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Plinio Nomellini. 1905

    Plinio Nomellini, 1905

    Torre del Lago (Lucca)
    29. XII – 05

    Illmo Signore
     In Riscontro alla sua
    cortese ultima mi
    piace dichiararle che
    il mio quadro
    “Ninfa rossa”[1] può
    segnarsi nel catalogo
    per ₤. 1300 e rilanciarsi
    per ₤. 1000.
    Con massima
    stima mi abbia
    devot. Suo

    Plinio Nomelllini[2]


    Note

    [1] La lettera, datata 29 dicembre 1905, sembra riferirsi alla I Esposizione Associata degli Artisti Italiani, tenutasi a Firenze tra il 1905 e il 1906. Plinio Nomellini vi prese parte subito dopo la IV Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia, conclusasi il 31 ottobre dello stesso anno. In quell’occasione, partecipò alla decorazione della sala toscana, realizzando una sovrapporta, ed espose ben otto dipinti, tra cui La Ninfa Rossa.

    La ninfa rossa, Plinio Nomellini. 1904

    Plinio Nomellini, La ninfa rossa, 1904 ca., olio su tela, 101,5 x 84 cm., firmato in basso a destra, collezione privata, Livorno. 

    Esposizioni

    IV Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia, Venezia 1905. 
    I Esposizione Associata Artisti Italiani, Firenze 1905-1906.
    LXXVII Esposizione Internazionale di Belle Arti, Società Amatori e Cultori, Roma 1907. 
    LXVIII Esposizione Società Promotrice di Belle Arti, Torino 1909. 
    P.N. La Versilia, Palazzo Mediceo, Seravezza 1989. 
    L’eredità di Fattori e Puccini: il Gruppo Labronico tra le due guerre, Museo Civico G. Fattori, Livorno 2011. 
    Dipingere l’incantesimo. Pittori nelle terre di Lucchesia di inizio ‘900, Fondazione Banca del Monte di Lucca, Lucca 2016.

    Bibliografia

    VI Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia, catalogo, Venezia 1905, sala XXVIII, n. 31. 
    I Esposizione Associazione Artisti Italiani, catalogo, Firenze 1905, n. 151. 
    LXXVII Esposizione Internazionale di Belle Arti, catalogo, Roma 1907, n. 118. 
    LXVIII Esposizione Società Promotrice di Belle Arti, catalogo, Torino 1909, n. 131. 
    C. Venturi, P.N., in “Il Telegrafo”, Livorno, 29 giugno 1925. 
    C. Venturi, P.N., in “Liburni Civitas”, n.1, Livorno 1931, p.13. 
    F. Agnello, P.N., pittore e poeta, in “L’ora”, 29-30 dicembre 1932. 
    G. Bruno, E.B. Nomellini, C. Paolicchi, U. Sereni, P.N. La Versilia, catalogo, Electa Edizioni, Milano 1989, tav. 5, p. 51, scheda 5, p. 153. 
    G. Bruno, La pittura del primo Novecento in Liguria 1900-1945, in La pittura in Italia. Il Novecento, Electa Edizioni, Milano 1992, vol. I, tav. p. 27.  G. Bruno, Plinio Nomellini, edizione Italiana Petroli, Genova, Erga, novembre 1994, tav. 53, p. 213.
    E.B. Nomellini, Plinio Nomellini. Il colore, la natura, il mito, Firenze 2008, s.n.p. [p. 61]. 
    L’eredità di Fattori e Puccini: il Gruppo Labronico tra le due guerre, (a cura di), V. Farinella, G. Schiavon, catalogo della mostra, (Livorno, Granai di Villa Mimbelli, Museo Civico G. Fattori), Ospedaletto (PI), Pacini Ed., 2011, sala 3, p. 24. 
    Dipingere l’incantesimo. Pittori nelle terre di Lucchesia di inizio ‘900, (a cura di), U. Sereni, A. Guidi, catalogo della mostra (Lucca, Fondazione Banca del Monte di Lucca, Palazzo delle Esposizioni), Lucca, Maria Pacini Fazzi Ed., 2015, sala 1, 1° piano. 

