CRITICA DI UN GENERALE DI DIVISIONE ALL’OPERATO DEL COMANDO SUPREMO PER LA
BATTAGLIA DEL 15 GIUGNO 1918
Mentre il Comando Supremo austriaco (Arz) e il Comandante del gruppo
a nord (Conrad[1]) preparavano la loro offensiva (principale a ovest del Brenta e
secondaria a est del Brenta), il nostro Comando Supremo[2] preparava anch’esso
una offensiva, di cui lo sforzo principale doveva essere compiuto precisamente
dalla 6 armata[3] contro Conrad. Tutto da parte italiana era predisposto. *
Ora si domanda come mai, essendo stato lo sforzo austriaco stroncato
sin dal primo giorno di battaglia, non si sia poi dal nostro Comando posto in
esecuzione l’attacco in largo stile già preparato. Che a nord noi avessimo trup
pe disponibili per eseguire il piano; è provato dal fatto che uno dei Corpi di
Armata della 4° Armata[4] (del Grappa comandata da Giardino[5]) mise a disposizione
del proprio Comando d’Armata le sue riserve, dichiarando di non averne più bi=
sogno. Lo stesso avvenne alla 6° Armata.
Quel giorno se il nostro Comando Supremo avesse avuto alla propria
testa un vero Capitano, si sarebbe iniziata una vasta operazione che avrebbe
gettato a terra l’Impero Autro-Ungarico. Ma per tentare cose grandi bisogna
saper giocare la propria carta buona, e il nostro Comando era irrisoluto. Non
sa l’Arte della guerra chi si lascia sfuggire le buone occasioni. Il 15 guigno
a sera il gruppo di Armate di Conrad non avrebbe certamente potuto resistere
ad una offensiva su largo stile. E’ vero che sul Piave non avevamo trionfato
come sul fronte della 6° e 4° Armata, ma appunto per questo dovevamo approfit=
tare della buona occasione che il fato ci porgeva proprio nel settore dove a=
vevamo preparato un attacco… che poi non facemmo. **
* no- c’erano stati solo studi teorici ed ambedue questi furono sospesi in maggio –
** No, assolutamente errato e malevolo
Vedasi il mio prossimo libro « L’It. ed i suoi alleati » –[6]
busta
annullo MESSINA FERROVIE
10-11
5 . XII
31-X
TUTTI GLI UFFICI
ESEGUONO IL SERVIZIO
DEI PACCHI D’URGENZA
francobollo cent 50 POSTE ITALIANE
—
annullo GENOVA CENTRO
1-2
7 . XII
31-X
Note
Una premessa sul memoriale:
Il dattiloscritto è quello fornito dal Barone Lumbroso[7] ai vari generali e riporta il contenuto della questione sollevata dal Generale Monti[8], relativa alla mancata controffensiva italiana in grande stile la sera del 15 giugno 1918 contro il gruppo Conrad.
Il Generale Mario Caracciolo ha utilizzato il foglio fornito dal Barone per annotare, sul lato destro, le sue considerazioni a riguardo.
[1] Franz Conrad von Hötzendorf. Feldmaresciallo austriaco, nato l’11 novembre 1852 a Penzing presso Vienna, morto a Mergentheim il 25 agosto 1925. Nel 1906 fu nominato capo di Stato maggiore. Tedesco di stirpe, egli era prettamente austriaco per sentimento, e considerava un furto le rivendicazioni dell’Italia nel 1859 e nel 1866; e sotto lo stesso punto di vista considerava le agitazioni interne ed esterne delle varie nazionalità della duplice monarchia. Perciò egli vide l’unico mezzo di salvezza nella guerra preventiva contro l’Italia (da lui considerata come il nemico tradizionale) e contro la Serbia, sede dell’irredentismo slavo: nel 1911 il ministro Aehrenthal, in seguito a un nuovo tentativo d’indurre alla guerra contro l’Italia impegnata a Tripoli, ottenne dall’imperatore che si ponesse fine a una politica dallo stesso ministro qualificata “di banditismo”, e il C. fu allontanato dalla carica di capo di Stato maggiore; alla quale fu però richiamato dopo la morte dell’Aehrenthal (1912).
Il C., rimase spesso un solitario, chiuso nella propria superiorità intellettuale, lontano dalla realtà: fino a vedere, ad esempio, continui disegni di aggressione da parte dell’Italia, la quale invece sino a pochi anni prima della guerra mondiale non aveva avuto, verso oriente, che timidi progetti di mobilitazione a carattere difensivo.
Allo scoppiare della guerra europea egli scrisse a Cadorna che il precedente capo di Stato maggiore, Pollio, gli aveva promesso di mandare truppe in Austria: il C. stesso nelle sue memorie, minute talvolta fino al superfluo, si guarda bene dal precisare dove il Pollio avrebbe fatto simile promessa, in realtà inesistente.
Anche in guerra il C. si tenne, per abitudine, fuori del contatto con i comandi dipendenti: il generale Krauss, capo di Stato maggiore del comando della fronte verso l’Italia, durante i 27 mesi trascorsi in tale carica non vide mai il C.: così si spiega come questi non conoscesse a sufficienza né i comandi né le truppe. Tali caratteristiche negative, e i preconcetti teorici spiegano gl’insuccessi che il C. ebbe nel campo della realtà. Fu quasi sempre in disaccordo con lo Stato maggiore germanico: tipico il dissenso col Falkenhayn nel maggio 1916, contro il parere del quale attuò l’offensiva del Trentino, con grave danno per le operazioni alla fronte russa.
Dopo la morte di Francesco Giuseppe, il nuovo imperatore volle assumere personalmente la direzione delle operazioni, ma non trovò un collaboratore gradito nel C., il quale d’altra parte aveva perduto molto del suo prestigio presso l’esercito in seguito all’insuccesso dell’offensiva del giugno 1916 contro l’Italia. L’imperatore Carlo lo mandò a comandare il gruppo di armate del Tirolo. La battaglia del Piave (v.) nel giugno del 1918, nella quale il C. sperava di attuare la sua antica concezione di scendere dagli Altipiani per prendere alle spalle il grosso dell’esercito italiano, fu un disastroso insuccesso per il maresciallo. L’imperatore lo esonerò dal comando, colmandolo tuttavia di onori. Il C. si ritrasse a vita privata e negli ultimi tempi attese a scrivere le sue memorie (Aus meiner Dienstzeit), dal 1906 fino a tutto il 1914, troncate dalla sua morte. Traspare in esse il malanimo contro l’Italia, diventato nel C. una seconda natura, ma le memorie sono un documento prezioso per la nostra storia mettendo in luce i progressi del nostro esercito negli anni precedenti la guerra.
L’odio tolse al C. la serenità necessaria per apprezzare al giusto valore gli avversari e questa fu non ultima ragione per la quale il successo raramente gli arrise. Si debbono però riconoscergli grandi doti d’intelletto, di operosità e di carattere.(fonte)
[2] Il Comando Supremo Militare Italiano era l’organo di vertice delle forze armate italiane, tra il 1915 e il 1920, durante il Regno d’Italia.
Istituito durante la prima guerra mondiale, il 24 maggio 1915, con sede operativa a Villa Volpe a Fagagna e dal mese di giugno nel Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il Comando Supremo del Regio Esercito fu sciolto il 1º gennaio 1920 e parte delle sue competenze passarono allo Stato Maggiore del Regio Esercito.
Tra il 1941 e il 1945 fu istituito il Comando Supremo italiano.
Era suddiviso in tre organi principali, l’Ufficio del Capo di stato maggiore dell’Esercito Italiano Tenente Generale Luigi Cadorna, il Riparto Operazioni e il Quartier generale, composti da un certo numero di uffici ciascuno.
