservava al suo filogermanesimo e filointerventismo – può essere stato all’origine della caduta in disgrazia di Starace, il quale tuttavia si era già ampiamente screditato agli occhi di molti potenti gerarchi per la sua assoluta ottusità politica e per l’irritante e stolido zelo con cui eseguiva le direttive mussoliniane. Il generale Emilio De Bono, uno dei massimi esponenti del regime, giunse – secondo quanto scrisse Ciano nel suo diario (1963, 1980) – a definirlo un «sinistro buffone» (p. 345), e Ciano stesso scrisse il 23 settembre che «tutto il risentimento nazionale è diretto contro la persona di Starace» (p. 351). Il 4 ottobre Mussolini confidò a Ciano la sua volontà di liberarsi di Starace, «odiato e spregiato dagli italiani» (p. 356). E il 29 di quel mese, infine, Starace venne informato da Mussolini del proprio siluramento.

    Essendo ormai Starace screditato alla corte sabauda nonché coperto di ridicolo e oggetto di barzellette e lazzi in ogni ambiente (da quelli più popolari sino a quelli alti del potere politico), Mussolini se ne liberò perché temeva che il diffuso discredito di cui ormai godeva il suo servitore potesse estendersi fino a lui. Bottai (1982, 1989) testimonia che a gioire in modo particolare della liquidazione di Starace fu Ciano, il quale si abbandonò davanti a lui a «una gioia smodata, senza neppure l’ombra d’una responsabilità, che si rinnova e s’accentua» (p. 167).

    Starace venne nominato capo di Stato maggiore della Milizia. Ricoprì questo incarico per circa un anno e mezzo; nel maggio del 1941, richiamato in patria dopo un soggiorno di alcuni mesi sul fronte albanese, fu bruscamente licenziato e sostituito da Enzo Emilio Galbiati.

    Nella ‘notte del Gran consiglio’ (quella del 25 luglio 1943, che portò a un voto di sfiducia nei confronti di Mussolini), Dino Grandi, allora presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, condusse un attacco feroce al partito così com’era stato forgiato da Starace, e accusando di fatto Mussolini di essere stato l’ispiratore dello ‘staracismo’, si rivolse a lui con enfasi, scandendo che «il nostro Capo non è quello di Achille Starace» (Bottai, 1982, 1989, p. 414).

    Il 28 luglio (tre giorni dopo la caduta di Mussolini) Starace fu arrestato e tradotto al carcere di Regina Coeli. Ma venne rilasciato, arrestato di nuovo e di nuovo rilasciato nel giro di pochi giorni. Trasferitosi al Nord dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si rifugiò a Vimercate presso alcuni amici. In novembre venne arrestato, su ordine di Mussolini, dalle autorità della Repubblica sociale italiana, che lo accusavano di contatti epistolari con il governo Badoglio. Venne recluso nel carcere di Verona fino all’aprile 1944; liberato, fu di nuovo fermato due mesi dopo e internato nel campo di Lumezzane, da dove uscì in settembre. Durante i giorni dell’insurrezione (aprile 1945) fu riconosciuto a Milano da alcuni partigiani: arrestato il 27, fu processato sommariamente e condannato a morte; venne fucilato il 29 in piazzale Loreto di fronte al cadavere di Mussolini.(fonte)

    [6] Raffaello Bertieri (pseudonimo Carlo Lorettoni).
    Nato a Firenze il 5 genn. 1875, da modesta famiglia, non frequentò che il primo ciclo elementare; presto passò come garzone nella bottega paterna di carbonaio, poi in una libreria. A tredici anni entrava in tipografia; a sedici era operaio compositore alla tipografia Meozzi e, infine, appena ventenne, revisore tecnico e artistico dello stabilimento fiorentino di S. Landi. Presidente della Federazione del libro a soli ventitré anni, dal 1901 al 1905 interruppe il lavoro di tipografia vero e proprio per assumere la rappresentanza commerciale della milanese “Macchine grafiche”, che gli offriva non solo l’occasione di entrare nella redazione della rivista Il Risorgimento grafico, che datava dal 1902, ma soprattutto di venire in contatto con la situazione reale della tipografia italiana, allora in serio ritardo nei confronti di quella straniera.

