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Primo Benaglia, 27 aprile 1939

    Primo Benaglia, 27 aprile 1939
    « di 3 »

    Roma 27 Aprile 1939 XVII

    Carissimo, sai tu cosa mi sono ridotto a fare per avere tue
    notizie ? Ho scritto a tuo fratello Mario, il quale, molto
    cortesemente oggi mi scrive dandomi il tuo indirizzo, e comuni-
    candomi che non sei né morto né ferito, ma vivo, vegeto, in
    terra di Spagna. Ricevendo la lettera di tuo fratello ho ti-
    rato un respirone, che gi° da tempo ero in pena. Nessuno più
    mi dava notizie di te, e tu non rispondevi a ben TRE lettere
    che ti ho diretto all’indirizzo che mi dasti alcuni mesi fa
    quando ti ricordasti che al mondo c’era un certo Benaglia[1],
    che ti era , più che amico fratello[2]. Ho avuto paura per te,
    e sebbene non facessi che ripetere a me  stesso che non poteva
    esserti successo nulla, perché il buon Dio ti avrebbe sempre
    protetto, non ero tranquillo, e quando non ne ho potuto
    più ò scritto a tuo fratello. Così adesso so che sei sano,
    e mi sono levato una spina dal cuore, e mi levo anche la
    soddisfazione di trattarti come meriti. L’ultima volta che ti ho
    scritto il venerdì di Pasqua. Ti dicevo la mia contentezza
    di saperti ormai fuori di ogni pericolo, ti dicevo la mia gioia
    di riavere una casa e la mia bambina con me, ti dicevo anche
    dei miei dolori e dei miei disinganni, e ti chiedevo quando
    saresti tornato. Tu , uomo fedelissimo alle abitudini, anzi
    alle cattive abitudini, avrai pensato centi volte di rispondrm…
    eppoi non mi hai risposto.
    Io voglio pensare che il tuo silenzio sia solamente imputabile
    a pigrizia. Non, non è possibile che tu abbia dimenticato il
    tuo camerata di tanti giorni. Da tanto tempo siamo separati,
    e tu avrai visto tante cose nuove, ed avrai vissuto e vivrai

    fra tante persone nuove, più simpatiche, più colte, più
    intelligenti del vecchio Benaglia, ma non è possibile tu
    l’abbia dimenticato, non voglio nemmeno pensarlo.
    La mia avventura spagnola[3] non ha più ormai all’attivo che
    poche cose che devo gelosamente conservare, prima di tutto
    un fratello che io ho incontrato costà, e non voglio perdere,
    un uomo che mi aveva capito e mi voleva bene con tutte le
    mie storture e i miei difetti, un uomo che era buono ed era
    gentile, come non ne ho incontrati nella vita; eppoi il
    ricordo di quelle lunghe chiaccherate, quando si parlava della
    nostra terra lontana, tu dei tuoi cari scomparsi, io delle due
    figliole che qui mi aspettavano, e poi si sognava insieme una vita
    insieme, più calma, più tranquilla. Queste sono le cose che
    ancora oggi ricordo con gioia. Il resto l’ho dimenticato e me
    lo fanno dimenticare
    Ed adesso che ti ho ritrovato, che ti so vivo, voglio sapere
    cosa fai, come stai, quando conti tornare. Di me è inutile
    ti dica. Ti ho già accennato nella mia precedente. Ingoio
    veleno, tanto di non riuscire a sorridere nella mia casetta
    che sognavo in Spagna come la mia massima gioia. Ma pazienza,
    verrà anche per me un momento di serenità. Ma tu che fai ?
    Ti prego, scrivimi anche poche righe per dirmi che io sono anco
    ra per te il vecchio Benaglia, ché se non lo fossi più, scri-
    vimelo liberamente. Ma non è possibile, è grottesco quello che
    penso. Ma devi perdonarmi. Ho avuto troppe delusioni in questi
    tempi, ed ho paura anche delle ombre.
    Di vecchi ufficiali non vedo più nessuno. Telefono qualche volt
    a Lodoli[4], lui non telefona mai, più che tutto per sapere se

    aveva notizie di te. Craveri non mi ha più scritto, e nemmeno
    risposto agli auguri . Mi ha scritto il Serg. Mulè, che ha
    perduto un occhio nell’azione, della Catalogna ed è a casa.
    Si ricorda di te e dice di salutarti.
    Sandri[5] è stato ferito, non gravemente e non so se sia rientrato
    Il Caporale Drago e Bilella, sono gli unici della tua sezione
    che sono ancora in Spagna
    Ricordi quella Madonnina che presi da quei due vecchi a
    Navalpotro[6]. È a capo del letto della mia bambina. È il più
    bel regalo che io le abbia portato dalla Spagna.
    La mia bambina, (come è grande e come studia bene!), e mia
    moglie ti aspettano.
    Sarà possibile che si realizzi il sogno dei nostri tempi …
    lavorare insieme ed insieme ricostruire il nostro domani ?
    Come sarei contento se tu fossi qui. Ma presto tornerai, non
    è vero che tornerai ? Scrivimi qualcosa subito.
    Nell’attesa, che spero brevissima, ti abbracio forte