L’8 novembre 1917, dopo la Battaglia di Caporetto, la sede, dopo aver ripiegato dal 27 ottobre a Palazzo Revedin di Treviso, poi a Palazzo Dolfin di Padova, poi nella villa di Bruno Brunelli Bonetti a Tramonte di Teolo è stabilita all’Hotel Trieste di Abano Terme agli ordini del Generale Armando Diaz.(fonte)
[3] Sesta Armata (Regio Esercito). Le origini della grande unità risalgono al 28 maggio 1916 quando venne costituito il Comando truppe altipiani, che venne posto alle dipendenze tattiche della 1ª Armata e immediatamente impiegato per arginare l’offensiva austriaca in Trentino, la cosiddetta Strafexpedition o Frühjahrsoffensive (“offensiva di primavera”). Fortemente voluta e pianificata dal Capo di Stato maggiore dell’Imperial regio Esercito austro-ungarico, feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, l’offensiva aveva il dichiarato intento di annientare l’Esercito Italiano scatenando una poderosa offensiva attraverso le linee della 1ª Armata, per prendere di rovescio l’intero schieramento italiano. Successivamente il Comando truppe Altipiani venne schierato tra la Val d’Astico e la Valle del Brenta.
Il 1º dicembre 1916 il Comando truppe altipiani fu trasformato nel Comando della 6ª Armata, prendendo parte, dal 10 al 29 giugno 1917, al comando del generale Ettore Mambretti alla battaglia del monte Ortigara sull’altopiano dei Sette Comuni, attaccando in forze il settore austro-ungarico difeso dall’11ª Armata del generale Viktor von Scheuchenstuel. Il 20 settembre 1917 il Comando della 6ª Armata venne trasformato nuovamente in Comando truppe altipiani, che venne definitivamente sciolto il 1º marzo 1918, e venne ricostituito nella stessa data il Comando della 6ª Armata, al comando del Tenente generale Luca Montuori, distinguendosi particolarmente durante la battaglia del Solstizio e nel mese di ottobre in quella di Vittorio Veneto.
Alla vittoria nella battaglia del Solstizio contribuì notevolmente il comando artiglieria del Maggior generale Roberto Segre, grazie alla tattica della “contropreparazione anticipata”, con cui l’artiglieria della parte in difesa non si limita ad attendere il tiro di preparazione avversario, ma lo eguaglia o lo anticipa, non limitandosi al fuoco di controbatteria ma prendendo di mira anche i luoghi di adunata delle truppe avversarie, fiaccandone così la spinta offensiva. Questa tattica permise di bloccare sul nascere l’offensiva austro-ungarica sugli Altipiani, tanto che le artiglierie di Segre poterono essere distolte dal proprio fronte per intervenire in difesa del settore occidentale del Grappa..
Tra le file della 6ª Armata vi è stato, presso l’Ufficio informazioni, dal dicembre 1916 al luglio 1917, il Capitano pilota (ex del 6º Reggimento alpini e decorato anche nella Guerra italo-turca) Armando Armani futuro Capo di stato maggiore della Regia Aeronautica.
Il 10 maggio 1917 venne costituito il Comando Aeronautica che aveva alle dipendenze il VII Gruppo, poi 7º Gruppo Autonomo Caccia Terrestre. L’8 novembre successivo venne chiuso il Comando Aeronautica ed il 17 marzo 1918 venne costituito l’Ufficio di Aeronautica con il Maggiore Ermanno Beltramo che aveva sempre alle sue dipendenze il VII Gruppo. Dal 4 ottobre 1918 la 6ª Armata ricevette alle sue dipendenze il XXIV Gruppo aereo.
Al termine del conflitto, il 1º luglio 1919 la 6ª Armata venne definitivamente sciolta.(fonte)
[4] Quarta Armata (Regio Esercito). La 4ª Armata deriva dal Comando designato d’armata di Bologna, trasformato nell’ottobre 1914 nel Comando della 4ª Armata.
All’entrata in guerra dell’Regno d’Italia, il 24 maggio 1915, la 4ª Armata, al comando del tenente generale Luigi Nava e quartier generale a Vittorio Veneto, aveva alle sue dipendenze il I Corpo d’armata del tenente generale Ottavio Ragni, il IX Corpo d’armata del generale Pietro Marini e il Comando zona Carnia del tenente generale Clemente Lequio. Capo di stato maggiore dell’armata era il maggior generale Oreste Bandini.
La grande unità schierava le proprie forze dal Passo Cereda al Monte Peralba (sorgenti del Piave) su un fronte di circa 75 km e negli intenti del generale dell’esercito Luigi Cadorna, comandante supremo del Regio Esercito, doveva passare all’offensiva generale iniziando con l’espugnazione dei forti di Sexten, Landro e Valparola, con un’azione di spiccato carattere e vigore. Il primo obbiettivo delle operazioni doveva esser quello di impadronirsi alla destra del nodo di Toblach e alla sinistra dei colli circostanti al gruppo montuoso del Sella.
La 4ª Armata non riuscì a realizzare le aspettative, e il generale Nava si segnalò come il più attendista dei comandanti d’armata italiani. Alla fine del giugno 1915 Nava chiese l’esonero del generale Pietro Marini, comandante del IX Corpo d’armata, colpevole di aver occupato imprudentemente la selletta del Sasso di Stria e Cadorna, che non condivideva la stima di cui Nava era pressoché unanimemente accreditato, accettò la richiesta, ma il 25 settembre dello stesso anno esonerò anche Nava, sostituendolo con il tenente generale Mario Nicolis di Robilant.
La motivazione ufficiale fu che: nei primi quindici giorni di operazioni non ha agito con prontezza ed energia, sfruttando la sua superiorità di forze, e ha esercitato il comando con insufficiente decisione.
La 4ª Armata prese parte alla battaglia di monte Piana, una lunga e sanguinosa serie di scontri in montagna avvenute sulla sommità del monte Piana, uno dei teatri più sanguinosi e statici di tutta la guerra, facente parte del massiccio delle Dolomiti di Sesto, dove tra il 1915 e il 1917 si consumarono alcuni dei più violenti scontri tra soldati italiani e austro-ungarici che per ben due anni lottarono sulla sommità pianeggiante di questo monte.
A seguito della disfatta di Caporetto alla 4ª Armata fu ordinato dal generale Cadorna di ritirarsi nei pressi del monte Grappa, ma Nicolis di Robilant, che forse non si era reso conto della gravità della situazione, ordinò di ripiegare con un ritardo che causò la cattura di circa 11.500 uomini, intrappolati dalle forze di Otto von Below; a questo suo grave errore comunque Nicolis di Robilant rispose poco tempo dopo vincendo la prima battaglia del Piave.
Nel febbraio del 1918 Nicolis di Robilant lasciò il comando della 4ª Armata, per passare al comando della 5ª Armata, al tenente generale in comando di armata Gaetano Giardino, che si preoccupò di incrementare le difese del massiccio del Grappa, che rappresentava l’ultimo ostacolo naturale fra il fronte e la pianura veneta e di migliorare anche le comunicazioni e, soprattutto, le condizioni di vita delle truppe che difendevano la posizione, sia in trincea sia nei periodi di riposo e inoltre, nel campo dell’impiego tattico delle truppe, si preoccupò di innovare i metodi di combattimento, introducendo nella dottrina tattica della sua armata sia i reparti d’assalto sia il tiro di contropreparazione dell’artiglieria. Tale preparazione delle truppe su istruzioni tattiche più moderne fu salutare nel corso della battaglia del solstizio, quando il fronte, dopo un iniziale sbandamento, fu ripristinato utilizzando il 9º reparto d’assalto, comandato dal maggiore Giovanni Messe e all’azione congiunta delle artiglierie della 4ª e della 6ª Armata. Nel corso della battaglia di Vittorio Veneto l’Armata del Grappa, che aveva alle sue dipendenze il IX Corpo d’armata del tenente generale Emilio De Bono, il VI Corpo d’armata del tenente generale in comando di corpo d’armata Stefano Lombardi, si batté nelle operazioni che si svolsero dal 24 al 29 ottobre 1918, perdendo 25 000 uomini.