    Analisi

    La ninfa rossa è un’opera databile al 1904 ca. e fu eseguita durante il soggiorno a Torre del Lago del pittore Plinio Nomellini; fu esposta per la prima volta alla IV Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia del 1905. Negli anni successivi fu presente in altre esposizioni ufficiali, fin quando nel 1909 fu venduta per £ 1.000 a un collezionista privato di Genova. L’ultima esposizione ufficiale è datata 2016 presso il Palazzo delle Esposizioni della Fondazione Banca del Monte di Lucca; normalmente l’opera è custodita in collezione privata presso Montenero di Livorno ed è prestata saltuariamente per alcune mostre temporanee. 

    (…)

    A causa del precoce ingresso in proprietà privata dell’opera, ad oggi non esiste un’esaustiva analisi iconologico – iconografica del dipinto. Il soggetto e la datazione però, inseriscono a pieno titolo La ninfa rossa nel filone delle opere simboliste della carriera del pittore. Analizzando il soggetto, osserviamo in primo piano, una figura femminile inserita in un contesto naturale; dal titolo si evince essere una ninfa dei boschi, figura mitologica tipica della tradizione greco-romana, posta in ginocchio su un prato, davanti ad un tronco di albero; tutt’attorno fitta vegetazione. Ella sembra in atto di porsi sul capo una corona di fiori. In secondo piano, sulla destra, compaiono due figure maschili nude intente ad osservare la ninfa, quella più lontana rispetto al fuoco della composizione brandisce un’arma che potrebbe sembrare una falce.  Su tutta la composizione domina un rosso vermiglio intenso, steso secondo una scomposizione del colore di tipo divisionista, con pennellate lunghe e filamentose dalle quali scaturiscono ipnotici controluce. Il tema mitologico appassiona il pittore che lo rielabora in forme moderne, con un disegno preciso ed elegante, che risente molto della poetica dei Preraffaelliti inglesi, specialmente Edward Coley Burne-Jones e John William Waterhouse.  Analizzando le frequentazioni letterarie di Nomellini in quel torno di anni di soggiorno a Torre del Lago, si può pensare immediatamente all’influenza esercitata dalla poetica di Gabriele D’Annunzio. Il 23 dicembre 1886, presso lo stabilimento tipografico del giornale La Tribuna, uscì l’Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, raccolta di componimenti poetici dannunziani. In quest’opera, poi divisa in due libri nell’edizione del 1890, d’Annunzio si propone di gareggiare con i poeti contemporanei, iniziando la prima vera sperimentazione della poesia decadente. L’edictio picta, curata da Giuseppe Cellini, coinvolse un gran numero di artisti frequentanti il Caffè Greco, quasi tutti di origine romana e gravitanti attorno alla rivista Cronaca Bizantina come Sartorio, De Maria, Cabianca, Coleman, Ricci, solo per citarne alcuni. Nel primo libro sono descritte varie scene di gusto decadente ed erotico; nella sezione “Donne” appare un gruppo di componimenti dove spicca il primo intitolato Nympha Ludovisia:

    «Per l’antico viale de l’Aurora, 
    mentre i cipressi dormono al mattino, 
    o nova principessa di Piombino, 
    tu passi; e a te d’intorno il vento
    odora.
    Vive d’intorno a te la grande flora
    Ludovisia crescendo a’l sol latino,
    bionda Napea di Rafael d’Urbino,
    ne la beatitudine de l’ora. 
    E le fontane vivono; e l’intensa
    Voluttà de la vita, a’ l tuo passare,
    urge fino i cipressi alti e quieti;
    e te brama ed a te canta l’immensa
    anima de la villa secolare,
    o diletta ne’ sogni dei poet
    i» (G. D’Annunzio, Nympha Ludovisia, in Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, Milano, Casa Editrice Italiana, 1909, p. 80, vv. 1- 15.).

