Ministero dell’Educazione Nazionale
IL MINISTRO
31 AGO. 1931 Anno IX
Gentile Signora,
in relazione alla Sua lettera mi pregio comunicarLe che sarò
lieto di interessarmi in ordine a quanto mi dice.
D’altra parte reputo opportuno farLe presente che qualche volta
le Riviste hanno un loro particolare carattere che non consente di
accogliere gli scritti non perfettamente rispondenti al carattere
stesso.
Ad ogni modo io mi auguro che le mie pratiche possano avere
esito favorevole.
Si abbia cordiali ossequi
Balbino[1]
Gentile Signora
Pussy Mantegazza[2]
Salita Colonna 10
GAETA
Note
[1] Giuliano Balbino. Acque a Fossano (Cuneo) il 4 genn. 1879, da Angelo, insegnante nella scuola secondaria, morto prematuramente, e da Angelina Cerignasco. Non ebbe una carriera scolastica particolarmente brillante: dopo aver ottenuto la licenza liceale al liceo Gioberti di Torino nella sessione autunnale del 1896, s’iscrisse all’Università torinese, laureandosi in lettere il 17 dic. 1901 (con la votazione di 92/110) col grecista G. Fraccaroli, e in filosofia il 15 dic. 1902 (con 86/110) col filosofo tardohegeliano P. D’Ercole.
Intraprese, quindi, la carriera dell’insegnamento medio: risultato vincitore nel 1903 dei concorsi per le materie letterarie nel ginnasio inferiore e per l’italiano nelle scuole tecniche, insegnò in molte sedi minori, finché non trovò stabile sistemazione al ginnasio inferiore di Alba, dove restò fino al 1910.
In questi anni, le sue posizioni politiche e i suoi orientamenti culturali e filosofici subirono una metamorfosi, che, pur con alcune peculiarità, risulta tutt’altro che insolita fra i suoi coetanei: come molti dei giovani intellettuali formatisi negli anni Novanta nella Torino del “socialismo dei professori” e della “scuola positiva”, anche il G. non si sottrasse al fascino del socialismo e fu marxista, o comunque materialista e positivista (e tornò più volte su questa sua parabola: cfr., per esempio, La crisi di un mito, in L’Unità, 21 febbr. 1913, pp. 251 s.). Ma risentì presto della crisi di questo mondo e della pervasiva influenza del nuovo spiritualismo, che si diffuse nei primi anni del Novecento e che sulle prime gli si presentò nella forma esoterico-religiosa, quale si ritrovava nelle logge teosofiche e negli ambienti di religiosità sincretistica, allora presenti anche in Italia: così, nel suo primo lavoro di un certo respiro, il saggio su L’idea religiosa di Marsilio Ficino (Cerignola 1904), il G. non esitava a compiere un illuminante parallelo fra Ficino e Annie Besant (Garin, p. 43). Il giovane professore fu molto attivo in questo ambito: dal 1904 al 1907 collaborò a La Nuova Parola di A. Cervesato e nel 1906, con il mistico G. Ferrando e con lo spiritista A. Righini, fu tra i fondatori della Biblioteca filosofica di Firenze (Rogari, p. 206) dove, nel 1907, partecipò a un ciclo di conferenze, in qualche modo programmatico, pubblicato nel volume collettaneo Per una concezione spirituale della vita (Firenze 1908).
Negli stessi anni anche il socialismo giovanile del G. subiva un’analoga evoluzione: perdeva il suo ancoraggio materialistico e classistico, diventando umanitario e religioso, e trovava una sede congeniale in Coenobium, la rivista luganese di E. Bignami e G. Rensi, su cui il G. scrisse dal 1908 al 1911. Non per questo veniva meno il suo atteggiamento critico verso l’assetto della società italiana: in particolare fu attivo nella Federazione nazionale insegnanti scuola media (FNISM), di cui commentò assai positivamente il VII congresso, tenutosi a Firenze nel settembre 1909, che si era dichiarato fermamente antiministeriale (Coenobium, ottobre 1909, pp. 113-116).