Il 18 luglio 1919 l’Armata del Grappa venne sciolta.(fonte)
[5] Gaetano Giardino. Nacque a Montemagno (Asti) il 25 genn. 1864 da Carlo e da Olimpia Garrone.
Entrato nell’esercito appena diciassettenne, fu nominato sottotenente nell’8° bersaglieri il 4 sett. 1882 e poi promosso tenente l’11 ott. 1885. A venticinque anni, come molti degli ufficiali più intraprendenti ed economicamente meno dotati, si recò nei nuovi possedimenti d’Africa che, nel 1890, avrebbero assunto il nome di Colonia Eritrea. Vi rimase insolitamente a lungo, sino all’estate del 1894.
Colà si mise in evidenza per le sue doti organizzative e di preparazione professionale militare (nel 1893 compilò un regolamento d’istruzione tattica per le fanterie indigene). Il fatto d’armi più importante cui partecipò fu la presa di Cassala (17 luglio 1894): ne riportò una medaglia d’argento e, di fatto, la promozione a capitano (19 sett. 1894). Né la medaglia né l’esperienza sul campo accelerarono, però, più di tanto la sua carriera.
Tornato in patria, dopo qualche tempo intraprese anche gli studi presso la scuola di guerra, dove riportò buone votazioni, passando dalla fanteria al corpo di stato maggiore. Ma la carriera continuava a scorrere, per il G. come per gran parte degli ufficiali del tempo, ugualmente lenta: la promozione a maggiore arrivò il 29 sett. 1904 e quella a tenente colonnello il 1° luglio 1910. A quella data svolgeva le funzioni di capo di stato maggiore della divisione di Napoli. La sede, probabilmente, insieme con la preparazione coloniale maturata in Eritrea, contribuì però alla sua fortuna. L’anno successivo, allestendosi la spedizione in Libia che proprio da Napoli doveva salpare, il G. vi partecipò come sottocapo di stato maggiore del corpo di spedizione.
L’incarico non era di immediata visibilità, ma l’esperienza fu importante e non solo organizzativa. Il 4 genn. 1912, in un momento di stallo delle operazioni militari e in una fase di insoddisfazione da parte del presidente del Consiglio G. Giolitti e delle autorità politiche per la lentezza con cui procedevano le operazioni militari, il G. fu inviato a Roma dal comandante della spedizione, C.F. Caneva, per svolgere un’importante missione diplomatica, presentando le ragioni e le giustificazioni relative alla condotta del corpo di spedizione, e conferendo direttamente con le più alte cariche politiche. Al termine della riunione, anche se certo non solo per merito delle doti retoriche del G., un comunicato della Agenzia di stampa Stefani annunziava come, almeno per il momento, il governo fosse “pienamente d’accordo con il comandante in capo, nel quale ripone completa fiducia”.
La doppia esperienza, coloniale e di stato maggiore, aveva irrobustito il carattere militare del G. e lo aveva spinto – come non pochi ufficiali del tempo – su posizioni politiche antigiolittiane. Negli anni successivi all’impresa di Libia arrivò la promozione a colonnello (4 genn. 1914) e l’incarico a capo di stato maggiore del IV corpo d’armata. Lo scoppio della Grande Guerra e la partecipazione a essa dell’Italia, ora guidata da A. Salandra e S. Sonnino, fornirono al G., cui si era aperta la via per la nomina a generale, l’occasione di un’ascesa sino a quel momento imprevedibile: da allora egli doveva diventare una delle figure più rilevanti, se non più influenti, dell’intera gerarchia militare e giocò, in qualche occasione, un ruolo politico di primo piano a livello nazionale.
Tra il 1914 e il 1916 fu capo di stato maggiore della 2ª armata (con P.P. Frugoni), poi della 5ª, fra l’altro preparando il balzo oltre l’alto Isonzo e lo Iudrio. A riconoscimento dell’attività svolta, che incontrò il pieno favore del comandante supremo L. Cadorna – cui il G. fu da subito molto vicino -, arrivò la promozione a maggior generale (18 ag. 1915). Con quel grado, comandante della 48ª divisione, il G. si distinse nella presa di Gorizia, verso S. Marco e sul Vertoiba. Comandante del I corpo d’armata nel 1917, passò presto al XXIV.
Il 5 apr. 1917 Cadorna lo nominava tenente generale. Apprezzamenti e critiche aumentarono, nell’ambiente militare, quando, in occasione della crisi parlamentare del giugno 1917, Cadorna lo propose come sostituto del ministro della Guerra P. Morrone, dimissionario.
L’incarico ministeriale, dal 16 giugno (con la connessa nomina a senatore), aveva portato alla ribalta una figura di militare tecnico, estraneo ai giochi della politica, che a Cadorna doveva per intero la sua ascesa e che era, inoltre, intimamente convinto della bontà della tattica e della globale condotta della guerra da parte del comandante supremo. Nell’espletamento dell’incarico, a partire da quella delicata estate del 1917, il G. confermò questa immagine, cui si aggiunse qualcosa di più, a giudicare dalle vociferazioni di vaghi progetti, più che veri e propri piani, di un complotto finalizzato ad arrestare V.E. Orlando per mettere il G. a capo di un governo “militare” ispirato da Cadorna. Fatto sta che, forse non a caso, lo stesso B. Mussolini su Il Popolo d’Italia aveva esplicitamente espresso simpatia per l’operato del G. come ministro.
In questo clima politico, pochi giorni prima del fatale 24 ottobre, il G. affermò dal suo scranno ministeriale che il fronte era sicuro e che non si prevedevano attacchi nemici di rilievo forse sino alla primavera successiva. All’indomani della rotta di Caporetto il governo Boselli si dimise (il G. ricevette fra l’altro il saluto e il ringraziamento del Popolo d’Italia).
Come ebbe a dichiarare qualche mese più tardi alla commissione d’inchiesta su Caporetto, per il G. – come del resto per Cadorna -, le motivazioni dell’episodio andavano ricercate nel cedimento morale delle truppe, dovuto al disfattismo provocato dal fronte interno. A chi, come F. Martini, lo avvicinò nei mesi immediatamente successivi alla rotta il G. parve preoccupato per il “profondo disprezzo in cui il nemico che tante volte vincemmo oggi ci tiene” (4 nov. 1917) e per il fatto che all’interno dell’esercito “i sobillamenti continuano” (30 nov. 1917), e pronto a criticare, o quanto meno a lasciare criticare, il nuovo comandante supremo A. Diaz (18 genn. 1918). Tanta verbosità critica, però, non ingannava un fine conoscitore come il giornalista L. Barzini il quale, scrivendo a G. Albertini, così liquidava il G.: “mi pare debole” (12 nov. 1917).
Ma Caporetto (nella cui “preparazione” il G., in effetti, non aveva responsabilità dirette se non quelle politiche generali in quanto ministro) non lo fermò: dopo l’allontanamento di Cadorna il G. divenne vicecapo di stato maggiore (con P. Badoglio secondo vicecapo), rappresentando la continuità con il passato cadorniano (ed esiste una documentazione secondo cui il Consiglio dei ministri valutò anche l’ipotesi di sostituire Cadorna con Emanuele Filiberto di Savoia duca d’Aosta, nominando vicecapi di stato maggiore Diaz e il Giardino).
Da subito gli spazi di manovra non furono ampi per il G. che, peraltro, dovette trovarsi a disagio nel nuovo comando supremo che tanto voleva differenziarsi dal precedente, a lui così caro. Inoltre Badoglio, pur più giovane, assunse su di sé l’intero compito di riorganizzazione dell’esercito.