    I riferimenti alla poesia nell’opera pittorica sono palesi, a partire subito dal titolo omonimo, per passare poi alle nitide immagini silvestri che circondano la ninfa ai versi 2, 6, 7, 12. Ipotizzabile quindi che Nomellini si fosse nutrito di questi passi al momento dell’ideazione del soggetto.  Molte opere letterarie di questo periodo riunite convenzionalmente sotto l’etichetta simbolista e decadente erano spesso abitate da figure femminili immobili, inserite in un’inquietante atmosfera atemporale e semi-favolosa; non va perduto di vista il significativo fenomeno del “ritorno degli dei” di cui l’arte di fine Ottocento, appassionata di Rinascimento, restituisce ampia testimonianza; e quando gli dei ritornano, non rinunciano certo a farlo accompagnati dal loro inseparabile corteggio di ninfe. La formazione di D’Annunzio affondava quindi solide radici in quella cultura classica che rimase incrollabile fondamento della sua ispirazione poetica e che riaffiora anche nell’opera del Nomellini.( G. Brugnara, Un’imprecisione simile al sogno – la Ninfa nell’opera di Gabriele D’Annunzio e nella cultura del suo tempo -, tesi di dottorato in Letterature comparate e studi linguistici, XXII ciclo, Università degli Studi di Trento, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2008-2009, relatore Prof. F. Zambon, pp. 3-4.)(fonte)

    [2] Plinio Nomellini (Michele Omero). – Nacque a Livorno il 6 agosto 1866, figlio di Coriolano, funzionario di dogana, e di Cesira Menocci.

    Tra il 1872 e il 1874 visse con la famiglia a Cagliari, per poi tornare nel 1875 nella città natale, ove fece studi tecnici. Grazie all’intervento di Natale Betti, suo maestro alla livornese Scuola comunale di disegno, alla metà degli anni Ottanta ottenne una borsa per frequentare i corsi dell’Istituto di belle arti di Firenze. Qui fu allievo e amico di Giovanni Fattori, che lo sostenne a più riprese e lo mise in contatto con i protagonisti della pittura di macchia, su tutti Silvestro Lega e Telemaco Signorini. Come questi ha ricordato, sorse allora l’abitudine di incontrarsi «in via San Gallo alla trattoria del Volturno, in un grande stanzone terreno accanto a casa Fenzi […]. Primo vi dipinse il Lega e i tre Tommasi e vi disegnarono o dipinsero ritratti o animali o paesi d’ogni genere il Nomellini, il Kienerk, il Torchi, il Panerai, il Fanelli, il Bois e tanti altri» (Signorini, 1896, pp. n.n.). In questo ambiente Nomellini strinse amicizia anche con Giuseppe Pellizza da Volpedo, suo compagno di studi in Accademia.

    Nel 1886 esordì presentando due dipinti (tra cui Uliveta, conservato in collezione privata e ripr. in P. N., 1998, fig. 2, pp. n.n.) all’Esposizione annuale della Società delle belle arti di Firenze, alla quale inviò opere ogni anno – tranne rare eccezioni – fino all’inizio del Novecento. Signorini fu uno dei primi suoi estimatori e lo indicò già nel 1887 quale promettentissimo allievo di Fattori, «giovane artista livornese» che «scalda, vivifica e rende fertile la terra» (Signorini, 1887).

    Alla mostra della Società delle belle arti del 1888 espose, tra l’altro, Il Fieno, noto oggi come Il fienaiolo (Livorno, Museo civico Giovanni Fattori).

    Il dipinto, che segna già un primo, netto superamento dei modi più tipici della pittura macchiaiola, fu ampiamente lodato da Signorini: «Il Nomellini espone quest’anno il quadro più luminoso, solido e originale di tutta questa esposizione. La modernità della scelta è forse il merito maggiore di questo dipinto. […] Il sole empie la tela tutta e investe l’unica figura di un ragazzo che si avanza carico di paglia. Davanti a questa ricerca coscienziosa dell’ambiente e del carattere di quest’unica figura; dalla sintesi luminosa della sua totalità, all’analisi caratteristica del suo minimo dettaglio in un dito tagliato alla prima falange, si resta lungamente assorti e interessati» (Id.,1889). In questo stesso anno – grazie anche alla segnalazione di Signorini – la grande tela fu portata alla Esposizione universale di Parigi.

    Nonostante i riferimenti a esperienze artistiche francesi difficilmente accessibili allora in Italia (Jean-François Millet e Constantin Meunier), evidenti già ne Il fienaiolo e ancor più in opere di poco successive, è improbabile che a questa data Nomellini visitasse Parigi, come è stato invece da alcuni ipotizzato.

