Vista la domanda del Signor
Gerlon Giuseppe
Visti i documenti ad essa uniti;
Dichiara che nulla osta a che il
Signor Gerlon Giuseppe
possa portare la medaglia di rame
avente da una parte il Leone alato di
S. Marco col motto = Indipendenza
Italiana = e dall’altra una croce
raggiante ed il motto = Vessillo di
Vittoria, 1848 = che, a segno di
onore, fu decretata ne 1848 per
quelli che presero parte ai gloriosi
fatti di Venezia.[1]
Dato a Perugia 27 luglio 1861.
L’Intendente Generale
Gualteiro[2]
timbro R. INTE.DENZA GENERALE DELL’UMBRIA PERUGIA
Note
[1] La Repubblica di San Marco fu uno Stato costituito a Venezia il 22 marzo del 1848, durante la prima guerra di indipendenza italiana, a seguito dell’insurrezione della città avvenuta il 17 marzo dello stesso anno, contro il governo austriaco. Ideatore della rivolta e figura chiave della Repubblica fu l’avvocato veneziano Daniele Manin. L’episodio è uno dei più significativi nel contesto dei moti insurrezionali del 1848 che coinvolsero numerose città italiane ed europee. Sopravvisse fino al 22 agosto 1849 quando, dopo una strenua resistenza, la città tornò sotto il dominio asburgico.(fonte)
[2] Filippo Antonio Gualteiro. Secondogenito di cinque figli, nacque il 6 ag. 1819 a Orvieto, nella settecentesca villa di famiglia, dal marchese Ludovico e da Maria Guerrieri Gonzaga. Orfano a cinque anni della madre – discendente come il padre da una famiglia che aveva dato alcuni ecclesiastici di rango alla Chiesa -, fu affidato per i primi studi a un gesuita; e gesuiti furono anche i docenti del collegio dei nobili che a Roma provvidero a formarlo, non solo sul piano culturale, dal 1831 al 1839: fu in quest’anno, infatti, che la morte del fratello primogenito, Raffaele, sopraggiunta dopo la scomparsa precoce degli altri tre, indusse probabilmente il padre ad accantonare eventuali progetti di un suo avvio al sacerdozio e a inviarlo a Milano presso i parenti materni. Quando nel 1841 il G. fece ritorno a Orvieto recò con sé la moglie Angiola de Cardenas, una nobildonna originaria di Valenza, nell’Alessandrino, appartenente a famiglia di spicco, che aveva sposato il 25 agosto di quello stesso anno e che gli avrebbe dato cinque figli.
La vocazione per gli studi storici, già palesata dal G. negli anni romani, ebbe modo di esplicarsi con l’incarico di archivista segreto del Comune di Orvieto cui egli fu chiamato il 18 sett. 1843: risalgono a questo periodo le ricerche e il reperimento della documentazione utilizzata per alcune pubblicazioni di notevole impegno, quali la Corrispondenza segreta di Gian Matteo Giberto datario di Clemente VII col cardinale Agostino Trivulzio dell’anno MDXXVII, e la Cronaca inedita [di Francesco Montemarte] degli avvenimenti d’Orvieto e d’altre parti d’Italia dall’anno 1333 all’anno 1400 corredata di note storiche e d’inediti documenti: il fatto che entrambi i lavori vedessero la luce a Torino, il primo nel 1845 e il secondo nel 1846, dimostra come gli interessi del G. si fossero in parte diretti, anche a causa dei suoi legami familiari, verso l’ambiente subalpino, dove era entrato in relazione con personaggi come G. Manno e C. Balbo.