Avvenne, dunque, che il G., già nel febbraio 1918, fosse allontanato dal comando supremo e inviato a Parigi per sostituire Cadorna come rappresentate italiano presso il Consiglio militare interalleato: incarico formalmente di grande prestigio, ma i cui i margini d’azione erano, ancora una volta, assai ristretti (e non a caso presentò le sue dimissioni appena un paio di mesi più tardi). Al ritorno in Italia il G. assunse l’incarico militare cui doveva restare definitivamente legata la sua immagine negli anni a venire: il comando dell’armata del Grappa, con il controllo di uno dei punti più delicati dell’intero fronte italiano. La 4ª armata, a lui affidata, non solo giocò un ruolo di rilievo nel tenere la posizione strategica assegnatale, ma seppe reagire all’offensiva austriaca del 15 giugno 1918 (che in un primo momento aveva rischiato di metterla in ginocchio); quindi, consolidato il proprio morale nei mesi successivi, partecipò, pagando un alto prezzo, alla finale “battaglia” di Vittorio Veneto.
Nelle settimane immediatamente precedenti il presidente del Consiglio Orlando, nelle more frapposte da Diaz all’offensiva finale, aveva pensato di sostituire Diaz con il G.; poi, verso il 19 ottobre, aveva sollecitato direttamente quest’ultimo a non tardare a prendere l’offensiva nel suo settore, temendo che la guerra potesse concludersi senza una vittoria italiana sul campo.
Oltre alla strategia e alla tattica militari vere e proprie, il G. reinterpretò a suo modo, con una forte dose di paternalismo militaresco, il nuovo corso postcadorniano nel trattare la truppa, sviluppando una potente, spregiudicata e durevole retorica populista sui “suoi soldatini” dell’armata del Grappa: una retorica al solito assai apprezzata anche da Mussolini, che ne scriveva compiaciuto sul Popolo d’Italia già il 29 giugno 1918. Inoltre, una parte dell’opinione pubblica liberale e conservatrice guardava a lui come a uno dei migliori fra i generali italiani che avevano condotto la guerra.
Il dopoguerra consacrò definitivamente la figura del G., ormai assurto ai più alti vertici della gerarchia militare (il 21 dic. 1919 fu nominato fra i cinque generali d’esercito), componente di quell’aeropago militare che era il Consiglio d’Esercito (istituito il 25 luglio 1920), nonché comandante designato d’armata.
Tale notorietà – in fondo dovuta al comandante del Grappa e a uno dei generali di Vittorio Veneto, e comunque ribadita dal G. con i suoi frequenti, e spesso roboanti, interventi in Senato – non era sempre accompagnata per la verità da programmi chiari, carenza cui il G. sopperiva, nel clima d’incertezza del dopoguerra, con una costante intonazione autoritaria e antiprogressista, quando non proprio filofascista. Ma più ancora dell’adesione a uno schieramento politico, era la sua piena adesione alle più retrive e chiuse tradizioni militari a connotarlo. Nell’ambiente militare, però, questo era un titolo di merito tanto che, nel giugno 1921, si parlò di lui come di un possibile ispettore di fanteria (una carica tecnica inferiore solo a quelle di ministro della Guerra e di capo di stato maggiore).
Altro segno del suo prestigio e dell’importanza che gli veniva attribuita è il frequente ricorrere del nome del G. in gran parte, se non in tutte, le voci di complotto e di colpo di Stato che, fra 1919 e 1922, andarono diffondendosi in Italia. Di fatto è difficile pensare a un G. – il quale, per quanto assai critico della politica liberale era pur sempre un militare di antica tradizione – che architetta complotti in prima persona. Più probabile che egli venisse coinvolto, e fosse lusingato dal farsi coinvolgere, in progetti altrui: lo stesso Mussolini scriveva a G. D’Annunzio, il 25 sett. 1919, favoleggiando di un colpo “repubblicano” che avrebbe dovuto “dichiarare decaduta la monarchia” sostituendola con un direttorio composto dal vate, dal G., da E. Caviglia e da L. Rizzo. Più in generale, comunque, il nome del G. era un punto di riferimento per i fascisti più oltranzisti, insieme con quelli del duca d’Aosta, di Caviglia e di P. Thaon di Revel.
All’epoca della marcia su Roma il G. era comandante di armata di Firenze, nel cui territorio era compresa la capitale, ed è quindi probabile che il re lo abbia contattato (sia pur telefonicamente) per saggiare le reazioni dell’esercito. L’ascesa al governo di Mussolini gli fruttò subito un primo incarico pubblico, a riprova dei contatti precedenti: un’inchiesta sullo stato della guardia regia, che il capo del fascismo voleva abolire. Il che avvenne proprio sulla base dei risultati dell’inchiesta dal G. condotta in poche settimane. Fra tutti quelli assegnatigli dal nuovo governo il ruolo di maggior prestigio fu, comunque, quello di governatore della città di Fiume, ricoperto in un momento delicato, prima della definitiva annessione della città all’Italia (dal 17 sett. 1923 sino al maggio 1924), e che prevedeva il compito di “tutelare l’ordine pubblico” mentre si riavviavano le trattative diplomatiche con la Jugoslavia. Nel 1924 il G. fu nominato ministro di Stato.
In seguito, però, intervennero rapporti meno idilliaci: nell’autunno-inverno 1924-25, quando il governo manifestò l’intenzione di mettere in pericolo la tradizionale autonomia dell’esercito, si verificò una crisi di notevoli proporzioni nei rapporti fra fascismo e forze armate, segnatamente in seguito al tentativo di far approvare il progetto di ordinamento militare (che dal proponente ministro A. Di Giorgio prendeva nome) e il disegno istitutivo della Milizia volontaria di sicurezza nazionale (MVSN). In questa circostanza il G. assunse un ruolo di assoluto rilievo e le argomentazioni da lui svolte in Senato e nel Consiglio d’Esercito contribuirono senz’altro a far ritirare il primo progetto e a ridimensionare il secondo.
Durissimi furono i discorsi del G. contro Di Giorgio, prima in Consiglio d’Esercito (settembre-novembre 1924) poi in Senato (31 gennaio, 30 marzo e 2 apr. 1925), e contro il disegno sulla MVSN (4 dic. 1924), al punto da costringere Mussolini (discorsi del 5 e del 9 dic. 1924) a repliche dure rivolte personalmente al G.; in realtà questi, che pure così veementemente lo aveva contestato, non pare abbia mai seriamente osteggiato il governo fascista. Ritirato l’ordinamento Di Giorgio e ridimensionate le pretese sulla MVSN, gli stessi documenti parlamentari testimoniano che il G. si avvicinò a Mussolini affermando “Eccellenza, Lei ha salvato l’esercito!” (2 apr. 1925).
Da allora, a livello politico e personale, Mussolini e il regime furono prodighi di onori al G.: gli affidarono incarichi formali di prestigio (in Senato relazionò sulla legge di ordinamento militare che seppellì l’ipotesi Di Giorgio, 1° marzo 1926) e fu nominato, come Cadorna e Diaz, maresciallo d’Italia (17 giugno 1926), grado che sostituiva il precedente di generale d’esercito. Ma di fatto non fu più preso seriamente in considerazione per cariche di reale peso politico. Consapevole di aver perso un suo ruolo e di aver favorito la nascita e l’assestamento di un regime che lo metteva ora da parte pur coprendolo di allori, il G., nel 1927, si ritirò a Torino.
Nel dicembre 1929 riceveva il prestigioso collare dell’Ordine dell’Annunziata e, a parte qualche mugugno (se c’è da credere al Diario di Caviglia almeno in qualche occasione avrebbe criticato Mussolini), si adattò col tempo al ridimensionamento del suo effettivo ruolo pubblico. Peraltro, da qualche tempo la sua figura era andata appannandosi anche all’interno del mondo militare: il comandante del Grappa (al pari di molti altri suoi coetanei e colleghi) non teneva il passo con le innovazioni militari, rimanendo fermo alla difesa della dottrina militare della Grande Guerra, come sostenne anche in Rievocazioni e riflessioni di guerra (I-III, Milano-Verona 1929-30).