    Tuo Benaglia Primo


    Note

    [1] Benaglia Primo fu Vittorio e di Imelde Serra, da Firenze, capitano 2° reggimento fanteria legionaria volontari del Littorio. — Aiutante maggiore di un battaglione impegnato in un aspro combattimento, caduto ferito il proprio comandante nonostante la violenta reazione avversaria, si prodigava incessantemente perchè l’attacco non subisse soste. — Torrecilla de Alcaniz, 19 marzo 1938-XVI.(fonte)
    [2] Primo Benaglia, autore della presente lettera indirizzata a Giuseppe Cabella, probabilmente parente dell’artista Enrico Benaglia. Il passaggio della lettera:
    “Ti ho già accennato nella mia precedente. Ingoio veleno, tanto da non riuscire a sorridere nella mia casetta che sognavo in Spagna come la mia massima gioia”,
    spiegato nella lettera precedente del 3 aprile(link), viene evocato nell’intervista che l’artista Enrico Benaglia ha pubblicato sul suo sito personale:
    “Ho avuto dei genitori eccellenti. Purtroppo sono stato indipendente a partire dai miei 15 anni, perché mio padre ebbe un disastro finanziario e ho dovuto iniziare a lavorare per guadagnarmi da vivere. Sono stato nello studio del pittore Achilli, che pagava poco, però nei momenti di pausa mi metteva la matita in mano e mi ha insegnato tutto il mestiere.”(fonte).

    [8] La lettera è indirizzata a Giuseppe Cabella.
    Sottotenente Cabella Giuseppe MAVM 2 MBVM CGVM MAVM Cabella Giuseppe fu Gerolamo e fu Cabella Paola, da Novi Ligure (Imperia?), sottotenente 1° reggimento misto “Frecce Azzurre”: «Comandante di plotone mitraglieri assegnato ad una compagnia fucilieri assolveva con serenità, perizia e lodevole sentimento del dovere, tutti i compiti assegnatigli. Durante l’attacco ad una importante posizione nemica, assumeva d’iniziativa il comando di un plotone rimasto temporaneamente privo del comandante, e lo conduceva all’assalto di una munita trincea nemica, che occupava dopo aver fugato i difensori. Mirablanca, 27 marzo 1938-XVI».51 MBVM Cabella Giuseppe fu Gerolamo e fu Cabella Paola, da Novi Ligure (AL), sottotenente 1° reggimento “Frecce Azzurre”: «Comandante di plotone mitraglieri, durante l’attacco di forti posizioni nemiche, guidava con slancio ed iniziativa i suoi uomini alla conquista di una posizione dalla quale con la sua azione di fuoco favoriva l’avanzata di un altro reparto del suo battaglione. – Spagna Alto del Nino (Barracas) 21 luglio 1938-XVI».52 Cabella Giuseppe fu Gerolamo e fu Cabella Paola, da Novi Ligure (AL), centurione 219^ legione CC. NN.: «In due giornate di combattimento, era costante esempio ai dipendenti di coraggio e virtù militari prodigandosi con superbo sprezzo del pericolo per il conseguimento del successo e riuscendo, alla testa di alcune pattuglie esploratori a conquistare importante posizione. – Buq-Buq-Sidi el Barrani, 15-16 settembre 1940-XVIII».53 CGVM Cabella Giuseppe fu Gerolamo e fu Cabella Paola, da Novi Ligure (AL), sottotenente battaglione Sierra Avila “Frecce Azzurre”: «Ufficiale prodigatosi, in due anni di guerra e sempre con reparti in linea, in tutte le operazioni. Per attaccamento al proprio reparto rifiutava due volte il trasferimento in un altro di retrovia. Saputo del ferimento di un proprio ufficiale, per il quale era reso difficoltoso il trasporto stante l’intenso tiro di armi automatiche avversarie, di propria iniziativa si recava coraggiosamente sul posto e provvedeva al ritiro del ferito, sottraendolo a sicura morte. Bell’esempio di altruismo e sprezzo del pericolo. – Fores, 15 gennaio 1939-XVII».(fonte)

    [3] La battaglia di Catalogna fu un’offensiva della guerra civile spagnola, lanciata il 23 dicembre 1938 dall’esercito nazionalista di Francisco Franco contro le forze repubblicane. L’offensiva condusse, il 26 gennaio 1939, alla caduta di Barcellona, capitale del territorio controllato dai repubblicani dall’ottobre del 1937. A seguito della sconfitta, il governo repubblicano si rifugiò in Francia, assieme a migliaia di persone in fuga dai nazionalisti.