    Allo scadere degli anni Ottanta risale un ritratto di Nomellini dipinto da Silvestro Lega, prova tangibile del grande affetto mostrato dai più maturi artisti nei riguardi del giovane pittore livornese.

    Con ogni probabilità nel 1889 cominciò a soggiornare a Genova, ove si stabilì poi l’anno successivo.

    Come ha osservato Gianfranco Bruno, il transito dall’ambiente fiorentino al capoluogo ligure fu accompagnato da un evidente cambiamento di interessi e di linguaggio: «graduale fu anche il passaggio da un’impostazione stilistica dell’immagine prevalentemente modellata sull’esempio fattoriano, e più generalmente della pittura di macchia, ad un’immediatezza espressiva decisamente impressionista, destinata a sfociare nel ’91, tra alternanze e ritorni, nella nuova esperienza divisionista» (N. a Genova, 1994, p. 4).

    All’Esposizione di Firenze del 1889 presentò Sciopero (coll. privata, ripr. in P. N. …, 1998, fig. 9), primo dipinto espressamente dedicato a un tema di carattere politico-sociale. A partire dal 1890 cominciò a esporre nelle mostre della Società promotrice di belle arti di Genova, e, più sporadicamente, in quelle della Promotrice di Torino. Il distacco dall’esperienza macchiaiola fu sancito una volta per tutte quando, all’Esposizione della Società delle belle arti di Firenze che si tenne tra 1890 e 1891, presentò opere più innovative come I mattonai (coll. privata, ripr. in P. N. …, 1998, fig. 10). Fattori, suo maestro, pur riconoscendo il valore della modernità nomelliniana, disapprovò il suo sostanziale accodarsi al linguaggio impressionista. La posizione di Nomellini era simile – a questa data – a quella di altri giovani pittori toscani, primo fra tutti Alfredo Müller, che abitava allora a Parigi, ove aveva potuto studiare attentamente il linguaggio di Claude Monet, di Camille Pissarro e degli altri impressionisti.

    Nel 1891 partecipò alla Prima Triennale di Milano, celebre per il primo, prepotente affacciarsi del divisionismo: qui espose Piazza Caricamento a Genova (coll. privata, ripr. in P. N., 1985, fig. 21, p. 42), grande dipinto (che fu acquistato da Piero Mascagni) in cui sembra prefigurare quanto sarà poi nel Quarto Stato, il capolavoro di Pellizza da Volpedo.

    Come ha osservato Bruno: «i suoi lavoratori del 1891 incedono sicuri nell’ambiente quotidiano, a pugni chiusi, in un atteggiamento del tutto naturale, sicché la loro fierezza è un dato realisticamente accertato […]. Tanta naturalezza […] innova decisamente rispetto alla impostazione plastica accademico-verista che caratterizza gran parte della pittura a sfondo “sociale” di quegli anni, spiega perché l’opera possa ritenersi un antecedente sicuro del Quarto Stato di Pellizza» (così in P.N., 1985, p. 13).

    Attorno al 1891 affrontò le prime vere e proprie prove divisioniste, come testimoniano Il golfo di Genova e il Mare di Genova (entrambi in coll. privata, sono riprodotti in P. N. …, 1998, rispettivamente fig. 16 e fig. 17).

    Tuttavia, come ha ancora una volta opportunamente notato Bruno: «I “puntini e lineette” di cui parlava Pellizza nella sua lettera del ’92 sono qui messi in pratica senza alcuna programmazione della tessitura. Il Divisionismo, se così si vuol chiamarlo, di Nomellini è istintuale, di getto, grande la foga espressiva, mentre un solido ordito compositivo supporta la vitalità della materia cromatica». In questi dipinti «interagiscono componenti culturali diverse, non ultima un “giapponesismo” che ben si comprende per il diffondersi in quegli anni delle stampe d’oriente in Europa» (P. N., 1985, p. 14).

    Tra le prove maggiori di questa stagione fu anche la Diana del lavoro (coll. privata, ripr. in P.N., 1998, fig. 19), esposta a Firenze tra 1892 e 1893, che come ha scritto Raffaele Monti segnò «il maggior congiungimento tra la tecnica divisionista e gli spiriti socialisti umanitari che il giovane condivideva con Pellizza da Volpedo» (Il divisionismo toscano, 1995, p. 9).