    In società con P. Vanzetti il B. tornava alla tipografia nel 1906, aprendo a Milano un’officina propria, quella che nel 1927 doveva diventare l’Istituto grafico Bertieri. Dal 1919 al 1925 fu chiamato a dirigere la Scuola del libro all’Umanitaria di Milano, che sotto la sua spinta appassionata si qualificò come il più completo istituto professionale in Italia.

    Se c’era da risollevare le sorti della tipografia italiana, nello scontro diretto e inevitabile con la tipografia straniera più titolata, la cosa migliore era appunto cominciare con la scuola. Era questa una questione che il B. aveva sollevato al congresso della Società italiana per il progresso delle scienze nel 1917,quando aveva proclamato la necessità di una tipografia nazionale contro il lungo periodo di apprendistato e di soggezione straniera. Di ciò era ovvio, però, che tentasse di approfittare il fascismo con i suoi furori nazionalisti, anche a scapito dello stesso Bertieri.

    Rinnovatore della tipografia italiana, il B. si preoccupò di esperimentarne e teorizzarne ragioni e prospettive. Favorirono il disegno l’appassionato studio dei secoli d’oro della tipografia del libro italiano (donde i numerosi saggi sui primi disegnatori di caratteri: il Pacioli, il De Fanti, il Vicentino); l’adesione, sia pure con qualche riluttanza, alla lezione bodoniana (e circolavano ancora in Italia e fuori opinioni contrastanti in argomento). Meglio, l’animo aperto – anche se alcune contraddizioni furono inevitabili – a chiarire e ad accogliere quanto, fuori d’Italia, la tipografia aveva già sperimentato. La nobiltà del rinnovamento propugnato dal B., attraverso le pagine del Risorgimento grafico (dal 1906 ne divenne proprietario e fino al 1941 uscirono trentaquattro volumi), può riassumersi nella progressiva sprovincializzazione della nostra tipografia, chiamata (talvolta sia pure in difficoltà critica di fronte al Liberty e poi al De Styl e al Bauhaus) a svolgere un ruolo effettivamente più consapevole. Memorabili furono i concorsi di grafica organizzati dalla rivista.

    Grazie al B., il libro italiano cominciò a frequentare le grandi rassegne internazionali e a raccogliervi premi e riconoscimenti: si ricordano la mostra viaggiante per il Nordamerica (1920), le mostre al congresso internazionale dei bibliotecari a Roma (1922) e alla Triennale delle arti decorative a Monza (1922), all’esposizione di Parigi (1925 e 1937), a New York (1928).

    Nel 1925 vi fu la consacrazione al Museo Plantin di Anversa, dove il B. presentò trentasei libri, confidando nel Catalogo della Mostra il suo credo: “Ho sostenuto la necessità di ispirarsi alle tradizioni più pure del sedicesimo secolo, interpretandole con spirito moderno”. I documenti più in vista della sua inquietudine sperimentalistica sono i saggi sui righini, sulla punteggiatura, sugli accapo: teorizzazioni a volte ingenue e quasi mai decisive, che comunque ebbero il pregio di mettere il campo tipografico italiano sotto accusa e di rinnovarlo, proprio con un’opera diuturna di sollecitazione, alla ricerca e allo studio. “Nova ex antiquis” era il suo motto prediletto.

    Consulente artistico della maggiore fonderia italiana (Nebiolo), dal 1923 al 1933 il B. ne diresse l’Archivio tipografico presentando i nuovi caratteri che uscivano sul mercato. Podestà di Asso (Milano) dal 1926 al 1941, ogni anno organizzò in quel centro la festa del libro, che, forse un po’ pomposamente, chiamò le sue “pastorali”. Saltuaria, ma non fortunata, la sue esperienza di editore: autori di scarso conto che la buona stampa non valse mai a sottrarre, se non all’indifferenza, alla mediocrità. Perché il B. rimaneva tipografo, e un testo valeva solo in vista della sua realizzazione, della sua architettura tipografica.

    Con lui ebbe quindi un estremo fulgore la figura del tipografo-artista, che cerca l’armonia e la bellezza, le proprietà espressive di un carattere e la sua figura ideale. Ma, nel caso nostro, con il presentimento anche che la stagione artigianale della tipografia era in liquidazione, incalzando le nuove e massicce soluzioni industriali. Depone a vantaggio di questa novità, da lui in fondo pienamente intuita, il fatto che il B. abbia preferito al “libro per amatore” – a risultati di eccezione ma pressoché privati – il libro bello e perfetto “per tutti”.