    Contesto

    Dopo la sconfitta nella battaglia dell’Ebro, l’Esercito Popolare Repubblicano aveva subito gravi perdite, da cui non si sarebbe più ristabilito. Le unità avevano perso molti dei loro armamenti e delle truppe più esperte. Inoltre, nell’ottobre 1938, il governo repubblicano aveva accettato di ritirare i volontari delle Brigate internazionali, mentre sull’altro fronte, i nazionalisti avevano ricevuto nuovi rifornimenti di munizioni, armi e velivoli dalla Germania. In più, l’accordo di Monaco aveva fatto svanire la possibilità di un intervento delle democrazie occidentali in aiuto della repubblica contro le forze di Germania nazista e Regno d’Italia. Infine, nel giugno 1938, la Terza Repubblica francese aveva nuovamente chiuso la frontiera e congelato i beni repubblicani custoditi nelle sue banche.

    Fazioni

    Nazionalisti

    All’inizio del dicembre 1938, i nazionalisti concentrarono un gruppo d’armate, l’Ejército del Norte, comprendente fra i 300 000 e i 340 000 uomini e guidato dal generale Fidel Dávila, con l’obiettivo di conquistare la Catalogna. I nazionalisti utilizzarono le migliori divisioni a loro disposizione, schierandole su tutto il fronte dai Pirenei al Mediterraneo. Lungo il Segre furono poste il Cuerpo de Ejército de Urgel, guidato da Agustín Muñoz Grandes, il Cuerpo de Ejército del Maestrazgo di Rafael García Valiño e il Cuerpo de Ejército de Aragón di José Moscardó Ituarte; alla confluenza del Segre con l’Ebro vi era il Corpo Truppe Volontarie (Cuerpo Legionario Italiano) di Gastone Gambara, formato da quattro divisioni (55 000 uomini), e il Cuerpo de Ejército de Navarra guidato da José Solchaga Zala. Presso l’Ebro, infine, era dislocato il Cuerpo de Ejército Marroquí di Juan Yagüe. Secondo lo storico britannico Antony Beevor, i nazionalisti disponevano di oltre 300 carri armati, più di 500 aeroplani (fra cui anche dei moderni caccia Messerschmitt Bf 109 e Heinkel He 112) e 1 400 cannoni.

    Repubblicani
    Per fronteggiare l’attacco, i repubblicani disponevano dell’Ejército del Este del colonnello Sebastián Pozas Perea e dell’Ejército del Ebro del colonnello “Juan Modesto” (Juan Guilloto León), sotto il comando del generale Juan Hernández Saravia, comandante del Grupo de Ejércitos de la Región Oriental. Si stima che gli uomini totali fossero fra i 220 000 e i 300 000, molti dei quali privi di armi (secondo Hernández Saravia, l’armata repubblicana disponeva di soli 17 000 fucili per tutta la Catalogna), 106 aeroplani (molti dei quali erano Polikarpov I-15, soprannominati Chatos), 250 cannoni e 40 carri T-26 (molti dei quali inservibili per mancanza di parti di ricambio). Il governo dell’Unione Sovietica inviò in rinforzo un carico di 250 aerei, 250 carri e 650 cannoni, ma la spedizione non raggiunse Bordeaux che il 15 gennaio, e solo una piccola parte di essa attraversò la frontiera. In più, a causa dell’isolamento internazionale della repubblica e della carenza di cibo (secondo Beevor, a Barcellona la razione giornaliera era scesa a 100 grammi di lenticchie) il morale delle truppe e della popolazione della zona era molto basso. La gente desiderava solo la fine della guerra: “…facciamola solo finita, non importa come si conclude, ma finiamola ora.”