    All’inizio del 1894 venne arrestato con l’accusa d’aver partecipato alle attività sovversive di un gruppo anarchico genovese. Per alcuni mesi fu imprigionato nel carcere di S. Andrea (dove disegnò molto e realizzò alcune incisioni), fino a quando, in maggio, si tenne il processo. In questa circostanza fu strenuamente sostenuto da Diego Martelli, che organizzò una sottoscrizione – in denaro e dipinti – alla quale aderirono molti pittori residenti a Firenze e che servì a garantire all’artista la difesa legale (fu rappresentato dall’avvocato Giovanni Rosadi).

    Signorini testimoniò con un intervento che la stampa giudicò «efficacissimo»: «Io conosco il Nomellini fino da quando lasciò, oscuro ed ignorato giovane, la sua città di Livorno e venne a studiare alla nostra Accademia di Belle Arti, e dove si fece subito conoscere come uno dei più brillanti ingegni e al quale era destinato uno splendido avvenire. […] Oggi poi egli è il caposcuola dell’impressionismo artistico: la sua arte sta tutta nello studio indefesso della natura, e non mi accorsi mai che facesse della pittura simbolica. […] Io sono qui», proseguì Signorini, con parole che commossero la corte, «anche a nome del professor Fattori […] e tanto in nome del mio collega, quanto a nome mio debbo affermare che l’arte del Nomellini è un’arte destinata a un grande avvenire […]. Sì, un incarico l’ho avuto, ed è quello di volgere una preghiera, a nome dell’Accademia di Firenze, al Tribunale perché voglia ridare all’arte una delle più belle intelligenze, uno dei più fecondi lavoratori […]. Noi siam vecchi e ci ritiriamo; faccia il Tribunale che i giovani che ci devono succedere nella via dell’arte non siano strozzati dalle sbarre delle prigioni» (così Signorini in Il trionfo di N., 1894, pp. n.n.).

    Finalmente scarcerato, tornò subito a dipingere e a esporre i risultati della propria ricerca in numerose occasioni, riconosciuto nella più parte dei casi come uno dei maggiori rappresentanti del gruppo divisionista. Fu tra l’altro uno degli animatori del Gruppo di Albaro, punto di riferimento della più vivace cultura genovese.

    Nel 1898 espose a Torino e poi a Genova Ore quiete, «un’opera», ha osservato Bruno, «nella quale il tema intimista, adombrando già nel titolo un’intenzione psicologica, viene risolto in una dissoluzione della figura nella luce che unisce interno ed esterno: come un’impreveduta anticipazione di “stati d’animo” boccioniani la figura, trapassata dalla luce dell’ambiente, s’anima di una vitalità psicologica scandita dal segno vibrante delle mani, dall’apparire del tutto mentale del bianco» (P. N., 1985, pp. 15s.).

    Il 6 maggio 1899 sposò a Genova Griselda Ciucci, e poco dopo fece il suo esordio alla III Biennale internazionale d’arte di Venezia. Qui espose, tra l’altro, Sinfonia della luna, polittico di sapore simbolista che fu acquistato per la Galleria d’arte moderna di Ca’ Pesaro. In esso Vittorio Pica rilevò «doti ammirabili di composizione e di fattura ed un senso squisito della decorazione», tanto da esprimere la più solida fiducia in questo «giovane ed ardimentoso pittore toscano» (Pica, 1899, p. 121, con ripr.).

    All’inizio del nuovo secolo la pittura di Nomellini si avvicinò ancor più al simbolismo e si fece sempre più disponibile a rimandi con il mondo letterario. L’amicizia e collaborazione con Giovanni Pascoli, conosciuto nel 1903, i contatti con Giacomo Puccini e con Mascagni, la sostanziale affinità con il mondo dannunziano sono elementi che concorsero a precisare il suo orientamento in questo giro d’anni. Tra l’altro si dedicò frequentemente a illustrare testi e poesie di amici scrittori (primo fra questi proprio Pascoli), pubblicando le proprie immagini su riviste quali La Riviera Ligure o, più tardi, sul Secolo XX.