Nel 1910 il G. vinse il concorso per l’insegnamento della filosofia nei licei: negli anni seguenti avrebbe insegnato a Benevento (1910-11), Massa (1911-16) e Cuneo (1916-17). La nuova posizione diede maggiore visibilità alla sua attività culturale e politica e fu in questo periodo che il suo pensiero filosofico giunse a maturità (Il torto di Hegel, Roma 1912; Il valore degli ideali, Torino 1916).
Nel mondo empirico, il G. dichiarava di accettare il superamento hegeliano del dualismo del conoscere e dell’essere, per cui in quest’ambito è possibile l’identità fra pensiero e realtà. Ma a tale realtà sovrasta un assoluto che, per sua natura, trascende la relatività del pensiero e soprattutto non può essere costretto nella sua forma logica. Il pensiero lo può conoscere solo da un punto di vista relativo, può progressivamente elevarsi a esso, senza tuttavia abbracciarlo del tutto. Dall’immanentismo idealistico, il G. cercava, dunque, con accenti di misticismo neoplatonico e con forti motivi pragmatistici, di fare scaturire la trascendenza: gli ideali ultimi dell’uomo (il vero, il bello, il buono) non sono al di fuori del suo spirito, ma nemmeno completamente si esauriscono nella sua attività. Lo spirito li avverte come oggetto di un processo continuo di adeguamento, come valori che improntano ogni momento dell’attività spirituale, ma non vi si realizzano mai completamente. L’uomo che realizza un valore è preso da un sentimento intimo di piacere e di gioia, da un senso creativo, che raggiunge il suo culmine nell’entusiasmo estetico: il G. abbozzava, perciò, anche un’estetica contenutistica e mistica (in quanto l’arte, nella scala dei valori, è al di sopra della mediazione logica), che tendeva a rintracciare e spiegare il pensiero espresso in forma “mitica” nell’opera d’arte. Ne faceva la base per alcuni impegnativi saggi su L’opera wagneriana (Rivista d’Italia, XVII [1914], t. II, pp. 88-119), su Il mito storico della poesia carducciana (ibid., XVIII [1915], t. I, pp. 411-434) e, soprattutto, su La religiosità del mistero, G. Pascoli (Roma 1920), rifuso poi in La poesia di G. Pascoli (Bologna 1934), in cui veniva studiata in modo originale la religiosità della poesia pascoliana.
Nel frattempo era entrato in crisi definitiva anche il suo socialismo: come tanti altri socialisti delusi, o che avevano rotto col partito, si riconobbe nel gruppo che si stava formando attorno a L’Unità di G. Salvemini, cui collaborò con una certa assiduità dal 1912 al 1915. Sostenne attivamente Salvemini anche durante la sfortunata campagna elettorale del 1913 in Puglia (Salvemini contro il giolittismo, nel volume collettaneo Prime elezioni a suffragio universale. 26 ottobre 1913. Collegi di Bitonto e Molfetta, Bari [1913]) e, al pari di lui, fu interventista nel 1914-15.
Il suo interventismo fu lo sbocco della sua continua polemica antigiolittiana: l’intervento in guerra gli parve l’occasione per liquidare il “nemico interno”, la “malattia d’Italia”, identificata col giolittismo, cioè con la “negazione di tutti i valori dello spirito” (Il valore della rivolta, in L’Unità, 21 maggio 1915, p. 685). Non ebbe tuttavia uno sfondo nazionalistico: il G. polemizzò contro tutte le generalizzazioni antitedesche che allora cominciavano a diffondersi (Coltura tedesca e umanità latina, in Rivista d’Italia, XVIII [1915], t. I, pp. 548-557) e se, in nome di un idealismo “antidogmatico” e del mazzinianesimo, difese il principio di nazionalità, si preoccupò di purificarlo dalle degenerazioni razzistiche e imperialistiche nonché dall’esclusivismo ed egoismo tipici della idea germanica di nazione (Il primato di un popolo: Fichte e Gioberti, Catania 1916).