    La battaglia

    L’offensiva dei nazionalisti

    L’offensiva nazionalista era programmata per il 10 dicembre, ma fu posticipata al 23. In quel giorno, italiani e navarresi attraversarono il Segre presso Mequinenza, ruppero le linee repubblicane e avanzarono di 16 chilometri, ma il 25 dicembre furono fermati dal V e XV corpo repubblicano, guidati da Enrique Líster. Sul fianco sinistro, Muñoz Grandes e García Valiño avanzarono verso Cervera e Artesa, ma vennero bloccati dalla colonna di Buenaventura Durruti, della 26ª divisione repubblicana. A sud, le truppe di Yagüe furono trattenute da un’esondazione dell’Ebro. I repubblicani avevano fermato il primo attacco dei nazionalisti, ma avevano perso 40 aerei nei primi dieci giorni di battaglia.

    Il 3 gennaio, Solchaga attaccò Borjas Blancas, Muñoz Grandes e García Valiño occuparono Artesa, e Yagüe attraversò l’Ebro. Moscardó attaccò da Lerida e le truppe italiane entrarono a Borjas Blancas il 5 gennaio. Quello stesso giorno, l’armata repubblicana iniziò un attacco a sorpresa in Estremadura, la battaglia di Valsequillo, puntando verso Peñarroya per distogliere truppe nazionaliste, ma questa controffensiva fu fermata dopo pochi giorni, mentre l’attacco nazionalista in Catalogna continuò. Il 9 gennaio, il corpo d’armata d’Aragona di Moscardó si unì a quello di Gambara presso Mollerusa, e ruppe la parte settentrionale del fronte. Il V e il XV corpo repubblicano collassarono, e si ritirarono disordinatamente. Il 15 gennaio, i Corso d’Aragona e di Maestrazgo conquistarono Cervera, e il corpo marocchino, marciando di 50 km in un solo giorno, occupò Tarragona. A questo punto, i nazionalisti avevano conquistato un terzo della Catalogna, preso 23 000 prigionieri e ucciso 5 000 soldati repubblicani.

    La caduta di Barcellona

    Il governo repubblicano provò a organizzare la difesa della capitale, ordinando la mobilitazione di tutti gli uomini fino ai 45 anni di età e militarizzando l’industria. Ciononostante, le tre linee difensive (L1, L2 ed L3) caddero, e le forze repubblicane si ritrovarono in grave inferiorità numerica (il rapporto di forze era di 1:6), mentre l’aviazione nazionalista eseguiva quotidiani bombardamenti di Barcellona (40 raid fra il 21 e il 25 gennaio). Divenne chiaro che la difesa della città era impossibile. Il 22 gennaio, Solchaga e Yagüe raggiunsero il fiume Llobregat, posto a pochi chilometri da Barcellona, Muñoz Grandes e García Valiño attaccarono Sabadell e Tarrasa mentre Gambara avanzò su Badalona. Il capo di stato maggiore dei repubblicani, Vicente Rojo Lluch, disse al suo primo ministro Juan Negrín che il fronte aveva cessato di esistere, sicché il governo abbandonò Barcellona dopo aver rilasciato molti dei suoi prigionieri. Anche buona parte della popolazione di Barcellona fuggì dalla città. Il 24 gennaio, García Valiño occupò Manresa, e il giorno seguente l’avanguardia nazionalista occupò il Tibidabo, nei pressi di Barcellona. La capitale fu infine conquistata il 26 gennaio, e saccheggiata per cinque giorni dai Regulares di Yagüe. Vi furono anche vari omicidi senza processo (paseos).

    La ritirata

    Dopo l’occupazione di Barcelona, le truppe nazionaliste, stanche a causa delle lunghe marce, rallentarono l’avanzata. Presto però ripresero l’offensiva, inseguendo le colonne in ritirata di truppe e civili repubblicani. Il 1º febbraio, nell’ultima riunione delle Cortes, tenutasi nel Castello di Sant Ferran a Figueres, Negrín propose la capitolazione, con le sole condizioni che fossero risparmiate le vite degli sconfitti e indetto un plebiscito per consentire agli spagnoli di scegliere la forma di governo. Franco però non accettò. Il 2 febbraio, i nazionalisti entrarono a Gerona, il giorno seguente arrivarono a 50 chilometri della frontiera, e l’8 febbraio occuparono Figueras, al che Rojo ordinò alle truppe repubblicane di ritirarsi verso la frontiera con la Francia. Centinaia di migliaia di soldati e civili repubblicani, fra cui anche donne, bambini e anziani, si diressero verso la frontiera, chi a piedi, chi su carri e mezzi motorizzati, affrontando neve e acquaneve. La loro ritirata fu coperta dalle unità dell’Esercito Popolare Repubblicano, che compì attacchi mordi e fuggi e imboscate. L’aviazione nazionalista e la Legione Condor bombardarono le strade verso la Francia. Il 28 gennaio, il governo francese annunciò che i profughi civili potevano attraversare la frontiera, e il 5 febbraio estese il permesso anche ai militari repubblicani. Passarono il confine fra i 400 000 e i 500 000 rifugiati, fra cui il presidente della repubblica Manuel Azaña, il primo ministro Juan Negrín e il capo di stato maggiore Vicente Rojo. Negrín tornò in Spagna il 9 febbraio, ma Azaña e Rojo rifiutarono di farlo. Il 9 febbraio i nazionalisti raggiunsero la frontiera; il giorno seguente le ultime unità dell’armata dell’Ebro, di Modesto, arrivarono in Francia e i nazionalisti chiusero la frontiera.