    Decisivo, in tutto questo, fu il trasferimento da Genova a Torre del Lago, nel 1902: Nomellini si immerse nella natura, trovando un nuovo e più disteso respiro per la propria pittura. Ne è prova, tra l’altro, Vespero a Torre del Lago (coll. privata, ripr. in P. N.,1989, fig. 25, p. 71), in cui la ricchezza dei caldi colori del tramonto fa significativamente scivolare in secondo piano la figura del lavoratore col carico in spalle. L’unione tra un nuovo senso di natura e il simbolismo letterario è ancor più evidente in Ditirambo (Novara, Galleria d’arte moderna Giannoni), che Nomellini espose alla VI edizione della Biennale di Venezia del 1905. Qui egli partecipò alla decorazione della sala toscana, per la quale realizzò una sovrapporta e nella quale espose ben otto dipinti. Nel 1907, alla VII Biennale, progettò con Galileo Chini la doppia sala intitolata L’arte del sogno, che raccolse artisti come Maurice Denis e Franz Von Stuck.

    Come ha osservato Maria Teresa Benedetti riferendosi al ruolo di organizzatori svolto in questa circostanza da Chini e Nomellini, «intento dei due amici […] era probabilmente di inserire, attraverso una serie di corrispondenze, il loro discorso in un contesto europeo, realizzando una sala all’insegna di un tema congeniale alla visionarietà mistico-esoterica di Chini e all’idealismo mitografico e immaginifico di Nomellini» (L’età del divisionismo, 1990, p. 74). Nomellini vi espose quattro opere, tra le quali la grande tela celebrativa dedicata a Garibaldi (ripr. in catalogo, oggi è a Livorno, Museo civico Giovanni Fattori). Pica, che aveva poco tempo prima espresso un giudizio ampiamente positivo sull’opera di Nomellini, mostrò ora qualche dubbio: «amo in lui il continuo fervore di fantasia […] ed ammiro la mirabile sua foga cromatica e luminosa, benché tema che il ripetere, troppo frequente da qualche tempo in qua, di certi effetti di folle confuse in marcia e di luminosità velate, che fanno ripensare ai fumi delle candele di bengala impregnati di luci colorate, non lo faccia, un po’ per volta e senza che se ne renda conto, scivolare verso la maniera» (Pica, 1907, pp. 342 s.).

    Giacinto Nudi e Raffaele Monti espressero molto più tardi analogo giudizio limitativo su opere come Garibaldi, riconoscendovi «una specie di compromesso insieme superomistico e nazionalistico, con l’ingigantimento sovente retorico del “mito” solare e tirrenico; un tipo di simbolismo eroico rintracciabile anche nei massimi poeti italiani del momento: si pensi a D’Annunzio ed allo stesso Pascoli. Naturalmente questo aspetto vistoso dell’attività del pittore fu quello che ebbe maggior successo» (Mostra di P. N., 1978, pp. n.n.).

    Tra 1907 e 1908 lasciò Torre del Lago per stabilirsi a Viareggio. La sua casa di Fossa dell’Abate divenne un importante luogo di incontro tra artisti e intellettuali (fra questi erano D’Annunzio, Grazia Deledda, Puccini, Lorenzo Viani). Nel 1908 a Livorno tenne un’orazione funebre, acclamata con entusiasmo dalla popolazione cittadina, in onore di Fattori. Nei primi anni Dieci continuò a lavorare nel campo dell’illustrazione (fra l’altro per I poemi del Risorgimento di Pascoli) e a esporre ripetutamente nelle più importanti rassegne. Partecipò a tutte le Biennali d’anteguerra e fu presente alle quattro edizioni della Secessione di Roma che si tennero dal 1913 al 1916 (nel 1913 espose anche Fiera di Camaiore, oggi alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma).

