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Paolo Serrao, 1901

    Paolo Serrao, 29 Luglio 1901
    « di 4 »

    Mio caro Leopoldo[1]

    Non ho testa, mi sono
    abrutito. Mia figlia Isma
    ila ammalata in seguito
    ad un’Epistassi che l’ha
    indebolita. Isa con convul=
    sioni isteriche, Paoluccio con
    dissenteria, Guido con la
    più scura paccariazione[2]
    Io, con i soliti insistenti
    capogiri- Che felicità! ..
    Guido è stato in trattazione
    per andare a Malta
    ora ch’è venuto l’impre=

    sario gli ha detto delle
     bellissime parole, in
    ultimo poi gli ha detto
    che andava a Milano
    e che Deliliè gli aveva
    preparato un Direttore.
    Io non credo a questo
    maltese, credo lo faccia
    per portarsi Guido ad
    un meschinissimo prezzo
    Intanto mi farebbe gran
    piacere che tu scrivessi
    ad hoc a Deliliè, beninteso

    riservatamente, altrimen-
    ti si farebbe peggio
    In caso poi, di Deliliè ch’è
    prevenito potrebbe propor
    re Guido+, il quale oltre la media
    zione gli farebbe pure un
    attenzione-
     Mio Caro Leopoldo
    senza le mie noie,
    ma essendo Padre a
    chi mi debbo rivolgermi
    per farli andare innanzi questi ques
    ti figli miei?..  Agli amici

    ciò mi pare naturalis
    simo- Ti chiedo scu-
    sa se t’incomodo spesso
    sullo stesso tema –
     Ora ti prego di salutar
    mi la tua bravissima
    Signora, ed a te una
    stretta di mano.
    Il tuo Puccini[3] ed il Villani[4]
    ebbero il giusto guiderdo=
    ne meritato-
    Ora che non ci sono
    questi : ci sarai tu?[5]..

    Tuo aff.
    Paolo Serrao[6]
    29 Luglio 1.901

    in alto
    L’Impresario di Malta Giovedì sarà
    a Milano, volendomi favorire bi-
    sognerebbe scrivere subito-


    Note

    [1] Leopoldo Mugnone. – Nacque a Napoli il 29 settembre 1858, in una famiglia di musicisti. Il padre, Antonio, era primo contrabbassista del teatro S. Carlo, il fratello Ferdinando direttore d’orchestra.

    Studiò al conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli con Beniamino Cesi e Paolo Serrao, mostrando precoci attitudini musicali e un sorprendente istinto teatrale; a soli 12 anni compose un’operina buffa, Il dottor Bartolo Salsapariglia, partecipando egli stesso alla recita nel ruolo comico del basso (sebbene allora avesse ancora voce da contralto). Le repliche gli fruttarono un buon successo di pubblico. Ancora studente fu nominato, nel 1875, maestro del coro per la stagione di opere comiche e operette del teatro Nuovo, allestita dalla compagnia di Fanny Sadowska: gli venne affidato l’incarico di preparare i materiali in italiano di alcune operette straniere (CagliostroIl pipistrelloIl carnevale di RomaMadama l’Arciduca) da presentare al pubblico napoletano nella traduzione del librettista Enrico Golisciani, nonché di comporre un’operetta in un atto, Don Bizzarro e le sue figlie, che fu molto apprezzata fin dal debutto, avvenuto il 20 aprile. Il successo venne replicato con Mamma Angot al serraglio di Costantinopoli, un’operetta in 3 atti, ancora su libretto di Golisciani, messa in scena al Nuovo nell’estate 1875. Il giovanissimo Mugnone, musicista già provetto, produsse anche parecchie composizioni cameristiche e vocali: si ricorda, tra l’altro, una graziosa romanza in napoletano, La rosella (Napoli 1874), che in quegli anni riscosse un notevole successo.

    Tornò alla composizione qualche anno più tardi con l’opera in un atto Il birichino, ancora su libretto di Golisciani, che debuttò con successo al teatro Malibran di Venezia l’11 agosto 1892 e fu ripresa a Roma, Firenze, Barcellona e Vienna: qui fu presentata dall’editore Sonzogno all’Esposizione internazionale di musica insieme ad alcune opere recentissime del proprio catalogo come Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, un accostamento al gusto dell’opera verista non apprezzato da Eduard Hanslick, che giudicò l’opera mediocre e noiosa. L’ultima esperienza compositiva per il teatro musicale fu Vita brettone, sempre su libretto di Golisciani, data a Napoli, al S. Carlo, il 14 marzo 1905, con l’autore sul podio.

    Il talento precoce di Mugnone si manifestò soprattutto nella direzione d’orchestra: appena sedicenne debuttò, su incarico di Luigi Lambiase, come direttore della stagione comica al teatro La Fenice di Napoli: un debutto invero contrastato, per il malcontento suscitato negli orchestrali dalla giovanissima età del maestro. Collaborò poi col teatro Garibaldi, prima come maestro del coro, indi come concertatore. Nel 1877 avviò al teatro dei Fiorentini una fortunata serie di allestimenti di opere dimenticate dal pubblico napoletano, di Giovanni Paisiello (Zingari in fiera), Domenico Cimarosa (Giannina e Bernardone Il matrimonio segreto), Errico Petrella e Gioachino Rossini. Seguì un ciclo di concerti che lo vide impegnato in diversi teatri dell’Italia meridionale; ritornato a Napoli, venne scelto da Giovanni Bottesini come accompagnatore per una tournée, durata quasi due anni, per le principali capitali europee.

    Il 22 maggio 1887 debuttò al teatro Costanzi di Roma con La forza del destino di Verdi. In seguito ai successi conseguiti nel 1888 venne scritturato dall’editore Sonzogno che, avendo appena assunto la gestione di importanti teatri tra cui lo stesso Costanzi, gli affidò la direzione delle opere del proprio catalogo nei maggiori teatri in Italia (La Scala e il Dal Verme a Milano, La Pergola a Firenze e il Comunale a Bologna) e all’estero, fra cui la stagione italiana a Parigi in occasione dell’Esposizione (1889) e il teatro Municipale di Nizza.