La coeva elezione di Pio IX e l’illusorio riformismo che caratterizzò l’inizio del suo pontificato diedero modo al G., già lettore del Primato morale e civile degli Italiani di V. Gioberti, di spostare molta della propria attenzione sulla politica. Lo scultore G. Dupré che lo conobbe in quel torno di tempo lo avrebbe ricordato come “uomo e gentiluomo istruito, amante dell’arte, entusiasta del bello, facile scrittore di parte moderata, non unitario allora, ma sposato anima e corpo alle teorie del Gioberti” (Pensieri sull’arte e ricordi autobiografici, Firenze 1915, p. 268); e certo il problema che aveva davanti in quel momento era come creare senza ricorrere alle sette le opportunità per gli Stati italiani di affrancarsi anche economicamente dalla dominazione straniera: d’onde i suoi interventi a sostegno delle concessioni papali (Relazione delle feste popolari per l’amnistia celebrate in Orvieto nei giorni 27 e 28 sett. 1846, Orvieto 1846; Discorso letto dal cap. F.A. Gualterio nel banchetto da lui offerto alla Civica orvietana nella sua villa del Corgnolo il giorno 28 ott. 1847, ibid. 1847; Discorso sulla strada ferrata Pio-Cassia, Roma 1847), la collaborazione con alcuni giornali romani (La Bilancia, Il Fanfulla, La Pallade) e la partecipazione in prima persona agli eventi del 1848 come intendente generale del corpo dei regolari pontifici inviati a combattere in Veneto sotto la guida del gen. Giovanni Durando. L’esito infelice della spedizione, malissimo assistita da Roma sul piano logistico e afflitta da incertezze di comando, ebbe per il G., che a Vicenza aveva preso parte alla difesa e meritato una medaglia al valore, uno strascico spiacevole per i rilievi di carattere amministrativo mossi al suo operato. Il G. replicò con un opuscolo di Schiarimenti sull’intendenza delle legioni civiche e de’ volontarii (Roma 1848).
Alla crisi aperta dalla fuga di Pio IX a Gaeta il G., oggetto il 6 genn. 1849 a Orvieto di minacce molto pesanti per essersi detto contrario allo svolgimento delle elezioni per la Costituente romana, reagì rifugiandosi con la famiglia prima a Valenza e poi in Toscana. Ben lungi dal demotivarlo, il tracollo del Piemonte di Carlo Alberto, subito accompagnato dalla scelta di restare nell’alveo costituzionale compiuta dal suo successore, gli presentò una prospettiva che la definitiva caduta delle speranze affidate dal Gioberti al Papato rendeva anche più chiara. Con le Riflessioni sul 23 marzo 1849 in Italia, stampate in un foglio volante diffuso clandestinamente in Toscana, il G. abbozzò a caldo un’interpretazione del recente passato che vedeva il Regno sardo porsi come unica forza su cui puntare nel futuro: lo stesso stato d’animo, approfondito da un lungo lavoro di studi e ricerche, gli dettò i 4 volumi – due di testo e due di documenti, questi ultimi fornitigli per il Piemonte dall’ex ministro E. Pes di Villamarina e per lo Stato pontificio da M. Minghetti e da D. Pantaleoni – de Gli ultimi rivolgimenti italiani. Memorie storiche con documenti inediti (Firenze 1850-51), che lo avrebbero imposto, insieme con L.C. Farini, come il più intelligente interprete di parte moderata della storia italiana recente.
Opera storica ben informata ma contemporaneamente anche manifesto politico (W. Maturi l’ha inserita nella cosiddetta storiografia di tendenza), Gli ultimi rivolgimenti avevano la loro dichiarazione programmatica nella dedica a “Carlo Alberto il magnanimo”, l’importanza del quale era sottolineata dallo stesso svolgimento cronologico della narrazione che, pur con innumerevoli digressioni negli anni e secoli precedenti, metteva a fuoco essenzialmente il periodo 1821-47. Obiettivo di fondo dell’indagine del G. sui “fatti che hanno preceduto la rivoluzione ultima” e sulle “cause che agitavano dentro la penisola” – c0sì il G. stesso nell’Avvertimento di apertura – era quello di trasferire sul Piemonte sabaudo, una volta tramontato il giobertismo, il ruolo di protagonista e realizzatore dell’indipendenza nazionale che il Primato aveva assegnato al papa. In tal senso l’esaltazione di Carlo Alberto, oltre che a riconoscere i grandi meriti personali del defunto sovrano attribuendogli per tutta la durata del regno una volontà di indipendenza che andava ben al di là della realtà (come gli avrebbe rimproverato il Gioberti), doveva servire a convogliare sulla dinastia sabauda le aspettative della maggioranza dell’opinione pubblica sgombrando il campo dalle altre opzioni rivelatesi alla prova dei fatti o dannose o contrarie. Per il G., dunque, era importante occupare l’ampio spazio esistente tra i due estremi – agguerriti ma numericamente e socialmente poco significativi – costituiti dai reazionari e dai rivoluzionari, questi considerati più pericolosi di quelli per gli inevitabili riflessi che una loro vittoria avrebbe avuto sul terreno sociale: un’ipotesi, la sua, che non era pura enunciazione ma racchiudeva in sé il battagliero proposito di “predisporre l’opinione in favore delle nostre idee, menando colpi a destra e sinistra con eguale giustizia distributiva” (Minghetti, III, p. 325).