    Nel 1919 si trasferì a Firenze, abbandonando la Versilia. Nel capoluogo toscano tenne subito un’importante esposizione personale, ricca di ben 80 dipinti, nelle sale della galleria Mario Galli. La mostra si caratterizzò per l’esaustiva presentazione di studi, paesaggi e marine, risalenti sì a diverse epoche, ma con una chiara sottolineatura dell’ormai antica stagione di studi fiorentini. La scelta di mostrare la produzione per così dire ‘minore’ fu il segno di una compiuta maturità e di un prestigio ormai unanimemente riconosciuto. Ne è prova l’omaggio che la XII Biennale di Venezia del 1920 gli rese: Nomellini ebbe una importante personale, allestita nel salone centrale, ove espose oltre 40 dipinti, in larga parte dedicati a immagini di natura (I pavoni, coll. privata, ripr. in P. N. 1998, fig. 48) o a scene di carattere storico-patriottico (Alle porte d’Italia, coll. privata, ibid., fig. 51). Le opere di questo periodo si caratterizzano spesso per l’uso di un colore timbrico, di radice chiaramente espressionista, come avviene per esempio in Tra sole e luna, del 1919 (coll. privata, ibid., fig. 50), per il quale giustamente Bruno ha parlato di «una sorta di riviviscenza fauve, preparata dall’accorpamento di grumi, macchie, segni» (P. N., 1985, p. 16). Nel corso degli anni Venti nel catalogo nomelliniano si alternano paesaggi ricchi di materia e colore, spesso abitati da figure, e immagini di carattere politico: l’artista livornese aderì precocemente e con entusiasmo al fascismo, celebrandolo a più riprese in maniera esplicita. Ne dà conto ad esempio Incipit Nova Aetas, esposto alla Biennale di Venezia del 1924 e lì acquistato dal Municipio di Livorno, in cui l’arrivo delle camice nere a Firenze è esaltato in un tripudio di folla e colori (la tela, alta oltre 4 metri, è oggi conservata al Museo civico Giovanni Fattori). Su un altro fronte stanno opere come Primula del 1925, ritratto di una giovane donna che si affaccia su un mare battuto dalla luce e mosso da lunghe pennellate violette, che prima ancora del divisionismo evocano la pittura del tardo Monet (Trieste, Museo Revoltella).

    In questo periodo tenne diverse mostre personali: nel 1923 espose quasi 50 dipinti alle gallerie Merlini e Gazzini di Firenze, nel dicembre 1924 allestì una personale nella prestigiosa Galleria Pesaro di Milano e nel 1928 fu a Bottega d’arte di Livorno. Negli anni Trenta la sua visibilità aumentò ulteriormente, grazie anche alle personali tenute alla Galleria di Palazzo Ferroni di Firenze nel 1933, alla Galleria d’arte di Genova nel 1934, e, soprattutto, alle innumerevoli rassegne e mostre collettive. Nomellini fu infatti a tutte le edizioni della Biennale di Venezia che si tennero dalla fine della prima guerra mondiale fino al 1942. Espose anche alla I Quadriennale d’arte nazionale di Roma nel 1931, così come alla III e alla IV edizione (tenutesi rispettivamente nel 1939 e nel 1943). Fu attivo organizzatore di cultura: partecipò tra l’altro al Gruppo Labronico, larga compagine che operava a livello nazionale, divenendone presidente nel 1928. Dopo la morte della moglie, occorsa nel 1936, diradò le occasioni espositive, pur continuando a dipingere molto. Un Autoritratto del 1938 dimostra ancora un vivace interesse per l’uso di colori squillanti (coll. privata, ripr. in P. N., 2008, p. 23).

    Morì a Firenze l’8 agosto 1943.

    Dopo la morte l’opera di Nomellini fu a lungo trascurata dagli studiosi. Nel 1966 si tenne a Firenze e Livorno la prima importante riflessione sul suo lavoro, in una mostra presentata da Carlo Ludovico Ragghianti e organizzata da Raffaele Monti e Giacinto Nudi. Nel 1985 la pittura nomelliniana fu oggetto di un’ampia e articolata analisi in occasione della mostra tenuta a Genova, a cura di Gianfranco Bruno. A partire da questa data il nome di Nomellini figura in tutti i più importanti studi sul divisionismo e sulla pittura post-macchiaiola. Nel 2008 è stata infine pubblicata una monografia da Eleonora Barbara Nomellini, nipote e curatrice dell’archivio dell’artista. È tuttora in fase di preparazione il catalogo generale delle opere.(fonte)