    Memorabile in questo periodo l’allestimento romano dell’Orfeo ed Euridice di Gluck. Scrisse a proposito Francesco Flores D’Arcais: «Datemi l’orchestra romana, guidata da un valente direttore come Mugnone, animata dal sacro fuoco dell’arte, desiderosa a buon diritto di provare la propria superiorità, e avrete l’esecuzione strumentale di stasera, una vera perfezione. Ho lasciato per ultimo il maestro Mugnone, al quale si deve in gran parte il colossale successo. Non si può interpretare meglio la musica di Gluck. Il Costanzi possiede senza dubbio uno dei più valenti direttori d’orchestra che abbiamo in Italia» (in L’Opinione, 25 ottobre 1888).

    Il rapporto privilegiato con l’editore milanese, mecenate della scuola musicale verista, gli consentì di dirigere le «prime» di autori come Mascagni (Cavalleria rusticana, 1890), Umberto Giordano (Andrea Chénier, 1905; Fedora, 1906; Mese mariano, 1910), Alberto Franchetti (La figlia di Jorio, 1906), che lo considerarono l’interprete ideale delle loro opere. Fu legato da amicizia con Giacomo Puccini, di cui curò la «prima» di Tosca (1900).

    A tal proposito, disse un quotidiano romano: «Mugnone concertò e diresse l’opera con affetto più che fraterno, trasferendovi tutta la sua anima di artista elettissimo, tutta la sua nervosità. Se nel finale del primo atto e nella scena della tortura e della morte raggiunse effetti poderosissimi, nel preludio del terzo atto riuscì di una finezza meravigliosa. Fu disegnatore perfetto, colorista smagliante e vigoroso, d’una purezza classica» (Il Popolo romano, 15 gennaio 1900). Il rapporto col compositore toscano s’incrinò tuttavia per i contrasti insorti durante l’allestimento di Madama Butterfly al Costanzi di Roma nel 1908. Diresse comunque più volte Manon LescautLa bohème, nonché la prima italiana de La rondine (Milano, 1917).(fonte)

    [2] paccariazione. s.f. • Mancanza di denari, miseria [N1-86(258 – Guida.221)] Orbene, figliuola mia, se la mia paccarazione non consentì che io mi facessi marito e padre,(fonte)

    [3] Giacomo Puccini – Nacque a Lucca il 22 dicembre 1858, sesto di nove figli (e primo maschio) del compositore Michele Puccini e di Albina Magi.

    Fu battezzato con i nomi degli antenati, dal trisnonno in giù, Giacomo Antonio Domenico Michele Secondo Maria: da lui ci si aspettava che proseguisse in linea retta la tradizione di famiglia, che da centovent’anni aveva dato alla prospera vita musicale lucchese i maestri di cappella cittadini e gli organisti in cattedrale. Alla morte del padre (1864), si dava per scontato che prima o poi il ragazzino, che aveva appena compiuto cinque anni, ne avrebbe assunto tutte le funzioni. Coerentemente con ciò fu la sua formazione.

    Tra i primi insegnanti ci fu Fortunato Magi, un fratello della madre, che dal 1877 avrebbe diretto il Conservatorio di Venezia. Puccini frequentò i seminari ecclesiastici di S. Michele e S. Martino nonché, dai dieci anni, l’Istituto musicale Giovanni Pacini (oggi intitolato a Luigi Boccherini), nel quale il padre era stato insegnante e da ultimo anche direttore; vi ebbe per docente in particolare Carlo Angeloni. Di quest’epoca restano poche composizioni: spicca il compito finale degli studi, la Messa a quattro voci con orchestra, la più vasta delle sue partiture non teatrali; la prima esecuzione – l’unica integrale, vivente l’autore – fu assai elogiata dalla stampa locale (giugno 1880).

    Puccini crebbe in una famiglia numerosa, non inconsueta all’epoca – la madre vedova, una nonna, sei sorelle perlopiù maggiori, un fratello minore (Michele) e due domestiche –, appartenente alla media borghesia, stimata in città e imparentata con altre famiglie influenti, non facoltosa, ma neppure così indigente come si legge in certe biografie pucciniane. Quattro sorelle si accasarono con distinti professionisti; un’altra entrò in un convento agostiniano e ne divenne presto superiora. Al di là della musica, Puccini poté godere di una formazione scolastica completa, cosa non ovvia all’epoca. Le lettere dell’uomo adulto dimostrano ch’egli conosceva il latino, sapeva corrispondere in francese e disponeva di una cultura classica di discreto livello.

    Date queste premesse, sarebbe stato ovvio che Puccini, a studi compiuti, puntasse agli incarichi tenuti dagli antenati. Ma una facile carriera in una città di provincia non lo attraeva. Grazie al cospicuo sforzo finanziario della famiglia (e a una borsa di studio della regina Margherita ottenuta tramite relazioni personali) Puccini poté completare la sua formazione di musicista in un conservatorio importante come quello di Milano. Dall’autunno del 1880 ebbe per insegnanti principali dapprima Antonio Bazzini, indi Amilcare Ponchielli. Oltre i compiti, tra le composizioni di questi anni si segnalano alcune liriche su versi di Antonio Ghislanzoni (il librettista dell’Aida) e un quartetto d’archi (pervenuto frammentario). Alla fine degli studi, nell’estate del 1883, venne eseguito in pubblico il pezzo d’esame, Capriccio sinfonico, la sua composizione orchestrale più ampia, eseguita poi altre volte negli anni seguenti (Puccini in seguito ne trasse l’attacco, famosissimo, del primo quadro della Bohème).

    Ma ciò che nei tre anni di studio a Milano più importò non fu tanto il perfezionamento della perizia compositiva, propiziato dalla stesura di innumerevoli fughe, quanto l’esperienza diretta del teatro. Puccini aveva bensì visto qualche melodramma a Lucca, e l’Aida a Pisa nel 1876, ma non c’era confronto con Milano, dove si dava regolarmente l’opera in vari teatri, anche titoli stranieri nuovissimi (qualcuno è menzionato nelle poche lettere superstiti di quest’epoca). A teatro imparò, da spettatore, che cos’è un melodramma. Questo era infatti il suo vero scopo: scrivere opere moderne, di preferenza nella scia di Richard Wagner, non del belcanto italiano o di Giuseppe Verdi. Insieme con Pietro Mascagni, suo compagno di studi, acquistò uno spartito del Parsifal, per impratichirsi della tecnica del loro idolo tedesco.