Su un punto, però, il G. poteva svolgere, e svolse, un ruolo che corrispondeva contemporaneamente alle sue propensioni populistico-autoritarie, al personale desiderio di autoglorificazione e alle necessità propagandistiche del regime: la creazione e il mantenimento del mito delle battaglie del Grappa (dove aveva pubblicamente espresso il desiderio di essere sepolto); quale ex comandate dell’armata del Grappa, egli svolse un ruolo decisivo anche nelle scelte relative alla costruzione del sacrario, consacrato il 22 sett. 1935 alla presenza del re, e nei periodici raduni di massa colà tenuti.
Forte del seguito ottenuto da queste operazioni, fondamentali ai fini dell’organizzazione di un consenso al fascismo quale regime uscito dalla Grande Guerra, il G. difese accanitamente, in parte fondandosi su documenti e in parte anche travalicandoli, l’operato della sua 4ª armata contro chiunque volesse ridimensionarlo o annullarlo. Peraltro, di norma, a parole il G. non affrontava mai la questione in termini di difesa personalistica ma la presentava in forma populistica, affermando di voler reagire a tutte le “affermazioni lesive dei miei soldati del Grappa”.
Il G. morì a Torino il 21 nov. 1935.(fonte)
[6] Mario Caracciolo. Nato a Napoli il 26 febbr. 1880 da Francesco, professore di storia, e da Maria Corbo, uscì sottotenente d’artiglieria dall’Accademia militare di Torino nel 1899. Superati i corsi della scuola di guerra (1904-1907), dal dicembre 1908 fu in servizio di Stato Maggiore presso il comando del IX corpo d’armata. Capitano nell’aprile 1911, con la guerra italo-turca partì il 9 ottobre per Tripoli, guadagnandosi subito una medaglia d’argento (Messri, 23 ottobre); assegnato presso il comando del corpo di spedizione alla direzione dell’Ufficio stampa e censura, rientrò in Italia nel luglio 1913 decorato anche della croce di cavaliere dell’Ordine mauriziano. Dopo aver seguito nel 1914 il corso della scuola centrale di fortezza nel febbraio 1915 era trasferito nel corpo di Stato Maggiore.
Alla dichiarazione di guerra all’Austria raggiunse il fronte presso il comando della 29a divisione; promosso maggiore nel novembre, comandò dapprima il 12º, poi (dal maggio 1916) l’85º gruppo d’artiglieria d’assedio. Tenente colonnello nel febbraio 1917, passò alla 53a divisione fanteria come capo di Stato Maggiore, e il 25 maggio, durante la decima battaglia dell’Isonzo, in un’azione sul monte Vodice restò gravemente ferito, ottenendo una seconda medaglia d’argento. Rientrò dalla convalescenza il 15 ottobre presso la direzione truppe dell’intendenza della 2a armata, che pochi giorni dopo era dissolta dalla rotta di Caporetto, sicché il 26 novembre il C. era destinato presso il comando della 5a armata neocostituita a sostituirla. In forza nel gennaio 1918 alla divisione territoriale di Roma, e promosso nell’aprile colonnello per meriti eccezionali, dal luglio di quell’anno fino al febbraio 1920 fu addetto militare presso la legazione di Atene e capo dell’Ufficio informazioni interalleato. Al rientro in Italia era nominato aiutante di campo onorario del re.
Assegnato dal maggio 1921 alla Scuola centrale d’applicazione d’artiglieria (stamperà a Roma nel 1924 Come combatte l’artiglieria), il C. fu tra i molti ufficiali che – sia per fedeltà monarchica sia per orientamento nazionalistico – non videro con avversione l’avvento al potere del fascismo, non solo perché restauratore e garante dell’ordine costituito e dell’autorità dello Stato, ma anche perché come “rivendicatore della vittoria”, assicurava il potenziamento delle forze armate. Direttore, dall’aprile 1923 al gennaio 1926, della Rivista d’artiglieria e genio, volle farne, in accordo con l’allora ministro della guerra A. Diaz e col capo di Stato Maggiore P. Badoglio, un organo di rafforzamento teorico e tecnico dell’arma e dell’esercito. E sulla rivista pubblicò, a partire dal ’22, numerosi articoli specialmente sull’impiego dell’artiglieria.
Questi articoli di scienza militare del C. si inquadrano in quel fervore di studi che, reagendo all’esperienza della recente guerra, dove il conflitto aveva avuto attuazioni sostanzialmente statiche, tendevano ad una ripresa delle concezioni dinamiche della lotta, ed esaminavano i provvedimenti che ne sarebbero conseguiti nell’impiego delle varie armi e nel funzionamento dei servizi. Frutto appunto di questo nuovo corso che dava un posto preminente alla guerra di movimento ed esaltava l’azione offensiva, furono i Criteri d’impiego della divisione di fanteria nel combattimento (ediz. 1926) e le Norme generali per l’impiego delle grandi unità e le Norme per l’impiego tattico della divisione (ediz. 1928).
Da un punto di vista però più ampio, è proprio quel fervore di studi teorici e tecnici che si venne intensificando progressivamente dal 1919, col suo carattere di discorso “per addetti” e coi suoi punti d’arrivo, ad attestare il costituirsi di una scelta politica non avversa al fascismo da parte dell’alta gerarchia militare. Con l’armistizio e la pace, infatti, il problema urgente della smobilitazione comportava non solo l’alleggerimento di tutta l’attrezzatura di guerra, ma anche l’adeguamento delle forze armate alle richieste politico-sociali ed alle esigenze economico-finanziarie del paese. Ciò finiva per implicare, però, uno scontro in merito allo scopo ultimo delle forze armate (che fino ad allora avevano mirato all’esaltazione di una potenza bellica nazionale connessa alla garanzia dell’ordine sociale costituito) e alla autonomia di direzione e di controllo (che l’alta gerarchia militare aveva goduto a svantaggio del controllo del potere politico).
Effetto dello scontro fu il susseguirsi, tra il ’19 e il ’21, di due decreti (Albricci e Bonomi) e di un progetto di legge (Gasparotto) di nuovo ordinamento dell’esercito, e dei lavori di un’apposita commissione parlamentare. La struttura invece dell’ordinamento Diaz (1923), con ulteriori ritocchi studiati dallo Stato Maggiore, sarà la base sostanziale di quel complesso di leggi (11 marzo 1926) che costituirono il cosiddetto “statuto dell’esercito”, e che riconobbero alle forze armate autonomia di direzione e conferma dei fini tradizionali.
Dopo aver comandato nel 1926 prima il 13º poi il 7º pesante campale, nel luglio 1928 il C., passato nel corpo di Stato Maggiore, fu nominato insegnante di storia e arte militare nella Scuola di guerra, incarico da cui cessò nel settembre 1931 per la sua promozione a generale di brigata.
Del C., che aveva edito a Roma nel 1925 il saggio su L’intervento della Grecia nella guerra mondiale e l’opera della diplomazia alleata, con prefazione di E. Corradini, usciva nel 1928 ancora a Roma lo studio su Bligny, Ardre, Chemin des Dames, poi nel 1929 a Milano quello su Le truppe italiane in Francia (Il 2º corpo d’armata. Le T.A.I.F.), volume ancora essenziale sulla partecipazione italiana al fronte francese. Sempre sul periodo bellico 1914-18 pubblicò, oltre a vari articoli e saggi, Sintesi polit. milit. della guerra mondiale 1914–18, Torino 1930 (2 ed., Torino 1940; tradotta in francese, spagnolo, russo e bulgaro); L’Italia e i suoi alleati nella grande guerra, Milano 1932; L’Italia nella guerra mondiale, Roma 1935 (trad. in tedesco, francese e inglese, Roma 1937).