    Non fu un disegnatore di caratteri, ma contribuì moltissimo con studi e suggerimenti alla creazione di alcuni tipi ispirati ad alfabeti di calligrafi soprattutto del sec. XVI, quali il “Ruano”, fuso nel 1926, motivato sulla cancelleresca “verticale” di Ferdinando Ruano (1540); il “Sinibaldi” su manoscritti di Antonio Sinibaldi (1400) e già inciso in America ai primi del secolo grazie a Guido Biagi e William D. Orcutt, poi completato e perfezionato in Italia nel 1928 quando il B. ne ricuperò le matrici; il “Paganini” in collaborazione con Alessandro Butti, tra il 1926 e il 1928, alfabeto armonioso e di notevole finezza, senz’altro il più riuscito ad anche il più fortunato.

    Del B. si ricordano i seguenti scritti: L’Arte di G. B. Bodoni,con una nota biografica a cura di G. Fumagalli, Milano 1913; Come nasce un libro, ibid. 1931; 20 alfabeti brevemente illustrati, ibid. 1933; Il libro italiano nel Novecento, ibid. 1935.

    Il B. morì ad Asso il 30 maggio 1941.(fonte)

    [7] Nel 1939 Pasqua fu domenica 9 aprile. La data della lettera, non presente nello scritto, è desunta dall’affermazione “fra due giorni è Pasqua”.

    [8] La lettera è indirizzata a Giuseppe Cabella.
    Sottotenente Cabella Giuseppe MAVM 2 MBVM CGVM MAVM Cabella Giuseppe fu Gerolamo e fu Cabella Paola, da Novi Ligure (Imperia?), sottotenente 1° reggimento misto “Frecce Azzurre”: «Comandante di plotone mitraglieri assegnato ad una compagnia fucilieri assolveva con serenità, perizia e lodevole sentimento del dovere, tutti i compiti assegnatigli. Durante l’attacco ad una importante posizione nemica, assumeva d’iniziativa il comando di un plotone rimasto temporaneamente privo del comandante, e lo conduceva all’assalto di una munita trincea nemica, che occupava dopo aver fugato i difensori. Mirablanca, 27 marzo 1938-XVI».51 MBVM Cabella Giuseppe fu Gerolamo e fu Cabella Paola, da Novi Ligure (AL), sottotenente 1° reggimento “Frecce Azzurre”: «Comandante di plotone mitraglieri, durante l’attacco di forti posizioni nemiche, guidava con slancio ed iniziativa i suoi uomini alla conquista di una posizione dalla quale con la sua azione di fuoco favoriva l’avanzata di un altro reparto del suo battaglione. – Spagna Alto del Nino (Barracas) 21 luglio 1938-XVI».52 Cabella Giuseppe fu Gerolamo e fu Cabella Paola, da Novi Ligure (AL), centurione 219^ legione CC. NN.: «In due giornate di combattimento, era costante esempio ai dipendenti di coraggio e virtù militari prodigandosi con superbo sprezzo del pericolo per il conseguimento del successo e riuscendo, alla testa di alcune pattuglie esploratori a conquistare importante posizione. – Buq-Buq-Sidi el Barrani, 15-16 settembre 1940-XVIII».53 CGVM Cabella Giuseppe fu Gerolamo e fu Cabella Paola, da Novi Ligure (AL), sottotenente battaglione Sierra Avila “Frecce Azzurre”: «Ufficiale prodigatosi, in due anni di guerra e sempre con reparti in linea, in tutte le operazioni. Per attaccamento al proprio reparto rifiutava due volte il trasferimento in un altro di retrovia. Saputo del ferimento di un proprio ufficiale, per il quale era reso difficoltoso il trasporto stante l’intenso tiro di armi automatiche avversarie, di propria iniziativa si recava coraggiosamente sul posto e provvedeva al ritiro del ferito, sottraendolo a sicura morte. Bell’esempio di altruismo e sprezzo del pericolo. – Fores, 15 gennaio 1939-XVII».(fonte)