    Già durante gli anni di conservatorio Puccini covava progetti di opere, cui si dedicò seriamente soltanto dopo il diploma. L’editore e impresario Edoardo Sonzogno aveva appena bandito un concorso per un atto unico riservato ai compositori italiani: Ponchielli suggerì a Puccini di partecipare. Gli presentò il letterato Ferdinando Fontana, già autore di qualche libretto. La loro «opera-ballo», decisamente breve, fu concepita in pochi mesi, sulla scorta di un racconto di Alphonse Karr (1852), ed ebbe per titolo dapprima Le Willis, indi Le Villi: non ottenne neanche una menzione d’onore, pur sedendo Ponchielli e altri docenti di conservatorio di Puccini in giuria. Alcuni amici riuscirono nondimeno a racimolare quanto occorreva per inscenarla il 31 maggio 1884 nel milanese teatro Dal Verme, con tre repliche: il pubblico applaudì, la critica fu singolarmente elogiativa, talché Giulio Ricordi, che guidava la massima casa editrice italiana di musica, acquistò i diritti dell’opera, ne commissionò un’altra a Puccini, e gli concesse un anticipo sotto forma di sovvenzione mensile. Puccini era così entrato – accanto a Ponchielli e Alfredo Catalani – nel novero dei musicisti che Ricordi puntava a imporre come potenziali successori di Verdi, anche in vista dei profitti che se ne riprometteva.

    La nuova opera – libretto ancora di Fontana, dal dramma letterario La coupe et les lèvres di Alfred de Musset – tenne impegnato Puccini per anni: la ‘prima’ di Edgar ebbe luogo solo il 21 aprile 1889 alla Scala di Milano. Oltre la composizione dell’opera, i cinque anni intercorsi videro cambiamenti incisivi anche nella vita privata. Il musicista si innamorò di Elvira Bonturi, moglie di un commerciante lucchese in vista, e baritono dilettante, Narciso Gemignani: costei, abbandonato il marito e un figlio neonato, scappò da Lucca con l’amante e la figlia Fosca, seienne. A tutt’oggi non si sa con esattezza quando ebbe inizio questa relazione, né se ne conoscono tutte le circostanze. Di fatto, nel dicembre 1886 a Monza nacque loro un figlio, Antonio. Negli anni seguenti la coppia dovette spesso vivere separata, dacché il legame, considerato illegale, suscitava scandalo anche nelle famiglie delle sorelle di Puccini. Le sole entrate del musicista erano gli anticipi mensili di Ricordi sull’opera nuova e gli esigui diritti d’autore sulle occasionali riprese delle Villi: per tutta la vita Puccini si astenne dall’esercitare qualsivoglia professione, neppure come direttore d’orchestra o insegnante.

    Dopo un debutto così originale come Le VilliEdgar segnò un regresso: si trattò di un’opera convenzionale in quattro atti, confezionata sulla falsariga dei contemporanei diretti, Ponchielli e Catalani, e imbastita di ricalchi drammaturgici da Wagner (Tannhäuser) e Bizet (Carmen) e di echi musicali dall’ultimo Verdi (Otello). Il pubblico e la critica colsero benissimo che Edgar, a differenza dalle Villi, non aveva da offrire uno stile proprio: dopo tre sole recite il titolo fu ritirato, né i pesanti rimaneggiamenti effettuati subito dopo la ‘prima’ e poi via via fino al 1905 poterono redimere l’opera, che tra tutte quelle di Puccini è rimasta fino a oggi la meno conosciuta ed eseguita (l’unica mai tradotta in altra lingua).

    Giulio Ricordi ebbe il merito di continuare a credere in Puccini, commissionandogli, dopo quasi cinque anni gettati al vento, un’altra opera. I progetti considerati subito dopo l’insuccesso dell’Edgar furono Tosca, dall’omonimo nuovissimo dramma di cassetta di Victorien Sardou (1887), e Sonia, da Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij, di cui l’esimio drammaturgo Giuseppe Giacosa avrebbe dovuto fornire il libretto. Ma già nell’estate del 1889 la scelta cadde su Manon Lescaut, dal romanzo settecentesco dell’Abbé Prévost, che pure esponeva Puccini a una perigliosa concorrenza con la Manon di Jules Massenet (1884), acclamatissima nel mondo intero (in Italia sarebbe arrivata soltanto nell’autunno del 1893). Al libretto dell’opera nuova avrebbero accudito due autori che non si erano mai cimentati con il melodramma, Domenico Oliva e Marco Praga: come per il progetto dostoevskiano, al fianco del giovane di punta della sua scuderia Ricordi volle mettere partner mobilitati al di fuori della routine operistica italiana corrente, secondo una strategia che caratterizzò poi anche in futuro le scelte dei collaboratori librettistici di Puccini.

    Il lavoro a questa terza opera fu grandemente influenzato da una rinnovata e più intensa conoscenza del teatro di Wagner. Puccini, che forse aveva già visto Rienzi e Lohengrin a Milano nel 1884 e nel 1888, certamente assistette a Parsifal e ai Maestri cantori di Norimberga a Bayreuth nel 1888, insieme con Fontana. L’anno dopo tornò a Bayreuth, dove riascoltò Parsifal e forse conobbe il Tristano: in più, Ricordi l’aveva incaricato di effettuare cospicui tagli per la progettata ‘prima’ italiana dei Maestri cantori. Il lavoro alla versione italiana di quest’opera lasciò una netta impronta su Manon Lescaut: ne risultò un melodramma non soltanto migliore dei due precedenti, ma anche profondamente diverso, di fatto il primo che presenti ben riconoscibili certi tratti caratteristici del linguaggio musicale pucciniano. Eppure l’approntamento del libretto suscitò difficoltà enormi. Praga si disgustò ben presto del lavoro, seccato per le mille modifiche pretese dal musicista; Ricordi in persona mise mano alle cospicue modifiche della struttura drammatica, e con lui Ruggero Leoncavallo, l’amico di Puccini proprio allora indaffarato nella composizione della sua prima opera di successo, Pagliacci; soprattutto intervenne un autore del tutto nuovo, Luigi Illica, impegnato in parallelo nella stesura di altri libretti, ma tutto sommato anch’egli un neofita nel genere melodrammatico. Questo ginepraio di coautori comportò infine un compromesso tra tanti partner litigiosi: per decenni, i libretti a stampa e gli spartiti di Manon Lescaut pubblicati da Ricordi uscirono senza alcun nome di librettista (donde i frequenti errori di attribuzione che fino a oggi affliggono la letteratura critica e le locandine teatrali).