Dopo essere stato ispettore di mobilitazione della divisione territoriale di Messina, col 1º genn. 1933 fu nominato comandante dell’artiglieria in Sicilia. Promosso generale di divisione il 30 sett. 1934 e destinato al ministero per incarichi speciali, nel dicembre prese il comando della 5a divisione fanteria “Cacciatori delle Alpi” (Perugia), poi col 1º ott. 1935 il comando della 1a divisione celere “Eugenio di Savoia” (Udine), rientrando infine a metà dicembre dell’anno 1936 al ministero con incarichi speciali.
Nell’aprile ’37 era istituito in Libia il comando supremo delle forze armate dell’Africa settentrionale, e dall’Italia venivano inviati il XX e il XXI corpo d’armata, che dovettero essere organizzati per le esigenze di guerra della zona anche attraverso l’esperienza di grandi manovre (maggio-giugno 1938). Il rafforzamento militare era però ancora in crisi di preparazione quando il C., promosso generale di corpo d’armata il 1º genn. 1938, lasciava, il 30 nov. 1939, il comando del XXI corpo, dislocato in Cirenaica, che dirigeva dall’ottobre ’37.
Negli anni ’30, durante i quali aveva iniziato l’attività di alto dirigente, il C. si trovò ad operare in un quadro militare caratterizzato dal divario tra le linee della politica estera fascista, e quelle dello sviluppo dottrinale e organizzativo dell’esercito che degli obiettivi di quella stessa politica avrebbe dovuto essere l’estremo mezzo di realizzazione. Mentre le Direttive per l’impiego delle grandi unità (ediz. 1935) fissavano il concetto della guerra di movimento, in cui e la battaglia si vince a colpi di divisione e la manovra offensiva punta sulla sorpresa, il vecchio binomio operativo artiglieria-fanteria si modificava, con le Norme per il combattimento della divisione (ediz. 1936), nel concetto che “la fanteria è lo strumento principale e decisivo della lotta” in quanto è il movimento. Si apriva il problema di ammodernare ed accrescere l’armamento, ed era ovvio il principio che “senza scorte non si fa guerra di movimento”. Intanto però proprio il tipo dinamico di guerra attuato in Etiopia metteva in crisi le dotazioni e le scorte metropolitane, rivelando l’insufficienza della produzione bellica. Ancor più contraddittoria diventava in seguito la gestione aggressiva della politica estera riguardo all’insufficienza e alla organizzatone produttiva bellica. Mentre l’ordinamento Pariani (1938) portava alla divisione binaria, di ridotta capacità difensiva ma con compiti di colonna d’urto e penetrazione (la manovra diventando compito del corpo d’armata e dell’armata), e di conseguenza l’Addestramento della fanteria (ediz. 1939), in un quadro di guerra di rapido corso, valorizzava al massimo la fanteria come binomio fuoco-movimento e come elemento decisivo della lotta, l’impiego di mezzi e di scorte richiesto dall’intervento in Spagna e dall’occupazione dell’Albania, sommandosi alla nuova e più ampia dotazione di armi e materiali necessaria proprio col nuovo ordinamento, apriva un incolmabile divario tra teoria e addestramento tattico da un lato, e concrete possibilità operative dall’altro. Al momento della dichiarazione di guerra, “delle 73 divisioni mobilitate, solo 19 risultavano effettivamente complete; 34 (comprese quelle libiche) risultavano efficienti ma incomplete, e 20 poco efficienti” (cioè: “60% del personale, 50% quadrupedi e automezzi, e deficienze varie nelle dotazioni e nelle armi”: L’esercito ital., p. 150).
Rientrato il 1º dic. 1939 per incarichi speciali al ministero, dall’11 giugno 1940 il C. fu ispettore, poi dall’ottobre ispettore, superiore dei servizi tecnici (armi e munizioni, genio, motorizzazione). Nominato nel dicembre 1940 comandante designato d’armata ed assunta la guida della 4a armata (gruppo d’armate ovest), dall’aprile 1941 all’aprile 1942 fu a disposizione del capo di Stato Maggiore dell’esercito per incarichi speciali (tra cui, dal 17 apr. al 14 ag. 1941, il comando della 5a armata sul fronte dell’Africa settentrionale). Prese poi il comando della 5a armata riorganizzata sul territorio metropolitano – nel novembre 1942 era promosso generale d’armata – che tenne fino allo sbandamento seguito all’armistizio.
Il 25 luglio 1943 le forze alle dipendenze del C. erano: il II (divisione “Ravenna”, e 215a, e 216a divisioni costiere), il XVI (divisioni “Rovigo” e “Alpi Graie”) e il XVII corpo d’armata (divisioni “Piacenza”, “Re”, “Lupi di Toscana”, 220a e 221a costier, XXXIV brigata costiera) che però dipendeva sia dall’armata per la difesa costiera, sia direttamente dallo Stato Maggiore dell’esercito per la difesa di Roma. I compiti del C. erano la difesa della Toscana e dell’alto Lazio, e la difesa della base navale della Spezia dove il XVI corpo d’armata fu concentrato al primi d’agosto in concomitanza con la preparazione della missione Castellano a Lisbona. A metà agosto il C. ricevette il preavviso segretissimo, poi la Mem. Op. 44 preparata alla fine del mese per la resistenza attiva ai Tedeschi; ma oggettive difficoltà (il controllo tedesco sulle informazioni, l’impossibilità di precoordinare manovra e resistenza tra le grandi unità, predominio di potenza dei Tedeschi, e specialmente la fuga dei capi di Stato Maggiore che causò la cessazione del centro operativo del Comando supremo, determinarono quello sfacelo dell’8 settembre cui il C. cercò di reagire con energia.
Già il 17 agosto il C. aveva impedito l’ingresso di due divisioni tedesche a La Spezia; concessa l’autorizzazione personalmente dal capo di Stato Maggiore Generale, V. Ambrosio, il 2 settembre il C., con l’appoggio del capo di Stato Maggiore dell’esercito M. Roatta da cui dipendeva, si oppose facendo schierare il XVI corpo d’armata. I Tedeschi ottennero il permesso di transito nella notte dell’8 settembre; mentre ormai la flotta aveva potuto salpare, le truppe del corpo d’armata riuscirono a resistere fino all’11 settembre. Altri reparti dell’armata, tra il 9 e l’11 settembre, resistettero a Chiusi, Abbadia San Salvatore, Piancastagnaio, Radicofani; scontri armati avvennero a Civitavecchia, Orbetello, Piombino, Marina di Massa, Viareggio. Spostatosi poi col comando da Orte a Firenze, il C. cercò di organizzare la difesa della città.
Giunto a Roma la sera del 12 settembre, il C. si mise a disposizione del maresciallo E. Caviglia e del comando della città aperta; il 24 sfuggì fortunosamente alla cattura degli ufficiali ancora presenti al ministero della Guerra. Fedele al suo giuramento al re, dopo aver tentato contatti con politici antifascisti per dirigere la resistenza civile, l’8 novembre si rifugiò nel convento di S. Sebastiano sull’Appia, rimanendo in rapporto col colonnello Montezemolo. Arrestato dalla banda di P. Koch – i giornali del 5 genn. 1944 riportarono la notizia – fu trovato in possesso del memoriale poi stampato col titolo E poi? La tragedia dell’esercito italiano (Roma 1947).
Sottoposto al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, dopo la prigionia a Roma, Firenze, Verona e Venezia, fu processato a Brescia (“processo dei generali”) e fu condannato alla fucilazione, commutata in 15 anni di carcere. Liberato il 25 apr. 1945 dall’insurrezione partigiana, il C. fu collocato nella riserva nel giugno 1945, ed in congedo assoluto nell’agosto 1947; in quello stesso anno apparve a Roma Sette carceri di un generale.