    Conseguenze

    Ripercussioni militari e politiche

    A seguito della sconfitta, la Repubblica perse la seconda più grande città della Spagna, l’industria bellica catalana e gran parte della sua armata (più di 200 000 soldati). Il 27 febbraio, Azaña si dimise; nello stesso giorno, Francia e Regno Unito riconobbero il governo di Franco. Un’ulteriore resistenza militare divenne impossibile e la guerra divenne di fatto perduta per la Repubblica, malgrado questa controllasse ancora il 30% del territorio spagnolo e il primo ministro insistesse sulla possibilità di continuare a combattere.

    Lo Statuto di Autonomia della Catalogna fu abolito. La lingua catalana, la Sardana (una danza popolare) e i nomi di battesimo catalani furono vietati. Tutti i giornali catalani vennero sequestrati e i libri proibiti ritirati e bruciati. Furono perfino rimosse le iscrizioni sulle tombe del cimitero di Montjuïc che commemoravano Buenaventura Durruti, Francisco Ascaso e Francesc Ferrer i Guàrdia.

    Il destino dei rifugiati repubblicani

    Gli esuli repubblicani furono internati dal governo francese in quindici campi di concentramento improvvisati (perlopiù recinti di filo spinato su sabbia, senza ripari, sanitari né strumenti per cuocere il cibo). Esempi di campi simili furono quelli di Argelès, Gurs, Rivesaltes e Vernet. Le condizioni di vita nei campi erano molto dure. Nei primi sei mesi, 14.672 profughi morirono di malnutrizione o dissenteria. Il governo francese incoraggiò i rifugiati a ritornare, sicché, alla fine del 1939, fra i 70.000 e i 180.000 profughi erano tornati in Spagna. Altri 300.000, invece, non fecero ritorno: molti fuggirono in Unione Sovietica (fra i 3.000 e i 5.000), Stati Uniti e Canada (circa 1.000), e paesi europei fra cui Gran Bretagna e Belgio (fra i 3.000 e i 5.000). Molti altri riuscirono a raggiungere l’America latina (30.000 in Messico, 10.000 in Argentina, 5.000 in Venezuela, 5.000 in Repubblica Dominicana, 3.500 in Cile ecc.), in cerca di asilo. Tuttavia, almeno 140.000 rifugiati rimasero in Francia, e altri 19.000 si trasferirono nelle colonie francesi del Nordafrica. Dopo la caduta della Francia, da 10.000 a 15.000 rifugiati furono catturati dai nazisti e deportati nel Campo di concentramento di Mauthausen-Gusen. Altri 10.000 si unirono alla Resistenza francese e più di 2.000 alle forze della France libre.(fonte)

    [4] Renzo Lodoli, veneziano di origine ma romano d’adozione, fu un uomo dalle molteplici sfaccettature, legato indissolubilmente alla storia d’Italia nel Novecento. Combattente, scrittore apprezzato e, nel primo dopoguerra, tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano (Msi). La sua vita è stata caratterizzata da esperienze di guerra, impegno politico e contributi significativi nel campo dell’ingegneria e della scrittura.

    La sua formazione giovanile fu fortemente condizionata da Annibale, il padre, ufficiale di marina e sommergibilista sul “Delfino”, il primo sottomarino italiano, amico di Gabriele D’ Annunzio. E dallo stesso D’ Annunzio che gli fu padrino alla cresima e lo affascinò con le sue avventure. «Quelli della mia generazione erano ossessionati dalle imprese dei padri», ammetteva lo stesso Lodoli.

    Nato nel 1913 a Venezia – dove vantava un antenato illustre in quell’ abate Carlo Lodoli protagonista nel Settecento di una vivace tenzone letteraria col poeta maledetto Giorgio Alvise Baffo (Venezia, 11 agosto 1694 – Venezia, 30 luglio 1768) -, all’età di soli ventitré anni, sulla scia dei richiami del regime Renzo Lodoli non esitò, nel ’35, a piantare la facoltà di ingegneria che frequentava a Roma, a otto esami dalla laurea, per arruolarsi volontario in Africa Orientale con il battaglione universitario “Curtatone e Montanara”.