    Manon Lescaut fu creata al teatro Regio di Torino il 1° febbraio 1893, con buon successo di pubblico e di critica. Ma lì per lì nessun altro teatro la volle riprendere. Puccini dovette seriamente chiedersi se la carriera dell’operista facesse al caso suo, e rimise mano a partiture giovanili come la Messa e il Capriccio sinfonico per poterle riproporre in sala da concerto. Ma d’improvviso Manon Lescaut divenne un successo commerciale: nel giro di un anno l’opera fu data non soltanto nei principali teatri italiani, ma anche a Buenos Aires, Rio de Janeiro, Amburgo, Budapest e Londra, dove George Bernard Shaw, in un’ampia recensione su The World, celebrò Puccini come la più grande promessa per il futuro dell’opera italiana.

    Già nell’estate del 1891 Puccini aveva affittato un appartamento a Torre del Lago, sulle sponde del lago di Massaciuccoli, a pochi chilometri da Lucca. In questa località prese dimora stabile, e ci risiedette fino a poco prima di morire. Per la prima volta poté trascorrere gran parte del tempo accanto alla propria (sempre ancora illegale) famigliola, al riparo da rampogne morali e religiose; e grazie al successo internazionale di Manon Lescaut fu considerato un uomo importante. Il marchese Carlo Ginori, proprietario del lago e di vasti appezzamenti all’intorno, gli concesse di andarvi liberamente a caccia: era lo hobby preferito del musicista, il quale poté altresì acquistarsi la sua prima bicicletta; altre ne comprò dipoi, finché nel 1901 Puccini fu uno dei primi italiani a permettersi il lusso di un’automobile privata.

    Immediatamente dopo la ‘prima’ di Manon Lescaut Puccini e Illica si misero al lavoro sull’opera successiva, La bohème, basata sulle Scènes de la vie de bohème di Henry Murger, il feuilleton (1845-49, poi mutato in commedia nel 1849 e in romanzo nel 1851) incentrato sulla vita scapigliata, deliziosa e terribile di un gruppo di giovani artisti parigini squattrinati. Come secondo collaboratore letterario fu mobilitato da subito Giacosa: fu l’avvio del team di librettisti a cui si devono le tre opere più popolari di Puccini. Ma non mancarono le difficoltà: Leoncavallo, amico della prim’ora, dichiarò pubblicamente che stava già componendo un’opera dello stessissimo contenuto, e che Puccini gli voleva soffiare il soggetto. In effetti, sebbene la vicenda non sia mai stata chiarita fino in fondo, c’è qualche indizio che Leoncavallo sarebbe dovuto essere il librettista della Bohème di Puccini e che ne avesse già steso un brogliaccio, ma poi Puccini gli avrebbe preferito Illica e Giacosa (La bohème di Leoncavallo andò in scena alla Fenice di Venezia nel 1897).

    Lo stesso Puccini titubava. A libretto ormai ampiamente abbozzato, buttati giù i primi schizzi della musica, nell’estate del 1894 andò in Sicilia a incontrare Giovanni Verga: con il famoso letterato esaminò il progetto di un’opera tratta dalla novella La lupa. Verga era l’autore di Cavalleria rusticana, la novella su cui si basa l’omonimo atto unico di Mascagni (1890), che trionfava allora nei teatri del mondo intero. Può darsi che Puccini, sempre ancora incerto circa il proprio stile personale nonostante il successo di Manon Lescaut, accarezzasse l’idea di ricollegarsi al filone verista, allora in auge. Ma al ritorno il lavoro sulla Bohème riprese speditamente: in una lettera del 13 luglio 1894 Puccini comunicò a Ricordi di avere accantonato per il momento La lupa e di essersi messo alla composizione dell’opera programmata. Al solito però i guai con il libretto non erano finiti. Come già per Manon Lescaut (e poi per Madama Butterfly), Puccini pretese il taglio di un intero quadro già scritto (il terzo, con la scena dello sfratto e del ballo in cortile), in barba alle proteste dei due librettisti. La composizione dell’opera giunse infine in porto nel dicembre del 1895, solo sei settimane prima del varo, che ebbe luogo il 1° febbraio 1896 di nuovo a Torino sotto la bacchetta del giovane Arturo Toscanini, che da allora Puccini considerò il miglior direttore delle proprie opere, se non addirittura l’unico davvero all’altezza.

    La bohème ebbe immediato successo di pubblico, non di critica. Si manifestò qui una divaricazione che caratterizzò poi, e in una certa misura caratterizza tuttora, la fortuna di Puccini. Ancor oggi, e non è un caso, questa è l’opera più spesso rappresentata di Puccini. La partitura esibisce un’inaudita scioltezza nell’articolazione, unita a un’estrema rifinitura nei dettagli. Un tale effetto di semplicità presuppone un immane sforzo compositivo. Il che spiega l’immensa pena che Puccini si diede per ciascuna delle sue opere: la lunga ricerca di un soggetto adatto; i mesi o gli anni di lavorio sul testo verbale insieme con i librettisti; infine, nell’arco di anni, la stesura della composizione musicale, spesso destinata a subire incisive modifiche dopo la ‘prima’.

    Nel giro di un anno La bohème venne ripresa in due dozzine di teatri italiani, e l’anno dopo in quasi altrettanti teatri stranieri. A molti allestimenti assisté Puccini stesso, per assicurare un sufficiente livello all’esecuzione: non solo nei maggiori teatri del Regno, ma anche a Manchester, Berlino, Vienna e Parigi. L’esito economico fece definitivamente di Puccini un uomo ricco. Abbandonò le case in affitto e poté costruirsi una villa propria a Torre del Lago, indi un’altra villa a Chiatri, in collina, per la villeggiatura estiva. Le due costruzioni furono entrambe completate nell’anno 1900, poco dopo il varo (Roma, 14 gennaio) dell’opera seguente, Tosca, tratta dal dramma di Sardou, secondo un progetto covato da anni e poi sempre procrastinato. Anch’essa trionfò immediatamente nei massimi teatri d’Italia, d’Europa e delle due Americhe. Morto Verdi, ai primi del 1901, Puccini era ormai indiscutibilmente il compositore più acclamato d’Italia.