Morì a Roma il 22 dic. 1954.
Postumi uscirono Tradimento italiano o tedesco? (Roma 1956) e L’ultima vicenda della 5a armata (in Riv. stor. ital., LXIX 1195-71, pp. 542-82; LXX [1958], pp. 88-107).(fonte)
[7] Alberto Emanuele Lumbroso Nacque a Torino il 1o ott. 1872, in una famiglia israelita, unico figlio di Giacomo e di Maria Esmeralda Todros, di nazionalità francese.
Il nonno paterno, Abramo, protomedico del bey di Tunisi, aveva ottenuto nel 1866 da Vittorio Emanuele II il titolo di barone per meriti scientifici e per speciali benemerenze. Il padre del L., Giacomo, era nato a Bardo, in Tunisia, nel 1844. Ellenista e papirologo di fama internazionale, dal 1874 socio della Deutsche Akademie der Wissenschaften, influenzò fortemente l’educazione e la formazione intellettuale del Lumbroso. Trasferitosi a Roma intorno al 1877, divenne accademico dei Lincei (1878) e pubblicò la sua opera principale, L’Egitto al tempo dei Greci e dei Romani (Roma 1882), ottenendo nello stesso 1882 la cattedra di storia antica all’Università di Palermo. Con il medesimo insegnamento, nel 1884, si trasferì a Pisa, quindi, nel 1887, nuovamente a Roma dove insegnò storia moderna alla “Sapienza” (vedi le Lezioni universitarie su Cola di Rienzo, ibid. 1891). Giacomo morì a Rapallo nel 1925.
I trasferimenti del padre lasciarono notevoli tracce nella formazione del giovane L.; tra le sue prime esperienze romane si ricordano la frequentazione delle case di T. Mamiani e di Q. Sella, dove divenne amico di S. Giacomelli, nipote di questo; in Sicilia rimase affascinato da G. Pitrè e, nell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari da lui diretto, pubblicò nel 1896 il suo primo articolo.
Nel periodo pisano il L. continuò con successo gli studi e sviluppò una notevole passione per la cultura erudita, collezionando autografi, raccogliendo motti, proverbi e notizie folkloristiche, sempre in perfetta sintonia con il padre. Tornato a Roma si diplomò al liceo classico E.Q. Visconti, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e si appassionò al periodo napoleonico, laureandosi, intorno al 1894, con una tesi su Napoleone I e l’Inghilterra (poi rielaborata e pubblicata in volume: Napoleone I e l’Inghilterra. Saggio sulle origini del blocco continentale e sulle sue conseguenze economiche, Roma 1897). Gli studi napoleonici occuparono interamente il L. fra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento. La frequentazione di ambienti intellettuali ed eruditi italiani (soprattutto romani, torinesi e, più tardi, napoletani) e francesi, l’assoluta familiarità con la lingua della madre e lo sviluppo di un talento compilativo dimostrato fin dalla prima giovinezza portarono il L. alla realizzazione di un gran numero di pubblicazioni.
Tra il 1894 e il 1895 uscirono i cinque volumi del Saggio di una bibliografia ragionata per servire alla storia dell’epoca napoleonica (Modena), circa mille pagine dedicate alle lettere “da A a Bernays” (l’opera resterà incompiuta) e tra il 1895 e il 1898 le sei serie della Miscellanea napoleonica (Roma-Modena), altra cospicua opera erudita di oltre millecinquecento pagine che raccoglieva memoriali, lettere, canzoni, accadimenti notevoli e minuti forniti da studiosi europei e introdotti dal L.; nella Bibliografia dell’età del Risorgimento V.E. Giuntella li definì “saggi bibliografici che, sebbene arretrati, possono ancora essere utilmente consultati” (I, Firenze 1971, p. 405).
L’interesse per il periodo napoleonico portò il L. a Napoli, in cerca di notizie e documenti su Gioacchino Murat. Suo interlocutore privilegiato in quella città fu B. Croce: il L. frequentò la casa del filosofo negli ultimi anni del secolo e i rapporti epistolari tra i due si protrassero a lungo.
I maggiori lavori napoletani del L. furono la Correspondance de Joachim Murat, chasseur à cheval, général, maréchal d’Empire, grand-duc de Clèves et de Berg (julliet 1791 – julliet 1808 [sic]), (prefaz. di H. Houssaves, Turin 1899 e L’agonia di un Regno: Gioacchino Murat al Pizzo (1815), I, L’addio a Napoli, prefaz. di G. Mazzatinti, Roma-Bologna 1904.
Alla fine del secolo il L. fu organizzatore e presidente operativo del Comitato internazionale per il centenario della battaglia di Marengo (14 giugno 1800-1900): chiamò alla presidenza onoraria G. Larroumet, professore della Sorbona e accademico di Francia, ottenendo la partecipazione onoraria di noti intellettuali tra cui G. Carducci, B. Croce, G. Mazzatinti, C. Segre, A. Sorel, le cui lettere di adesione furono via via pubblicate nel Bulletin mensuel du Comité international; nel 1903, accompagnato da una lettera-prefazione di Larroumet, fu edito il primo tomo, poi rimasto senza seguito, dei Mélanges Marengo (s.l. [ma Frascati] né d.).
Ancora una volta il L. usa uno stile cronachistico, cerca e pubblica ogni genere di fonte, prediligendo quelle dirette. A tale scopo rintraccia figli e nipoti dei personaggi che descrive; caso emblematico quello dei “Napoleonidi”: e infatti, grazie ai suoi lavori e alle sue frequentazioni parigine, divenne “Bibliothécaire honoraire de S.A.I. le prince Napoléon” [Vittorio Napoleone]; pubblicò poi Napoleone II, studi e ricerche. Ritratti, fac-simili di autografi e vari scritti editi ed inediti sul duca di Reichstadt (Roma 1902), Bibliografia ragionata per servire alla storia di Napoleone II, re di Roma, duca di Reichstadt (ibid. 1905) e – più tardi – redasse le voci su Napoleone I e i Napoleonidi per il Grande Dizionario enciclopedico UTET (1937, VII, pp. 1100-1150). A coronamento dei suoi interessi per i Bonaparte, nel 1901 il L. fondò e diresse la Revue napoléonienne, bimestrale (ma, dal 1908, mensile) che uscì fino al 1913, coinvolgendo nell’iniziativa un gran numero di studiosi italiani e francesi.
L’interesse per la cultura d’Oltralpe lo portò a pubblicare anche lavori su Voltaire (Voltairiana inedita, Roma 1901), Stendhal (Stendhaliana: da Enrico Beyle a Gioacchino Rossini, Pinerolo 1902) e soprattutto Maupassant (Souvenirs sur Guy de Maupassant: sa dernière maladie, sa mort. Avec des lettres inédites communiquées par madame Laure de Maupassant et des notes recueillies parmi les amis et les médecins de l’écrivain, Genève-Rome 1905), scritto durante un lungo soggiorno parigino.
Nel 1898 il L. era intanto diventato consigliere della Società bibliografica italiana e probabilmente nel contesto culturale della Società conobbe Carducci, cui dedicò, postuma, una Miscellanea carducciana (con prefaz. di B. Croce, Bologna 1911), raccolta di notizie critiche, biografiche e bibliografiche sul poeta.
Nel 1897 aveva sposato Natalia Besso, dall’unione con la quale nacquero Maria Letizia (1898) e Ortensia (1901). Nel 1901 l’intera famiglia abbracciò la religione cattolica. Nel 1904 il L. donò la sua ricca biblioteca napoleonica (circa trentamila volumi e opuscoli) alla Biblioteca nazionale di Torino, da poco distrutta in un incendio. Nel 1907 assunse, con A.J. Rusconi, la direzione della Rivista di Roma e, a partire dal 1909, ne divenne direttore unico.