    La sua esperienza in Africa fu solo l’inizio del suo coinvolgimento in conflitti militari. Tornato in Italia, quindi la laurea e la nuova partenza. Spagna, stavolta. Nei suoi racconti, Lodoli ricordava che chiesero chi volesse andare, ed egli rispose subito, entusiasta e più motivato di prima. Perché voleva fare la guerra e in Africa la guerra non l’aveva nemmeno vista. Aveva 24 anni, e aveva aderito prima alla Fuci, il gruppo di universitari cattolici, poi al Guf, quello dei giovani fascisti. Scriveva su un giornale che si chiamava Roma fascista. Si unì alla Divisione Littorio, dove fu il comandante del plotone degli arditi, per combattere nella Guerra Civile Spagnola a fianco dei nazionalisti. Combatté un anno e mezzo nella guerra di Spagna, dal gennaio del 1937 al settembre del ’38, quando la morte di sua madre lo costrinse a fare ritorno in patria. Fu raggiunto da quattro pallottole nemiche: tre si persero sulla coperta arrotolata, in fondo all’elmetto e dentro la maschera antigas. Una sola lo ferì, ad una gamba.

    Il secondo conflitto mondiale lo vide ancora in trincea come ufficiale dei Granatieri di Sardegna. Fu decorato al valor militare. Dopo l’otto settembre aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Finita la guerra, si fece un anno di prigione, per aver incitato, da un giornale di propaganda fascista, i giovani a combattere.

    Al termine della guerra si dedicò alla carriera di ingegnere nella vita civile, «riempiendo l’Italia di brutte case», come ricordava con ironia. Contemporaneamente, Renzo Lodoli non abbandonò mai il suo coinvolgimento politico e fu nel ’46 tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano (Msi). Fu inoltre a lungo presidente dell’Associazione combattenti italiani in Spagna e fece parte degli organi direttivi della Fondazione della RSI.

    La sua adesione al Msi lo portò spesso a essere al centro di polemiche e conflitti con avversari politici. Nel corso degli anni, Lodoli fu coinvolto in vivaci confronti con esponenti di altre fazioni politiche, accrescendo ulteriormente la sua figura di personaggio passionale. Risulta alle cronache che, nel corso di un comizio negli anni ’50, come vicesegretario del MSI ebbe una vivace discussione con Paolo Bonomi, candidato democristiano, in quel di Ronciglione (VT), sedata solo dall’intervento dei carabinieri. Al di là delle tensioni politiche, il suo ruolo nel Movimento Sociale Italiano e il suo impegno nella difesa dei diritti dei combattenti italiani dimostrano la sua passione indomabile per le sue idee.

    Come padre, ebbe anche una relazione speciale con il figlio, Marco Lodoli, scrittore, giornalista e insegnante romano. Nonostante le sensibili differenze di vedute politiche, la passione per la scrittura fu un legame profondo tra di loro. Marco, negli anni, ha seguito una carriera letteraria di successo, esplorando temi come il viaggio, la morte e il rapporto tra sé e l’altro. A prova della reciproca stima, quando Marco iniziò a scrivere poesie, fu il padre a supportarlo finanziariamente nella pubblicazione. Ancora più significativo, Renzo Lodoli recensì il primo romanzo di Marco con grande orgoglio sulle pagine del Secolo d’Italia.

    Sotto questi aspetti, la storia di Renzo e Marco Lodoli ci ricorda che la scrittura può superare le barriere ideologiche, creando un ponte di comprensione e affetto tra persone con prospettive diverse. Sia Renzo che Marco hanno dimostrato il coraggio di esplorare nuovi mondi attraverso le parole, ognuno con la propria prospettiva e stile, ma entrambi con l’amore per la letteratura come collante indelebile di una relazione straordinaria tra padre e figlio.

    Renzo Lodoli mantenne il suo “ideario” fascista fino alla fine dei suoi giorni e continuò a mantenere contatti con altri ex combattenti, visitando regolarmente la Spagna. Nel 1988, in qualità di presidente dell’Associazione nazionale combattenti italiani in Spagna, scrisse a Giovanni Spadolini, presidente del Senato, proponendo l’approvazione di una proposta di legge per restituire ai combattenti italiani che ne furono privati i legittimi riconoscimenti.

    La sua biografia è segnata da una particolare e accesa sua visione della patria, che si riflette sia nei suoi gesti di guerra che nelle sue convinzioni politiche. Pubblicò una raccolta di racconti intitolata “Dalla parte sbagliata”, espressione che rifletteva le scelte fatte in gioventù con sincera e disinteressata buona fede.