    Nel febbraio del 1900 Puccini avviò con una certa Corinna una travolgente relazione amorosa che, durata più di tre anni, fu avvertita, non solo in famiglia ma anche tra gli amici e i collaboratori, come una grave minaccia umana e artistica. C’è voluto più di un secolo per accertare l’identità della ragazza: al momento dell’incontro con il musicista quarantunenne la torinese Anna Maria Coriasco, sarta, figlia di un panettiere, aveva 18 anni e una fama non irreprensibile. Assillato dai parenti e dagli amici, che durante la lunga degenza seguita a un grave incidente automobilistico del febbraio 1903 lo spronavano viepiù insistentemente a legalizzare il quasi ventennale rapporto con Elvira, Puccini si risolse infine a interrompere la relazione con la giovane. Il matrimonio, reso possibile dal decesso del primo marito di Elvira nello stesso 1903, fu infine celebrato il 3 gennaio 1904. La separazione da Corinna non avvenne senza violenti scontri; furono ingaggiati degli investigatori privati, e probabilmente il musicista pagò l’amante in cambio della restituzione delle proprie lettere d’amore.

    Poco dopo, il 17 febbraio 1904, la Scala diede la nuova opera di Puccini, Madama Butterfly. Il lavoro su di essa era iniziato a metà del 1900, quando il compositore vide a Londra il dramma omonimo che David Belasco, drammaturgo statunitense in auge nei teatri di boulevard, aveva tratto da un racconto di John Luther Long. Ad affascinare Puccini non fu soltanto lo struggente dramma umano della giovane giapponese sedotta e abbandonata da un ufficiale statunitense senza scrupoli, bensì anche l’ambientazione esotica, di gran moda in quel momento in Europa. Si decise dunque presto ad affrontarne la composizione, ma ancora una volta l’elaborazione del libretto, di nuovo con Illica e Giacosa, richiese un tempo infinito. La ‘prima’ si risolse in uno dei più famigerati ‘fiaschi’ teatrali, probabilmente scatenato da una claque organizzata dal concorrente di Ricordi, Sonzogno. La sera stessa Ricordi, Puccini e i librettisti ritirarono l’opera, gli autori ci lavorarono su, e con la seconda première, poco più di tre mesi dopo a Brescia, riscossero un successo travolgente, che dura tuttora.

    Gli anni seguenti furono assorbiti in impegni di varia natura: ulteriori importanti ritocchi a Madama Butterfly, fino alla versione (provvisoriamente) definitiva del 1907; lunghi soggiorni all’estero (nel 1905 in Argentina, nel 1906 a Parigi, nel 1907 e 1910 negli Stati Uniti, nel 1908 in Egitto, e ogni anno a Londra); e la lunga ricerca di nuovi soggetti operistici, da Victor Hugo a Maksim Gor′kij, da Alphonse Daudet a Oscar Wilde, da Lev Tolstoj a Gabriele D’Annunzio. I ripetuti tentativi di collaborazione con quest’ultimo, tutti abortiti (l’ultimo nel 1912-13), confermarono la fondamentale estraneità di Puccini alle poetiche decadenti. Nell’anno dei primi allestimenti della Butterfly Puccini fece la conoscenza, a Londra, di Sybil Seligman, che divenne poi la sua amica e consigliera più fidata: figlia d’un facoltoso imprenditore ebreo, sposata con un banchiere londinese, allieva di canto di Paolo Tosti, ch’era amico di Puccini, sull’arco degli anni la Seligman suggerì al musicista vari soggetti letterari adatti al teatro d’opera, ma nessuno fu accolto. Dopo molte esitazioni nel 1907 Puccini si decise per un altro dramma di Belasco, The girl of the golden West; il libretto fu steso da una nuova accoppiata di autori, Carlo Zangarini e Guelfo Civinini. La fanciulla del West fu creata il 10 dicembre 1910 al Metropolitan di New York.

    Durante il lavoro all’opera nuova Puccini si trovò ad affrontare la più grave di tutte le sue crisi personali. Ai primi del 1909 Doria Manfredi, domestica in casa Puccini, si suicidò dopo che Elvira l’ebbe pubblicamente accusata di intrattenere una relazione con il marito. Puccini patì pesantemente per lo scandalo, nel quale peraltro non ebbe (a quanto pare) colpe dirette. Si separò dapprima dalla moglie, ma si adoperò per tutelarla dalle pesanti conseguenze penali del suo gesto: in primo grado fu infatti condannata al carcere per calunnia (e dunque indirettamente incolpata di aver provocato la morte di Doria), ma Puccini convinse i parenti della giovane a ritirare la querela, non senza corrispondere loro un ingente indennizzo. I coniugi si riconciliarono in capo a pochi mesi, senza che tuttavia il loro rapporto si ristabilisse mai più del tutto.

    Fatto sta che Puccini dovette sentirsi a modo suo giustificato nell’intrecciare, di lì a poco, una nuova liaison, con la baronessa tedesca Josephine von Stengel, di quasi trent’anni più giovane. A più riprese incontrò la donna, maritata a un ufficiale bavarese dal quale aveva avuto due figlie, a Monaco di Baviera; con lei andò in incognito ai Festspiele di Bayreuth e fece vari viaggi, clandestinamente. Nel 1913 Josephine divorziò dal marito, nell’idea, probabilmente instillatale dallo stesso Puccini, di poterlo sposare; dopo l’entrata in guerra dell’Italia (1915) si stabilì con le figlie a Lugano, per poter incontrare Puccini in territorio neutrale. I frequenti viaggi di costui in Svizzera indussero i servizi segreti militari italiani a sorvegliarlo per sospetto spionaggio; ed Elvira lo venne a sapere. Subito dopo la fine del conflitto Puccini interruppe infine, per ragioni ignote, questa che fu, salvo il matrimonio, la più lunga di tutte le sue relazioni amorose.

    In questo periodo videro la luce due nuove opere. Subito dopo la ‘prima’ della Fanciulla del West era ripresa la consueta ricerca del soggetto adatto, e alcuni progetti furono accarezzati a lungo per poi venir rifiutati. Solo ai primi del 1913 Puccini decise di comporre l’atto unico La Houppelande di Didier Gold, dato a Parigi l’anno prima. In tal modo ripescò l’intendimento, già affiorato nel 1904, di concepire una serata articolata in più atti unici. All’epoca il progetto prevedeva tre racconti di Gor′kij, ma Giulio Ricordi si era recisamente opposto. L’editore, amico paterno del musicista e suo massimo consulente artistico, era morto il 6 giugno 1912, e non sarà un caso che subito dopo Puccini abbia rispolverato la sua vecchia idea. L’incarico del libretto della nuova opera, Il tabarro, dopo altri tentativi venne affidato di nuovo a un autore alle prime armi nel genere operistico, Giuseppe Adami. Ci vollero ancora vari anni prima che si trovassero gli altri due soggetti e si completasse il cosiddetto Trittico, varato al Metropolitan il 14 dicembre 1918. I libretti di Giovacchino Forzano per Suor Angelica e Gianni Schicchi sono i soli che nella produzione di Puccini non si rifacciano a una fonte letteraria in piena regola (anche se beninteso il personaggio di Schicchi è preso dalla Divina commediaInferno XXX, 32).