La direzione della Rivista rappresentò una svolta nei suoi interessi e nei suoi studi, che da internazionali ed eruditi divennero più “patriottici”, legati a eventi del Risorgimento e della storia italiana (in particolare il L. sì appassionò alla riabilitazione dell’ammiraglio C. Pellion di Persano e, oltre agli articoli apparsi nella Rivista, sull’argomento pubblicò La battaglia di Lissa nella storia e nella leggenda: la verità sulla campagna navale del 1866 desunta da nuovi documenti e testimonianze, Roma 1910, seguita da ulteriori approfondimenti, tra cui Il carteggio di un vinto, ibid. 1917). Tra coloro chiamati dal L. a collaborare alla Rivista – che dal primo momento egli volle “crispina, salandrina e antigiolittiana” e, dopo la guerra, “antibonomiana e antinittiana” (Premessa, s. 3, XXXII [1928], 1) – D. Oliva, E. Corradini, L. Ferderzoni, A. Dudan.
Dal 1909 G. D’Annunzio collaborò alla Rivista di Roma. Il contatto diretto portò in breve tempo il L., inizialmente piuttosto critico nei confronti del poeta (si veda del L. Plagi, imitazioni e traduzioni, in Id., Scaramucce e avvisaglie. Saggi storici e letterari di un bibliofilo(, Frascati 1902, pubblicazione che Croce aveva particolarmente apprezzato), a divenirne ammiratore e paladino, fino a entrare in forte polemica sia con lo stesso Croce sia con G.A. Borgese; nel 1913, nel cinquantesimo anniversario di D’Annunzio, volle dedicargli l’intero n. 6 della Rivista; nello stesso anno il L. fu attivo nel Comitato pro Dalmazia italiana e, nel 1914, diede vita a un Comitato pro Polonia del quale offrì la presidenza onoraria al poeta.
Approssimandosi la guerra, la Rivista di Roma svolse campagne in favore dell’intervento e, nel 1915, lo stesso L. partì volontario col grado di sottotenente. Promosso tenente, dal 1916 al 1918 fu addetto militare aggiunto presso l’ambasciata italiana ad Atene e, al termine del conflitto, fu insignito del cavalierato nell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro per benemerenze acquisite in guerra.
Nel 1924, ormai di fatto separato dalla moglie, il L. si trasferì a Genova dove riprese la pubblicazione della Rivista di Roma, sospesa nel biennio 1922-23, che diresse fino al 1932. A Genova ebbe due figli, Emanuele e Maria Tornaghi, nati nel 1918 e nel 1919 da Adriana Tornaghi, con la quale aveva a lungo convissuto.
Dopo la morte del padre, il L. ne pubblicò la bibliografia (in Raccolta di scritti in onore di Giacomo Lumbroso, Milano 1925); fin dal 1923 aveva collaborato con Critica fascista, e nel 1929 inviò suoi libri a B. Mussolini e chiese l’iscrizione al Partito nazionale fascista. I lavori più consistenti del L. negli anni Venti e Trenta furono dedicati principalmente alla Grande Guerra e a personaggi della casa reale.
Bibliografia ragionata della guerra delle nazioni: numeri 1-1000 (scritti anteriori al 1 marzo 1916), Roma 1920; Le origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale, dal trattato di Francoforte a quello di Versailles, I-II, Milano 1926-28; Carteggi imperiali e reali: 1870-1918. Come sovrani e uomini di Stato stranieri passarono da un sincero pacifismo al convincimento della guerra inevitabile, ibid. 1931; Cinque capi nella tormenta e dopo: Cadorna, Diaz, Emanuele Filiberto, Giardino, Thaon di Revel visti da vicino, ibid. 1932; Da Adua alla Bainsizza a Vittorio Veneto: documenti inediti, polemiche, spunti critici, Genova 1932; Fame usurpate: il dramma del comando unico interalleato, Milano 1934.
Fra gli ultimi volumi pubblicati dal L. si ricordano ancora: Carlo Alberto re di Sardegna. Memorie inedite del 1848, con uno studio sulla campagna del 1848 e con un’appendice di documenti inediti o sconosciuti tradotti sugli autografi francesi del re da Carlo Promis (s.l. 1935) nonché, per i “Quaderni di cultura sabauda”, I duchi di Genova dal 1822 ad oggi (Ferdinando, Tommaso, Ferdinando-Umberto), ed Elena di Montenegro regina d’Italia (entrambi Firenze 1934).
Grazie al suo prestigio personale e all’adesione al cattolicesimo risalente al 1901, i Lumbroso furono discriminati dall’applicazione delle leggi razziali del 1938, ma il L. non pubblicò più. Il L. morì a Santa Margherita Ligure l’8 maggio 1942.(fonte)
[8] Edoardo Monti (Como, 19 luglio 1876 – 27 ottobre 1958) è stato un generale italiano.
Sottotenente di artiglieria nel 1896, frequentò la scuola di guerra e passò nel corpo di Stato Maggiore. Partecipò alla guerra libica del 1911-12 ed a tutta la guerra contro l’Austria, divenendo colonnello nel 1917. Fu successivamente Capo di Stato Maggiore del settore di Tarvisio e della divisione di Gorizia (1921), Comandante del 15º Reggimento artiglieria da campagna (1923) e poi (1926) Capo di Stato Maggiore di Corpo d’Armata di Bari. Generale di brigata nel 1928, fu ispettore di mobilitazione della divisione di Gorizia e nel 1929 passò al comando del corpo di Stato Maggiore. Con il grado di Generale di divisione comandò la 14ª Divisione fanteria “Isonzo” a Gorizia negli anni 1931-34. Trasferito a Cagliari assunse il comando del Corpo d’Armata della Sardegna con il grado di Generale di Corpo d’Armata e lo resse dal 1935 al 1936. In Bologna nel 1937 assunse il comando di quel Corpo d’Armata fino al 17 luglio 1939. Nominato designato d’Armata si trasferì a Como, sua città natale; in Milano assunse il Comando dell’Armata “S”, unità puramente cartacea, incaricata di studiare la difesa del confine settentrionale dal Monte Dolent al Cadore.
L’11 novembre 1939 trasmise allo Stato Maggiore del Regio Esercito una “Memoria operativa nell’ipotesi di violazione della neutralità svizzera da parte della Francia”. Il 15 dicembre 1939 ricevette direttamente da Mussolini l’incarico di sovrintendente alla fortificazione del “Vallo Alpino del Littorio” alla frontiera germanica; all’interno dell’Armata “S” l’ufficio preposto prese il nome di “Comando Presidio Monti”. Nel settembre 1940 il Comando venne sciolto e Monti continuò, sotto forma di consulenza, la sua collaborazione ai nuovi uffici preposti alla costruzione del “Vallo” fino al 19 luglio 1942, quando venne collocato nella riserva. Il 10 settembre del 1942 venne ricevuto a Palazzo Venezia da Mussolini il quale volle complimentarsi con lui, in modo particolare, per la condotta durante l’incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica. Terminato l’importante incarico fu Presidente della Casa militare per i veterani in Turate (CO) fino alla morte. Poco dopo la fine della guerra fece parte di un giurì per indagare sulla responsabilità in ordine alla mancata difesa della piazza di Roma durante i tragici giorni susseguenti l’8 settembre 1943.
Ruolo nella realizzazione del Vallo Alpino. Prima dell’importante incarico di sovrintendente alla costruzione del Vallo Littorio alla frontiera germanica assegnatogli da Mussolini, di cui si è riferito nella biografia, il generale Monti aveva firmato in qualità di Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito la Circolare 300, emessa il 21 gennaio 1932, con cui approvava le aggiunte e varianti alla Circolare 200 ed alla Circolare 800 compilate dall’Ispettorato dell’Arma del Genio.(fonte)