Proponendosi come una chiamata a raccolta degli esponenti del liberalismo temperato, cui non a caso si indicava come precedente al quale riannodarsi il Settecento riformatore bruscamente interrotto dagli avvenimenti francesi, Gli ultimi rivolgimenti raccolsero il plauso degli ambienti moderati (G.P. Vieusseux li definì “libro importantissimo, benché disordinato e francesemente scritto”), mentre furono condannati come opera di mera propaganda dai democratici: in particolare un rilievo critico di G. Montanelli segnalava nel tentativo di “separare i liberali in due categorie – l’una dei reprobi, l’altra degli eletti” (C. Rotondi, Lettere inedite di Giuseppe Montanelli, in Rassegna storica toscana, VIII [1962], p. 72), un modo di procedere che il G. praticherà anche da prefetto.
Sull’onda della notorietà guadagnata con la sua fatica di storico il G. estese le proprie relazioni all’ambiente fiorentino nel mentre manteneva in vita quelle con Torino, meta frequente dei suoi viaggi, favoriti peraltro dal passaporto piemontese che proprio Carlo Alberto gli aveva a suo tempo concesso. Da Sant’Egidio di Cortona, dove nel 1854 aveva acquistato una villa in cui si era stabilito con la famiglia, teneva sempre d’0cchio il vicino territorio pontificio con la speranza che qualcosa cambiasse a Roma e che tra una Chiesa alleggerita della casta sacerdotale e un Piemonte liberale ma non laicista si attuasse la svolta di conciliazione auspicata.
Come suddito uscito volontariamente dal proprio paese, libero di farvi ritorno e però coinvolto in un giro sempre più vasto di contatti con gli oppositori del Papato temporale, il G. si venne allora a trovare in una situazione alquanto paradossale: essere cioè nemico dichiarato della cospirazione settaria e al tempo stesso lavorare clandestinamente per sottrarre il Papato alla sfera d’influenza dell’Austria. Per di più, da quando a Torino C. Benso di Cavour era andato al potere costruendosi una maggioranza comprendente la Sinistra subalpina, il G., da tempo legato a M. d’Azeglio che della manovra cavouriana era stato la vittima, aveva concepito un autentico odio per U. Rattazzi e per la sua strategia di buon vicinato con un’area del dissenso che il G. sospettava estesa fino ai mazziniani.
Dal suo scomodo isolamento (almeno rispetto alla politica piemontese) lo liberò proprio il Cavour, quando individuò in lui un elemento di raccordo con l’Umbria, un personaggio che aveva dimostrato di saper ragionare anche in termini di sviluppo economico e che oltretutto era bene al corrente di ciò che avveniva a Roma. In vista del congresso di Parigi al G. arrivò dunque la richiesta di preparare un memorandum informativo sulle condizioni dello Stato pontificio. Recatosi a Roma con il suo passaporto piemontese, il G. incontrò molte difficoltà nel lavoro di raccolta di dati e fu solo grazie alla protezione della legazione sarda che poté evitare il provvedimento d’espulsione preso a suo carico dalla polizia.
A fine febbraio 1856 il documento era pronto: vi era illustrata la china lungo la quale, a partire dal congresso di Vienna e passando per le convulsioni del 1848-49, gli abitanti dello Stato pontificio avevano visto precipitare le proprie condizioni materiali e morali a causa del dominio assoluto della casta sacerdotale; vi era anche segnalato nella conclusione il pericolo che il protrarsi di una simile condizione di arretratezza e di dipendenza dalla tutela straniera, incoraggiando la diffusione delle idee rivoluzionarie, avrebbe rappresentato per tutti. Malgrado l’accorato appello finale, e sebbene il G. stesso si preoccupasse di fare arrivare copia del testo a Londra e a Parigi, “la sua eco fu scarsissima e […] lo stesso Cavour se ne servì solo in minima parte al tavolo del congresso” (Bartoccini, p. 22). Il vero risultato all’attivo del G. fu dunque l’avvio della collaborazione col Cavour, rafforzata nel corso di alcuni colloqui dell’inizio del 1859 e sancita dalla pubblicazione di un opuscolo, Gli interventi dell’Austria nello Stato romano. Lettera del marchese F.A. Gualterio al conte Camillo Benso di Cavour (Firenze 1859).