    Ancor prima di ultimare il Trittico, Puccini scrisse un’altra opera, su richiesta di due editori e imprenditori teatrali viennesi, Siegmund Eibenschütz ed Emil Berté, che gli commissionarono un’operetta offrendogli un onorario cospicuo. Dopo lunghe discussioni sulla forma da dare al libretto e sulla distribuzione dei diritti, a metà del 1914 Puccini si accinse a comporre La rondine. Basato su un abbozzo di uno dei principali librettisti di Franz Lehár, Alfred Maria Willner, il libretto fu steso di nuovo da Adami, non senza rilevanti modifiche. Poiché Tito Ricordi, figlio e successore di Giulio alla testa della casa editrice, dissentiva sia dalla scelta del soggetto sia dalla spartizione dei diritti, per la prima e unica volta Puccini cedette l’opera a un editore diverso, ossia al concorrente Sonzogno. Impreviste difficoltà sorsero con la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria nel maggio del 1915: i committenti viennesi dell’opera erano ormai diventati dei nemici. Puccini e Sonzogno dovettero lungamente negoziare perché costoro acconsentissero a crearla fuori dall’Austria: la ‘prima’ ebbe infine luogo il 27 marzo 1917 a Monte Carlo, nel Principato di Monaco, ossia in uno Stato nominalmente neutrale. A onta dei primi successi, Puccini, poco soddisfatto dell’opera, la rimaneggiò ancora due volte piuttosto a fondo: l’ultima versione non fu mai pubblicata e probabilmente neppure eseguita.

    Nelle diatribe sulla posizione dell’Italia nel conflitto Puccini stava con la minoranza che propugnava la neutralità del Regno; e anche dopo l’entrata in guerra non si lasciò andare a proclami patriottici. Odiava la guerra e ne auspicava la rapida cessazione. Questo atteggiamento, che soltanto in parte derivava dal timore di non poter riscuotere i diritti internazionali dell’esecuzione delle proprie opere, gli fu rinfacciato e gli costò la perdita di parecchie simpatie non solo in Italia ma anche e soprattutto in Francia e in Inghilterra. Il musicista salutò con entusiasmo la fine del conflitto, senza con ciò nascondersi le preoccupazioni per il caos sociale, economico e politico in cui cadde il Paese. Come tanti italiani, dalla presa del potere da parte di Benito Mussolini si riprometteva, senza peraltro crederci granché, tranquillità, ordine e stabilità per la nazione. Già alla fine del 1923, un anno dopo l’avvento di Mussolini, fu in udienza dal duce: propugnò, invano, la costituzione di un teatro d’opera nazionale a Roma. Mussolini dichiarò poi che poco prima di morire Puccini si sarebbe iscritto al Partito nazionale fascista: circostanza non documentata e per la verità piuttosto improbabile. È invece vero che negli ultimi anni di vita si adoperò insistentemente, mobilitando tutte le relazioni politiche di cui poteva disporre, per ottenere il titolo di senatore: lo ebbe due mesi prima della morte.

    Dopo la guerra Puccini si decise ad abbandonare la residenza a Torre del Lago, avendone un insediamento industriale turbata la quiete campestre. Nella vicina Viareggio costruì una nuova villa in un appezzamento non lontano dal mare, comprato anni prima per costruirvi un nido d’amore segreto per Josephine von Stengel. Ci abitò dal 1922, mentre rivendette ben presto l’antica Torre della Tagliata ad Ansedonia, che aveva acquistato come luogo di riposo e di lavoro: non ne sopportò la solitudine.

    Gli ultimi anni di vita furono assorbiti dal lavoro per l’opera Turandot, tratta dal dramma di Carlo Gozzi e dalla rielaborazione che ne aveva fatto Friedrich Schiller. Il progetto, di nuovo affidato a una coppia di librettisti, Adami e Renato Simoni, fu avviato nel marzo del 1920 e non era ancora completato quando Puccini si mise in viaggio per Bruxelles, per farsi operare di un cancro alla laringe: aveva però ultimato e strumentato i primi due atti e gran parte del terzo. Del grande duetto dei due protagonisti e del finale corale rimasero abbozzi estesi sì, ma poco sviluppati. Dopo la morte, Franco Alfano fu incaricato di ricavarne una versione eseguibile, che consentisse il varo dell’opera postuma, direttore Toscanini, il 25 aprile 1926 alla Scala di Milano (non sono mancati altri tentativi di completare l’opera, tra gli altri quello di Luciano Berio, 2002).

    Morì pochi giorni dopo l’operazione, il 29 novembre 1924, nell’Institut médico-chirurgical di Bruxelles; è sepolto in una cappella interna della villa di Torre del Lago.

    Le opere di Puccini videro la luce in un’epoca di grandi rivolgimenti politici ed estetici, di cui il compositore ebbe nitida coscienza. Con tenace sforzo, sempre assillato dai dubbi, cercò una strada tutta sua che mantenesse la tradizione musicale italiana e però mettesse a frutto le risorse, rivoluzionarie, della modernità. Dopo le difficoltà degli esordi, il successo di molte sue opere fece di Puccini il compositore più popolare dei giorni suoi: circostanza, questa, che in una certa misura gli ha lungamente alienato il favore della critica musicale e della musicologia (memorabile l’attacco di Fausto Torrefranca con il libello Giacomo Puccini e l’opera internazionale, Torino 1912). Soltanto grazie alle ricerche documentarie e alle indagini critiche degli ultimi decenni è stato possibile comprendere e collocare la peculiarità della sua arte entro lo sviluppo complessivo della musica del suo tempo: oggi Puccini è unanimemente considerato il massimo compositore italiano del primo Novecento.(fonte)

    [4] Luisa Villani (1884, San Francisco – 1961, Milano) è stata una soprano lirica italiana di nascita americana. È ricordata soprattutto per aver creato il ruolo di Fiora nella prima mondiale de L’amore dei tre re di Italo Montemezzi alla Scala nel 1913.(fonte)
    Maria Santoliva-Villani nel ruolo di Tosca (fonte)
    nb. nella lettera Villani viene citata con articolo maschile “il Villani”, forse una distrazione(?).