Fu questo il professore, che, trasferito al liceo Gioberti di Torino nel 1917-18, divenne la guida del giovane P. Gobetti, suo alunno di terza liceo. Il G. lo iniziò all’Unità di Salvemini e a lui Gobetti attribuì un ruolo di rilievo nei primi numeri di Energie nuove (1918-19); il dissenso, maturato dalle posizioni sempre più marcatamente nazionaliste del G., non cancellò, tuttavia, l’affetto di Gobetti.
Al G., infatti, è dedicata (“A Balbino Giuliano maestro e amico con sincerità”) la traduzione dal russo di A.I. Kuprin, Allez! (Firenze 1920) e Gobetti ne sollecitò i consigli per i suoi studi: restano testimonianze epistolari che confermano la sopravvivenza di un rapporto cordiale ancora nel 1924.
Come per tanti altri, anche per il G. il trauma di Caporetto, e poi le passioni dell’ultimo anno di guerra, contribuirono a una resa dei conti definitiva col suo passato demosocialista e a un’estremizzazione della scelta “patriottica”: “sopra tutto bisogna liquidare tutti i detriti della nostra cultura democratica”, scriveva al vecchio maestro Fraccaroli nel 1918, e questo fu il nucleo dei suoi più impegnativi interventi su Energie nuove.
Il saggio Perché sono uomo d’ordine (in Energie nuove, I [1918-19], pp. 51-55) e la successiva risposta alle critiche di A. Gramsci (ibid., pp. 111-113, poi in L’esperienza politica dell’Italia, Firenze 1924, pp. 17-26, 27-32, volume in cui sono riportati, con significativi ritocchi, i più interessanti interventi politici del G. degli anni del dopoguerra) mostrano come dalla crisi definitiva del socialismo il G. si stesse avviando alla scelta speculare e contraria del nazionalismo: in questo passaggio confessò più volte (ibid., p. 284) di aver risentito fortemente la suggestione del pensiero di G. Gentile, “pedagogo della nazione” che stava uscendo dalla guerra; su questa base giunse alla rottura con Salvemini.
Trasferito, alla fine del 1918, presso il liceo Minghetti di Bologna, inizialmente vi fu attivo (con A. Galletti e L. Emery) nella salveminiana Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale, ma ne prese progressivamente le distanze sui temi della politica adriatica e della questione fiumana: nel settembre 1919 il G. era a Fiume e partecipò ai preparativi del colpo di mano dannunziano del 12 settembre (Susmel, p. 407; M. D’Annunzio, pp. 215 s.).
Da Fiume “liberata” scriveva, “fremente d’italianità” a Gobetti, e un mese dopo polemizzava apertamente con Salvemini in uno scritto (colpito ripetutamente dalla censura) che segnava il suo distacco definitivo dagli ambienti “unitari” (Discussioni “extra moenia”, in L’Unità, 30 ott. 1919, pp. 215 s.).
Tornato a Bologna, fu fra i fondatori di un circolo nazionalistico che, poche settimane avanti le elezioni del 16 nov. 1919, cominciò a pubblicare un settimanale, La Battaglia, dal G. poi sempre ricordato come l’inizio di una fase nuova della sua attività politica. Intanto recideva anche gli ultimi legami col suo vecchio mondo.
Firmatario dell’Appello per un Fascio di educazione nazionale, pubblicato sull’Educazione nazionale di G. Lombardo Radice il 15 genn. 1920, e quindi pienamente inserito nel fronte idealistico-gentiliano per la riforma della scuola, difese, all’interno del direttivo bolognese della FNISM, i progetti di riforma di B. Croce ministro, ma fu sopraffatto dagli oppositori “massonici” e, alla fine del 1920, si dimise (Tognon, B. Croce alla Minerva).