    La scomparsa di Renzo Lodoli, avvenuta a Roma nell’ottobre del 2008, fu vista a destra come una grave perdita. Nel complesso, il suo ricordo è sfaccettato, come l’uomo stesso, e suscita sentimenti contrastanti. C’è chi lo ricorda come un patriota coraggioso e chi lo critica per il suo coinvolgimento con il regime fascista.

    Indipendentemente dalle disparate opinioni, Renzo Lodoli è stato un protagonista del suo tempo, un volontario di guerra, un ufficiale coraggioso, un ingegnere di successo e un fondatore del Msi. La sua figura poliedrica può continuare a suscitare interesse e dibattito, avendo lasciato tracce significative per interpretare alcune fasi della storia italiana del Novecento.(fonte)

    [5] Guglielmo Sandri, nato Wilhelm Schrefler (Merano, 12 febbraio 1905 – Vipiteno, 24 giugno 1979), è stato un militare e fotografo italiano.

    Biografia

    Figlio di una coppia originaria dell’Alta Austria trasferitasi a Merano quando la città faceva ancora parte dell’Impero austro-ungarico, insieme al fratello Ludwig rimase presto orfano e fu adottato da una vedova del luogo. Nel 1925 svolse il servizio di leva a Verona venendo congedato come ufficiale di complemento.

    Nel 1935 fu richiamato nell’esercito per partecipare alla guerra d’Etiopia, fu in questa occasione che decise di italianizzare il proprio cognome Schrefler in Sandri come l’omonimo campione di motociclismo di cui era tifoso. Il nome di battesimo Wilhelm era già stato cambiato d’ufficio in Guglielmo prima del servizio di leva.

    Nel novembre 1936 si arruolò volontario per la guerra civile spagnola raggiungendo Cadice l’11 febbraio 1937. Inquadrato inizialmente nel secondo reggimento della Divisione Littorio Sandri prese parte a tutte le operazioni militari venendo decorato con la croce di guerra al valor militare nell’aprile 1938 e nel dicembre dello stesso anno con la medaglia d’argento al valor militare per un’azione svoltasi presso El Cogul. Prese parte alla Battaglia di Guadalajara che documentò con le sue primissime foto e in seguito anche alla Battaglia di Santander. Sandri documentò anche l’offensiva dell’Aragona, la battaglia dell’Ebro e la sfilata della vittoria a Madrid davanti al generale Francisco Franco.

    Lasciò la Spagna rientrando a Napoli solo il 30 maggio 1939 dopo la vittoria delle truppe franchiste e sbarcò a Napoli dove i volontari italiani furono accolti dal re Vittorio Emanuele III.

    Dopo la Spagna Sandri non lasciò l’esercito e prese parte alla campagna contro la Francia, all’invasione della Jugoslavia e alla campagna del Nordafrica. Nell’ottobre 1942 fu gravemente ferito ad El Alamein costringendolo a passare anni in ospedale finché nel 1949 fu posto in congedo per ferite di guerra.

    Sandri si trasferì a Bologna, poi ritornò in Alto Adige a Vipiteno, dove fu impiegato presso l’Azienda autonoma di turismo.

    Il “fondo fotografico Wilhelm Schrefler/Guglielmo Sandri”

    Il ritrovamento delle fotografie

    Nel 1992 la giovane Samantha Schneider, passando vicino a dei bidoni dell’immondizia di Vipiteno vide casualmente delle fotografie fuoriuscire da una cassa di legno. Scoprì che vi erano circa 4000 fotografie di guerra prive dell’indicazione dell’autore. L’intera collezione nel 2004 fu acquisita dall’Archivio provinciale di Bolzano. Subito nacquero domande su chi fosse il reale autore ipotizzando inizialmente che potesse essere un soldato italiano inviato di presidio presso il confine tra l’Austria e l’Italia.

    Sulla base di uno studio approfondito delle fotografie, in particolare delle divise, identifico il militare italiano come un appartenente al Corpo Truppe Volontarie inviato a partire dal 1936 in Spagna. In particolare, se ne ricostruì l’appartenenza al secondo reggimento della divisione “Littorio”. Tramite l’Associazione Nazionale Combattenti Italiani di Spagna (ANCIS), fu contattato l’ex ufficiale Renzo Lodoli[4], che avendo combattuto nello stesso reggimento, ricordava un tenente che parlava perfettamente tedesco tanto da essere impiegato anche come interprete con i soldati tedeschi e che in particolare era sempre intento a scattare foto. Con l’aiuto dell’elenco ufficiali della divisione “Littorio” Lodoli[4] riuscì ad individuare il nome di Guglielmo Sandri.