Delegato a seguire da vicino l’Umbria, allo scoppio della guerra del 1859 il G. fu nominato intendente generale della divisione di volontari comandata da L. Mezzacapo e destinata a operare nell’Italia centrale in vista di possibili sviluppi insurrezionali: i quali ci furono e riguardarono anche Perugia, ribellatasi il 14 giugno e sottoposta il 20 alla sanguinosa controffensiva delle truppe pontificie. Parte della responsabilità di un mancato intervento a difesa degli insorti finì per ricadere sul G. che poche settimane dopo, con l’avvento di Rattazzi alla presidenza del Consiglio, preferì uscire temporaneamente di scena. All’inizio del 1860 il ritorno al potere del Cavour gli fornì l’occasione per mettersi di nuovo in luce sia a livello locale, organizzando nel marzo a Cortona il plebiscito per l’annessione, sia sul piano nazionale, ottenendo la cittadinanza sarda e venendo di lì a poco eletto alla Camera per la VII legislatura nel collegio di Cortona. Ancora pochi mesi e, liberata l’Umbria nel settembre, carico di fresca gloria per essere riuscito ad annettere al nuovo Regno anche Orvieto, avendo la meglio su chi ne sosteneva l’appartenenza al Patrimonio di S. Pietro, fu nominato commissario regio per le province di Perugia e Orvieto e, il 17 dic. 1860, intendente generale dell’Umbria.
Ebbe così inizio, con l’esordio nella carriera amministrativa, una nuova fase nella vita del G. (scarso significato ebbe, per lui che non era un buon oratore e che poté recarsi alla Camera di rado, l’attività di deputato e, dal 20 genn. 1861, di senatore). A parte quella di Perugia, nei sette anni vissuti da prefetto il G. toccò altre tre importanti sedi: Genova, dall’11 genn. 1863, Palermo, dal 26 marzo 1865, e Napoli, dal 9 apr. 1866 al 28 luglio 1867. Non furono esperienze felici, soprattutto per le città che gli furono affidate: sia da Perugia sia da Napoli andò via per un’esplicita volontà di non servire il governo quando al potere subentrava Rattazzi; la sua partenza da Perugia, nel marzo del 1862, fu salutata con gioia dagli oltre quattrocento cittadini firmatari di una lettera in cui lo si criticava per avere troppo spesso dimenticato “di essere il rappresentante di un Governo Costituzionale” (Aquarone, p. 164). Sotto accusa erano i suoi metodi, che la certezza di essere investito di una specie di missione per la difesa della monarchia rendeva arbitrari e polizieschi e poco o punto rispettosi della legalità statutaria.
Lo storico E. Ragionieri ha visto nel G. il classico prefetto di provenienza politica, un funzionario che non è un semplice esecutore di ordini ma che col ministro discute dandogli spesso consigli e suggerimenti, ovvero che interviene sulle situazioni locali per orientare il risultato delle elezioni e per condizionare la composizione delle rappresentanze municipali e provinciali. Forte di un senso assai alto della sua funzione e di un indubbio acume poliziesco, il G. fece tutto ciò e anche molto di più. In linea generale si può dire che la sua azione si ispirasse a due principî, uno metodologico – in un paese esposto al rischio cronico dell’eversione conviene colpire subito e non quando è troppo tardi -, l’altro politico, frutto di un’analisi della situazione nazionale che lo portava a vedere nella mancata soluzione della questione romana un fattore permanente di destabilizzazione (di qui il suo accordo con i capi di governo più aperti a una prospettiva di conciliazione, come Minghetti e B. Ricasoli).