Il nazionalismo era per lui lo sbocco della “rivoluzione idealistica della cultura che è ricominciata verso i primi del secolo XX, […] che trovò da noi la sua sistemazione filosofica ed il suo vigoroso sviluppo scientifico nell’opera di due nostri grandi italiani, cioè nel Croce e nel Gentile” (Il Resto del carlino, 22 apr. 1922). Vivendo a Bologna, fu, poi, testimone della nascita e della diffusione dello squadrismo agrario fascista e si pose presto il problema dei rapporti fra questo movimento, giovane e ancora indefinito sul piano ideologico, e il nazionalismo (Nazionalismo e fascismo, in L’Idea nazionale, 11 genn. 1922, poi in L’esperienza politica, pp. 179-186).
Per il G., il fascismo era un forma spuria di nazionalismo, in quanto, nonostante l’abbandono dei programmi del 1919, permanevano al suo interno tracce consistenti delle utopie, dei postulati ideologici e dei criteri d’azione del vecchio sovversivismo – che pure aveva contribuito a sconfiggere – come la tendenzialità repubblicana, il dirigismo economico e il mito dell’azione diretta, per cui la violenza, che era stata utilissima contro le roccaforti “rosse”, rischiava di diventare ora un metodo permanente e, quindi, ingiustificato. Il G. era, perciò, molto cauto sull’eventualità di una fusione fra nazionalisti e fascisti, che giudicava per il momento “un errore” e che sarebbe stata possibile solo quando il fascismo si fosse purificato da quei difetti che, paradossalmente, gli avevano assicurato il successo e la popolarità mai raggiunti dai nazionalisti. Qualche mese dopo (La crisi interna, in Il Resto del carlino, 16 maggio 1922, poi in L’esperienza politica, pp. 187-192) indicava al fascismo una via tutta parlamentare, quella di “una sana coalizione di destra nazionale” per contrastare “la coalizione delle sinistre demagogiche”.
Ma l’azione di Mussolini sovvertì tutti questi calcoli: di fronte alla marcia su Roma e al governo che ne nacque, il G. mostrava sulle prime (16 nov. 1922) un atteggiamento riservato, e giudicava soprattutto positiva la legalizzazione del fascismo che sembrava scaturirne (in D. Biondi, Il Resto del carlino 1885-1985. Un giornale nella storia d’Italia, Bologna 1985, p. 185). Il fatto veramente storico era invece per lui il conferimento del ministero della Pubblica Istruzione a Gentile (G. Gentile, in Giornale di Roma, 12 nov. 1922): con Gentile alla Minerva giungeva finalmente al potere quella “rivoluzione spiritualistica” che il G. ripercorreva in tutte le sue componenti di pensiero e di costume in un saggio del dicembre 1922, ricco di riferimenti autobiografici (L’esperienza politica, pp. 251-285).
Dopo i primi atti del governo, il G. si dichiarava, tuttavia, un “fervido ministerialista”, vedeva i pericoli dell’azione fascista (“l’atto violento delle giornate d’ottobre”, il dilagante mito di Mussolini, “il pregiudizio dell’insindacabilità di tutto ciò che vien fatto nel nome del Fascismo”, l'”intemperanza di certi gruppi fascisti, elevati improvvisamente ad una dignità e ad una potenza, che forse supera la loro maturità mentale”), ma valutava molto più positivamente i vantaggi che il paese ne stava comunque conseguendo (ibid., pp. 287-325).
Insieme con gli altri componenti dell’Associazione nazionalista italiana, nel marzo 1923 confluì nel Partito nazionale fascista (PNF), secondo il patto di fusione sancito dalle due organizzazioni.
Il suo fascismo conservò tuttavia i tratti “nazionalistici” della sua provenienza: fu sempre devotamente monarchico, ostile a tutte le componenti movimentistiche del partito, cattolicheggiante e anticollettivista (il liberismo, residuo del periodo salveminiano, era rimasto un ingrediente anche del suo nazionalismo). Il fascismo gli parve, dunque, la traduzione politica delle tematiche spiritualistiche e antiutilitaristiche che erano la base del suo pensiero (Elementi di cultura fascista, Bologna 1929), anche se negò ripetutamente (fece scalpore una polemica parlamentare del 2 apr. 1930 con P. Orano) che “il Fascismo si esaurisse in una filosofia. […] Nessuna filosofia ufficiale del regime […] nemmeno quella che nega la filosofia”, com’era quella esposta da Orano (Papa).