    [5] Si riferisce alla la prima della “Tosca” a Roma diretta da Leopoldo Mugnone. Dopo alcuni contrasti e ripensamenti, nell’ottobre 1899 l’opera fu completata e il 14 gennaio 1900 venne rappresentata al Teatro Costanzi di Roma, con il soprano Hariclea Darclée nel ruolo di Tosca, il tenore Emilio De Marchi nei panni di Cavaradossi e il baritono Eugenio Giraldoni come Scarpia. All’evento erano presenti, tra gli altri, il presidente del Consiglio Luigi Pelloux e la regina Margherita di Savoia. La serata fu nervosa: a causa di alcuni spettatori ritardatari, il direttore d’orchestra Leopoldo Mugnone fu costretto a interrompere l’esecuzione e ricominciare da capo.(fonte)

    [6] Paolo Serrao – Nacque a Filadelfia, in Calabria, l’11 aprile 1830 da Bernardo e da Marianna Calabretta; il fratello maggiore Carlo fu impiegato della Prefettura di Catanzaro.

    All’età di otto anni partecipò a una beneficiata del tenore Luigi Bocchi, esibendosi a Catanzaro in un concerto per pianoforte e orchestra di Daniel Steibelt. Il successo dell’esibizione spinse il consiglio provinciale della città a chiedere al ministero degli Affari interni un posto gratuito per il bambino nel conservatorio di Napoli, ove venne ammesso nel 1839. Studiò con Francesco Lanza (pianoforte), Gennaro Parisi («partimento od armonia sonata») e Carlo Conti (contrappunto e composizione); durante il periodo di apprendistato compose soprattutto musica sacra per voci e orchestra (Florimo, 1871, p. 1031).

    Nel 1848, infervorato dagli ideali patriottici, abbandonò gli studi per arruolarsi come volontario nella guardia nazionale (quartiere Stella). Il 15 maggio partecipò ai moti di Napoli, combattendo contro i soldati borbonici sulle barricate di via Toledo insieme ai congiunti Gaspare e Mariano (entrambi poi autori di scritti di vario argomento); ricercato, visse in clandestinità per alcuni mesi. L’impegno politico è testimoniato dall’epistolario con l’amico pittore Andrea Cefaly, anch’egli patriota: nel carteggio i due ragionano sulla situazione sociale e politica di quegli anni fino all’impresa dei Mille (Frangipane, 1929). Al pittore calabrese Serrao dedicò nel 1869 la Serenata rusticana per pessalo (un contrabbasso a cui Cefaly aveva apportato delle modifiche) e pianoforte (Frangipane, 1965).

    Serrao riprese gli studi in conservatorio nel 1848 per concluderli con il massimo dei voti l’anno successivo, come attestato da una nota autografa presente nella Messa a grande orchestra, composizione spesso eseguita nelle manifestazioni del conservatorio (Florimo, 1871, p. 1031): al termine del Kyrie è notato: «Napoli 26 luglio 1849»; dopo il Gloria: «finito venti giorni prima d’uscire dal Collegio S. Pietro a Majella ove feci lunga e piacevole dimora» (Napoli, Biblioteca del conservatorio di musica S. Pietro a Majella, 19.3.18).

    Nello stesso anno Saverio Mercadante, direttore del conservatorio dal 1840, nominò Serrao ‘primo maestrino’ (titolo riservato ai migliori allievi di composizione, direzione di coro o orchestra che assistevano e supplivano i maestri), incarico che svolse fino al 1852, quando lo stesso Mercadante gli commissionò un’opera semiseria per il teatro del Fondo di Napoli, L’Impostore (Serrao, s.d., p. 1). A causa dei precedenti penali di Serrao, l’opera non fu rappresentata per divieto della polizia borbonica; stessa sorte toccò alla successiva Dionora de’ Bardi (1853). Nel 1855 compose una Sinfonia a grande orchestra in la maggiore, dalla struttura ciclica; Serrao utilizzò poi tale struttura anche nell’Omaggio a Mercadante (1871), ouverture funebre «scritta espressamente pel funerale dell’illustre maestro», che riprende la Sinfonia fantastica di Mercadante.

    Agli anni Cinquanta risalgono le prime composizioni di Serrao per pianoforte: Madrigale (Napoli 1850), Notturno-Barcarola (Napoli 1855), Première tarantelle Deuxième tarantelle (Napoli 1860). La produzione pianistica, prevalentemente di occasione, occupò tutto l’arco della vita di Serrao; al 1905 risale Nostalgia. Pensiero che scrisse per la terra di origine, la Calabria, colpita da un devastante terremoto nella notte tra il 7 e l’8 settembre. Anche le trascrizioni, parafrasi e fantasie da e su opere di altri compositori (per pianoforte, a due e quattro mani, per pianoforte e orchestra, per orchestra e per voce e orchestra) occuparono a partire dagli anni Cinquanta un posto considerevole nel percorso creativo di Serrao: la maggior parte dei circa 50 lavori che compongono il catalogo delle trascrizioni riguardano il melodramma ottocentesco (Bellini, Flotow, Donizetti, Gounod, Mercadante, Meyerbeer, Verdi, Boito, Petrella, Rossini), accanto a Thalberg, Pergolesi, Stradella e Mendelssohn.

    Il 16 luglio 1857 andò in scena al teatro del Fondo, con esito positivo di critica e pubblico, il melodramma semiserio Pergolesi (libretto di Federico Quercia), caratterizzato da brevi citazioni di musiche del maestro di Jesi, liberamente manipolate, in particolare l’aria Tre giorni son che Nina (all’epoca erroneamente attribuita a Pergolesi) e lo Stabat Mater. Nel 1858, su commissione del Comune di Ortona, compose e diresse in occasione della festa per la traslazione delle ossa di s. Tommaso Apostolo in Ortona a Mare (6 settembre) il dramma sacro Gli Ortonesi in Scio, testo di Gian Vincenzo Pellicciotti, un Tantum ergo, una Litania grande e un Vespro solenne. Francesco Paolo Tosti, allora dodicenne, vi assistette e ne lasciò poi un resoconto (Sanvitale, 1991, p. 5).