Corollario di questo secondo principio era la necessità di contrastare con qualunque mezzo la Sinistra rivoluzionaria e gli agganci che a suo dire essa manteneva con la Sinistra costituzionale: il G. lo applicò con lo scrupolo e la durezza tipica di chi è convinto di leggere la realtà più lucidamente di chiunque altro; fu così che in tutte e tre le province da lui amministrate, credendo e facendo credere che fosse in atto una collusione tra forze neoborboniche e forze rivoluzionarie con il supporto della criminalità comune (suo, secondo alcuni, il primo uso del termine “mafia” in una relazione del 1865), egli non lesinò gli arresti, i sequestri di giornali, le retate con impiego massiccio di polizia ed esercito, gli agguati di ogni tipo, al punto che alla commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti di Palermo del 1866 un generale dichiarò che, al momento di andarsene, il G. aveva lasciato “dietro a sé poco buona impressione, avendo disgustato molti pe’ troppi sospetti che aveva” (I moti di Palermo…, p. 373). Non era stata molto diversa la sua condotta a Genova, dove il G. aveva riempito di spie, delatori e provocatori la democrazia cittadina e arruolato un buon numero di confidenti nella speranza di provocare in tal modo insanabili spaccature nella Sinistra, convinto che solo così se ne potessero sventare i complotti; e analogo fu il comportamento che tenne a Napoli, dove, nella lotta senza quartiere contro mazziniani e garibaldini, e poi nello scioglimento arbitrario del Consiglio provinciale retto dalla Sinistra, si evidenziò anche di più la sua strategia dai contenuti fortemente repressivi, volta a impedire all’opposizione ogni attività pubblica per costringerla all’illegalità e coronata dalla decisione di richiamare in città l’arcivescovo S. Riario Sforza, per portare l’elettorato sia legittimista sia cattolico a far convergere i propri voti sui candidati governativi. Sicché è stato detto a ragione che “la politica di Gualterio contribuì in modo decisivo ad aumentare il discredito dei moderati a Napoli” (Capone, p. 227), e il primo a rendersene conto fu il Ricasoli dopo l’esito disastroso delle elezioni politiche della primavera del 1867. Come lui, già altri esponenti della Destra, pur coprendo il più delle volte gli infortuni del G. (come quello occorsogli nel 1863 a Genova, quando aveva provocato un serio incidente diplomatico con Parigi facendo arrestare su una nave francese appena arrivata C. La Gala e altri quattro accusati di brigantaggio), avevano deprecato in passato un sistema che in nessun modo si sarebbe potuto qualificare come liberale, tanto meno da parte dei democratici perseguitati dal G., che infatti a più riprese gli diedero del “pazzo furioso” in un senso che non era solo metaforico.
Quella che non gli venne mai meno fu la fiducia di Vittorio Emanuele II cui va probabilmente attribuita la decisione di L.F. Menabrea di affidare al G., all’atto della costituzione del suo primo gabinetto (27 ott. 1867), il ministero dell’Interno. In tale nuova veste fece appena in tempo a liquidare parte del personale prefettizio rattazziano e a sciogliere il Consiglio comunale di Napoli che già, a dicembre, al termine di un acceso dibattito parlamentare sulla crisi di Mentana, nel corso del quale ricevette critiche non solo dalla Sinistra (Carlo Alfieri di Sostegno lo disse autore di “un sistema di inquisizione, di repressione universale”), dovette rinunziare all’incarico. È stato ipotizzato che a evitargli di comparire davanti al Senato convocato in Alta Corte di giustizia, facendo cadere il ricorso presentato contro di lui da G. Nicotera, intervenisse allora il re, nominandolo, due settimane dopo le dimissioni, ministro della Real Casa (19 genn. 1868). Non cessarono per questo gli attacchi della Sinistra in Parlamento, ma a costringerlo meno di due anni dopo alle dimissioni (12 dic. 1869) fu G. Lanza, che fece della rimozione del G. la conditio sine qua non per l’accettazione dell’incarico di formare il nuovo governo. Venendo da un uomo di destra, la presa di posizione del Lanza – accompagnata dai gesti di disistima di colleghi come C. Cadorna ed E. Visconti Venosta – dovette sembrare l’atto umiliante con cui il partito moderato si sbarazzava di un personaggio ormai considerato inutile, né a compensare tale trattamento poteva bastare la riconoscenza di Vittorio Emanuele II, che già aveva elargito al G. alcune onorificenze (tra l’altro cavaliere di gran croce dell’Ordine della Corona d’Italia) e che dopo le dimissioni gli mantenne un sostanzioso stipendio, quasi a volerlo gratificare degli ultimi servigi che aveva reso alla monarchia con la parte avuta come ministro della Real Casa nella conclusione del matrimonio tra Umberto e Margherita di Savoia e nella designazione di un Savoia al trono di Spagna.
Secondo le fonti coeve le amarezze subite provocarono nel G. la perdita della ragione: egli fu costretto dal 1869 al 1872 al ricovero in una casa di cura in provincia di Pistoia e solo grazie a qualche raro intervallo di lucidità poté di tanto in tanto ricomparire in Senato. Recentemente qualche studioso di storia locale ha cercato con argomentazioni arzigogolate di mettere in dubbio la storia della pazzia del G., sostenendo, senza però portare alcuna prova a favore di una simile ipotesi, che la sua fosse in realtà una malattia polmonare. Il già citato Dupré dice che gli fu fatale “una paralisi al cervello” (p. 268).
Il G. morì a Roma il 10 febbr. 1874. (fonte)