L’accordo con Gentile e col suo programma di riforma scolastica e di politica culturale segnò la carriera politica e accademica del G.: il 16 luglio 1923, il ministro lo nominava provveditore agli studi per la Lombardia con sede a Milano e, in vista delle elezioni politiche del 6 apr. 1924, il G. veniva candidato nel “listone” governativo, ancora in accordo con Gentile, che puntava su di lui per meglio difendere la riforma scolastica alla Camera (Turi, p. 334): veniva così eletto deputato e, dopo le dimissioni di Gentile nel rimpasto del giugno 1924, successivo al delitto Matteotti, divenne sottosegretario alla Pubblica Istruzione, con A. Casati ministro (3 luglio 1924), come uomo di fiducia del filosofo (ibid.) e in quanto esponente di un fascismo moderato, ex nazionalista e monarchico (De Felice, 1966).
Al momento delle dimissioni di Casati, dopo la svolta autoritaria del 3 genn. 1925, anche il G. lasciava il ministero: Gentile lo indicò allora a Mussolini per la successione, ma il duce lo giudicò incerto e ripiegò su P. Fedele (Turi, p. 379); ancora Gentile lo volle nel consiglio direttivo del neonato Istituto nazionale fascista di cultura, da lui fondato (ibid., p. 357). Alla fine del marzo 1925, il G. partecipò al convegno di Bologna per le istituzioni fasciste di cultura con una relazione su “L’interpretazione storica e filosofica del movimento fascista”: da quel convegno scaturì il Manifesto degli intellettuali fascisti scritto da Gentile e pubblicato il 21 apr. 1925, in cui, quindi, anche il G. risulta fra i firmatari.
Fu probabilmente per riparare a una “deplorazione” delle superiori gerarchie del PNF (agosto 1925) e per fugare ogni dubbio sulla sua affidabilità politica, che nel novembre 1925, dopo il fallito attentato Zaniboni, un uomo come lui, noto anche agli avversari per la sua mitezza, dichiarò allo squadrista bolognese A. Bonaccorsi di “offrirsi come boja” degli attentatori (De Felice, 1968).
La sua carriera accademica andò di pari passo con quella politica: quando era sottosegretario, fu nominato con decreto ministeriale professore non stabile di filosofia e storia della filosofia all’Istituto superiore di magistero di Firenze, cittadella gentiliana controllata da E. Codignola (16 ott. 1924), divenendo stabile il 16 genn. 1928, ma, per il mandato parlamentare, rinnovato nel plebiscito del 24 marzo 1929, usufruì di una continua aspettativa. Rispetto a Gentile, il G. veniva, tuttavia, accentuando il carattere teistico del suo pensiero filosofico, che ormai guardava con crescente interesse alla tradizione cattolica.
Rivelatore in tal senso è il suo discorso parlamentare sui Patti lateranensi (11 maggio 1929), in cui affermava che essi indicavano la strada per superare la contraddizione che aveva percorso per secoli la cultura italiana, quella fra “un’ortodossia, che dava un senso di staticità infeconda, e un’eresia che era vita, ma vita dissolvitrice di se stessa”, e che ora era possibile “trovare nella nostra tradizione religiosa, ortodossa e nazionale, l’entusiastica attività creatrice che trovavamo solo nell’eresia straniera, nei temi derivati dalla rivoluzione francese o dalla riforma tedesca” (Jemolo).
Comunque la sua nomina a capo di quello che dallo stesso giorno (12 sett. 1929) venne chiamato ministero dell’Educazione nazionale, al posto di G. Belluzzo, parve una vittoria degli ambienti gentiliani che puntavano a un “ritorno alla schietta riforma” del 1923, infiacchita dai “ritocchi” degli ultimi ministri. In realtà neanche il G. poté contrastare il processo di erosione della riforma gentiliana, dovuto a fattori oggettivi come l’aumento della popolazione scolastica nelle scuole secondarie e la richiesta generalizzata di un allargamento dell’istruzione professionale.