    Dopo la verifica dei fogli matricolari della provincia di Bolzano fu rintracciato il nominativo di Guglielmo Sandri, aggiunto sopra quello cancellato di Wilhelm Schrefler. Grazie a quest’ultima informazione fu possibile rintracciare i parenti di Sandri che in Austria avevano invece mantenuto il nome tedesco e custodivano con cura ancora tutti i negativi delle foto scattate da Sandri. Nel 2004 l’intero archivio fotografico fu acquisito dall’archivio provinciale di Bolzano.

    Il fondo fotografico

    La sola passione per le foto spinse Sandri, che era un dilettante non professionista, a scattare le innumerevoli fotografie che costituiscono ora il suo fondo. Prova ne è che negli archivi militari non ne è conservata alcuna traccia ed infatti al termine della guerra civile spagnola, cui fanno riferimento la maggioranza delle foto poté conservare tutto il suo lavoro compresi i negativi originali mentre non sarebbe stato possibile in caso di un lavoro assegnato dall’esercito.

    Ad oggi la collezione di Guglielmo Sandri costituisce la più completa e la miglior documentazione fotografica esistente relativa all’intervento italiano in Spagna.

    Ha inoltre il pregio di evidenziare i cambiamenti che riguardarono la fotografia negli anni della guerra di Spagna nel corso della quale fecero la loro prima apparizione le macchine fotografiche leggere. L’importanza della collezione di Sandri è determinata, oltre alla estetica e alla buona tecnica fotografica, dalla documentazione della presenza italiana in Spagna in tutto il periodo bellico documentando anche la vita quotidiana dei soldati italiani e spagnoli. Ma Sandri non fotografa scene cruente, poche sono le immagini che ritraggono corpi di caduti, mai feriti o scene sanguinose. Sandri preferisce fotografare i soldati italiani nelle fasi preparatorie della battaglia, la distruzione toccata ad un porto nel nord della Spagna (probabilmente Bilbao), la marcia lungo il Puente de Piedra di Saragozza con la Basilica di Nostra Signora del Pilar sullo sfondo, oppure immagini di prigionieri repubblicani e delle truppe marocchine di Franco. Ma oltre alle immagini più o meno guerresche Sandri documenta anche momenti più privati come la fraternizzazione con i contadini, donne e bambini spagnoli, un soldato che legge una rivista con disegni di donne nudeo un altro gruppo che partecipa alla processione del Corpus Domini. Altresì importanti storicamente sono le immagini che documentano i danni sofferti da molti edifici, monumenti e chiese durante la guerra.

    Nel 2007 le fotografie di Sandri furono esposte a Bolzano in una mostra intitolata “Legionari. Italians de Mussolini a la guerra d’Espanya”, poi al Museo di storia di Barcellona alla presenza del presidente della provincia di Bolzano Luis Durnwalder e l’anno seguente fu organizzata una esposizione anche a Roma organizzata dall’Instituto Cervantes.(fonte)

    [5] Navalpotro è un comune spagnolo appartenente al comune di Torremocha del Campo , nella provincia di Guadalajara . Nel 2017 contava 13 abitanti.

    La località appartiene al comune di Torremocha del Campo , in provincia di Guadalajara , nella comunità autonoma di Castiglia-La Mancia . Nel  XIX secolo si diceva che il termine includesse anche “una montagna popolata da lecci e querce”.(fonte)
    “I piani di Roatta prevedevano che l’attacco venisse lanciato dalla 2ª Divisione Camicie Nere delle Fiamme Nere l’8 marzo, rompendo il fronte repubblicano e avanzando su tre colonne: la colonna di destra (Colonnello Pittau / 6º Gruppo) lungo la strada di Francia, la colonna centrale (Console Bandelli / 8º Gruppo) verso El Pircarón / Alaminos e la colonna di sinistra (Console Francisci / 4º e 5º Gruppo) verso Navalpotro-Las Inviernas-Masegoso. La 3ª Divisione Camicie Nere Penne Nere, trasportata da camion, avrebbe effettuato un attraversamento della linea e continuato l’offensiva sulla strada francese verso Torija e Guadalajara, protetta sul fianco destro dal generale Moscardó e su quello sinistro dalla 2ª Divisione, che si sarebbe posizionata a cavallo della strada Almadrones-Brihuega. La 1ª Divisione Dio lo Vuole e la 4ª Littorio sarebbero rimaste in riserva.” marzo 1937 su: “Militares italianos en la guerra de España” di Lucas Molina Franco(fonte)