    Nel 1863 Serrao fu nominato maestro di armonia e contrappunto del conservatorio di Napoli, subentrando a Giuseppe Lillo (deceduto il 4 febbraio), che aveva supplito dal 1861. L’8 dicembre 1866 andò in scena al San Carlo La duchessa di Guisa, melodramma in 4 atti su libretto di Francesco Maria Piave, di successo, più volte replicata; l’opera presenta esempi di sapiente tecnica compositiva e affinità con l’elaborazione espressiva di Gaetano Donizetti e la scrittura orchestrale di Mercadante.

    In una Memoria scritta dopo il 1870, Serrao afferma che nel 1868 Gioachino Rossini gli avrebbe offerto la direzione del liceo musicale di Bologna, onore che «dovette rifiutare per gravi cure di famiglia e perché trovassi già professore titolare al Conservatorio di Napoli» (Serrao, s.d., p. 3; ma la notizia non è confermata da alcun documento). Nello stesso anno il Consiglio civico di Napoli gli affidò l’incarico di direttore d’orchestra del San Carlo, poi del teatro del Fondo nella stagione 1870-71. Per il San Carlo compose l’opera in 4 atti Il Figliuol prodigo (libretto di Achille De Lauzières, 23 aprile 1868), di ambientazione orientale, e, con Giuseppe Puzone, un rifacimento di Gabriella di Vergy di Gaetano Donizetti (29 novembre 1869, con il titolo Gabriella), per il quale utilizzarono parti delle versioni del 1826 e del 1838 e pezzi delle cantate Il fausto ritorno e Cristoforo Colombo.

    Nel 1869 divenne docente di contrappunto e composizione nel conservatorio di Napoli al posto del defunto Conti, vincendo il concorso bandito dal ministero della Pubblica Istruzione. In occasione dei funerali di Mercadante, morto il 17 dicembre 1870, fu eseguito il requiem per soli, coro e orchestra di Serrao, scritto «sopra composizioni dell’illustre compositore» (Napoli, Conservatorio di S. Pietro a Majella, 1.6.15), in particolar modo Le Sette ultime parole; fu poi utilizzato anche per le sue esequie.

    Nel 1871 Serrao fece parte della commissione incaricata dal ministero della Pubblica Istruzione di redigere un progetto di riforma dei conservatori; al gruppo di lavoro, coordinato da Giuseppe Verdi, parteciparono Alberto Mazzuccato, Antonio Buzzi e Luigi Ferdinando Casamorata. Nello stesso anno fu nominato coadiutore al direttore degli studi del conservatorio di Napoli (Lauro Rossi, succeduto a Mercadante) e cavaliere della Corona d’Italia, onorificenza attribuitagli con decreto regio; in occasione della visita a Napoli di Vittorio Emanuele II, l’impresario Giovanni Trisolini commissionò a Serrao la composizione di un Inno, eseguito al teatro del Fondo il 29 luglio (nel 1862 egli aveva orchestrato un altro Inno a Vittorio Emanuele, composto da Mercadante, su testo di Luigi Tarantini, per l’ingresso del re a Napoli nel novembre del 1860). Nella stagione 1872-73 Verdi gli affidò la concertazione del Don Carlos e dell’Aida nei primi allestimenti napoletani delle due opere (San Carlo, 2 dicembre 1872 e 30 marzo 1873).

    Nel 1876 compose l’Omaggio a Vincenzo Bellini per doppio coro e orchestra (testo di Enrico Golisciani). La produzione vocale profana di Serrao fu poco ampia; scrisse in prevalenza romanze (tra cui Fior di siepe, su versi di Lorenzo Stecchetti, alias Olindo Guerrini).

    Quando nel 1878 Lauro Rossi rinunciò al mandato di direttore del conservatorio di Napoli, Serrao fu nominato direttore funzionante, ruolo che mantenne, affiancato da un Consiglio di reggenza, fino al 1885; subentratogli Pietro Platania, in carica dal 1885 al 1902, continuò a insegnare composizione. In questi anni si dedicò con responsabilità e competenza alla didattica, di cui resta traccia nei testi teorici (ad esempio il trattato Teoria degli accordi; Roma, Biblioteca di archeologia e storia dell’arte, fondo VessellaMss.Vess. 298) e nei numerosi esercizi per lo studio dell’armonia e del contrappunto realizzati dagli studenti sotto la sua guida (conservati nella Biblioteca del conservatorio di S. Pietro a Majella). Alla sua scuola si formarono musicisti, poi divenuti illustri artisti e riconosciuti didatti, tra i quali Luigi Denza, Giuseppe Martucci, Leopoldo Mugnone, Florestano Rossomandi, Alessandro Vessella, Alessandro Longo, Francesco Cilea, Umberto Giordano, Alfonso Castaldi, Franco Alfano e Attilio Brugnoli.

    Morì a Napoli il 17 marzo 1907. Nel trigesimo gli fu reso omaggio in conservatorio con l’esecuzione in forma di concerto dell’ultimo atto del Figliuol prodigo, diretto da Martucci. Serrao ebbe quattro figli: Paolo, Guido (compositore e direttore d’orchestra), Isaura (soprano) e Ismaila.(fonte)

    Per approfondire la figura del Maestro Paolo Serrao:

    Il legame tra Paolo Serrao e il Conservatorio di Napoli inizia nel febbraio del 1860 e si prolunga per oltre un quarantennio. Nell’arco di questo periodo, molte sono state le funzioni svolte dal Maestro e numerosi gli incarichi assegnategli sia dal Ministero della Pubblica Istruzione sia dal Governatore del Conservatorio. Nel contempo, l’istituzione napoletana mutava nella sua organizzazione interna, seguendo i dettami dei diversi regolamenti e statuti decretati e approvati ora da Ferdinando II, ora da Umberto I. L’analisi della legislazione dell’ancora Real Collegio di Musica, unita allo studio di atti e documenti ritrovati presso l’Archivio storico del Conservatorio “S. Pietro a Majella”, hanno permesso di delineare in modo preciso e scrupoloso la carriera del Serrao all’interno dell’istituto partenopeo, indicando le esatte nomine e dettagliando tutte le mansioni e remunerazioni avute nel corso dei suoi “anni napoletani”. Da PAOLO SERRAO E IL SUO MAGISTERO AL CONSERVATORIO DI NAPOLI “SAN PIETRO A MAJELLA” di FRANCESCO CARUSO per «auditoriuM», III, 2023 (fonte)