Il G. si fece, così, promotore della realizzazione della scuola di avviamento professionale, un corso postelementare che ebbe un certo successo nel decennio successivo, e riorganizzò, secondo le indicazioni che già erano state di Belluzzo, le scuole e gli istituti professionali (legge 15 giugno 1931, n. 889). Più che il promotore, il G. fu il gestore del processo di “fascistizzazione” della scuola che si ebbe negli anni del suo ministero: il 2 apr. 1930 difendeva in Senato l’adozione, dall’anno scolastico 1930-31, del libro di testo unico e obbligatorio per la scuola elementare (legge 7 genn. 1929, n. 5); analogamente dovette affrontare l’ancora più spinoso problema del giuramento dei professori universitari, scaturito da una proposta di Gentile a Mussolini del gennaio 1929, ripresa in marzo da Belluzzo e sfociata nel d.l. 28 ag. 1931, n. 1227: appena insediato al ministero, il G. si trovò di fronte a una lettera del duce (18 sett. 1929) che gli poneva “la questione della libertà o meno dell’insegnamento” (B. Mussolini, Opera omnia, XLI, p. 337) e lo stesso Mussolini esercitò personalmente la sua influenza sulla formulazione del giuramento, rifinita fino all’ultimo; si deve probabilmente al G. l’inserimento del richiamo esplicito al regime fascista nel testo (Charnitzky). Dovette, infine, gestire gli effetti del concordato nel mondo della scuola: il 14 marzo 1930, in un discorso alla Camera, offriva nuove assicurazioni sull’insegnamento della religione nella scuola media, ma mostrò in genere comprensione per le ragioni delle altre “confessioni ammesse” nel delicato problema del loro rapporto con l’insegnamento della “religione di Stato”.
Durante il periodo del suo ministero la carriera universitaria del G. conobbe l’avanzamento finale: il 1° nov. 1930 diventava titolare della cattedra di etica (creata appositamente per lui) all’Università di Bologna e dal 1° dic. 1931 era chiamato, su proposta di Gentile, alla medesima cattedra (anche questa istituita ad personam) nella Scuola di filosofia di Roma (facoltà di lettere). All’insegnamento il G. tornò nel 1932 (fino ad allora era stato solo titolare di cattedra, svolgendo unicamente attività politica), quando, il 10 luglio, cessò dall’incarico ministeriale, avendo come successore F. Ercole: non ripresentato al plebiscito del 25 marzo 1934, fu nominato senatore (1° marzo 1934). Nella vita della facoltà romana, di cui fu anche preside dal 1936 al 1940, si mosse in generale in sintonia con Gentile, ma si ha l’impressione che, col passare degli anni, abbia rivestito un ruolo più di notabile che di protagonista attivo della scena politica o accademica.
L’avvicinamento, e poi l’alleanza, fra Italia fascista e Germania nazista lo ricondusse alle meditazioni, su cui si era già esercitato durante la Grande Guerra, su Latinità e germanesimo (Bologna 1940) e non sembrò modificare di molto le idee allora espresse.
Ribadì, attraverso un esame tutto filosofico delle vicende storiche, la “fondamentale costitutiva differenza” fra le due mentalità (universale e spiritualistico-religiosa quella romano-italiana, rigidamente nazionale e legata a “un costituzionale fattore biologico di razza”, quella germanica), e la precedenza del fascismo italiano, da cui il nazionalsocialismo molto aveva appreso. Dalla lettura di questo libretto (in cui, fra l’altro, non compare neanche un cenno alla politica razziale e antisemita delle due potenze) sarebbe eccessivo ricavare l’immagine di un G. tiepido o contrario all’alleanza italo-tedesca; ma ne emerge sicuramente la consapevolezza (comune peraltro a diversi ambienti fascisti, idealisti e gentiliani) delle differenze di fondo fra la cultura e la mentalità del fascismo e quelle del nazionalsocialismo e quindi la necessità che il primo non abdicasse a favore del secondo al ruolo di costruttore della nuova Europa. Dopo Pearl Harbour, quando ormai si erano precisati gli schieramenti definitivi, il G. tornava sulla necessità di dare al conflitto una giustificazione ideologica (Una guerra chiarificatrice, in Nuova Antologia, 16 dic. 1941, poi in Conversazioni storiche, Bologna 1943, pp. 127-153). Nella Prefazione a quest’ultimo volume (pp. VII-XVIII), scritta negli ultimi mesi del regime, affiorano tuttavia i timori, le perplessità, la consapevolezza dei pericoli che ormai sovrastavano l’Italia.
Dopo l’8 sett. 1943, il G. si astenne, comunque, dall’aderire al nuovo fascismo e – come almeno ebbe a ricordare più volte in scritti giustificativi del periodo successivo all’occupazione alleata – resistette a tutte le richieste di collaborazione da parte delle autorità della Repubblica sociale italiana. Ciò nonostante, il 4 luglio 1944, a un mese dalla liberazione di Roma, il colonnello americano C. Poletti, capo della commissione affari civili del Governo militare alleato, ordinava l’immediato esonero del G. dall’insegnamento di filosofia morale (come si chiamava ora la sua cattedra). Il caso Giuliano veniva quindi affrontato dalla Commissione centrale per l’epurazione, che, il 29 dic. 1944, ne domandava la dispensa dal servizio: ma il G. preferì chiedere personalmente di essere collocato a riposo a decorrere dal 29 genn. 1945. Nel luglio 1948 il G., tuttavia, si decise a fare opposizione a tale provvedimento: il 16 dic. 1948 fu così reintegrato, il 1° nov. 1949 uscì di ruolo, il 10 maggio 1955 fu nominato emerito.
Intanto anche il suo percorso filosofico conosceva l’esito finale. Dopo la conclusione della guerra, ristampò Il valore degli ideali (Bologna 1946), con le modificazioni e gli adattamenti resi necessari dalla sua posizione, ormai di deciso teismo.
Ancora in quell’anno, in un intervento al II convegno di studi filosofici cristiani (Gallarate, 4-6 sett. 1946), ripercorreva la sua biografia filosofica: era stato in un primo momento sedotto dalle “vecchie ideologie della democrazia materialista” (fase socialista), poi si era fatto sacerdote della nuova “idolatria del soggetto umano” (idealismo filosofico); con “l’esperienza del fallimento delle idolatrie”, si era avviato alla fine “a risolvere la crisi del dramma nella risorgente Verità”, cioè nell’approdo alla religione rivelata (Il dramma delle moderne idolatrie, in Filosofia e cristianesimo, Milano 1947, pp. 204-220). Il G. morì a Roma il 13 giugno 1958.(fonte)
[2] Maria Mategazza, detta Pussy. Prof. Paolo Mantegazza, fisiologo e neurologo, deputato del Regno d’Italia, tra i primi divulgatori delle teorie darwiniane in Italia. 1891 – I1 13 febbraio gli muore la moglie Jacoba Tejada. Poco più di otto mesi dopo, il 3 novembre, sposa la contessa Maria Fantoni con la quale fece il viaggio di nozze in Spagna. Dalla contessa Fantoni ebbe la figlia Maria, detta Pussy. Pubblica Epicuro. Saggio di una fisiologia del bello (Milano, Treves); L’arte di prender moglie (Milano, Treves).(fonte)
Il prof. Paolo Mantegazza…Rimasto, però, improvvisamente vedovo, per non dover governare da solo i suoi tre figli, sposa in seconde nozze Maria Fantoni, una Contessa con la passione per il Teatro, autrice di testi, dalla quale ha una figlia, Maria, detta Pussy, che verrà coinvolta da sua madre, fin da bambina, come attrice, interprete di diversi ruoli, da protagonista, nelle sue commedie.(fonte)