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Franco, Bengasi 1922

    Franco, Bengasi 1922
    a
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    Bengasi li 7-3-1922

    Carissimo fratello,

    ò ricevuto la tua lettera e mi è molta rincresciuto d’essere stato
    ostretto a non poter risponderti prima, essendomi pervenuta la tua
    quando già il postale era partito.
    Ti meravigli che in Africa ci si ammali di malattie di petto!
    Veramente ciò per chi non è stato qui sembra un po’ strano, ma la  me=
    raviglia passa quando ci si è stati un po’. Io credo che clima come a
    questo ve ne siano pochi proprio; imagina grande calore e sole di
    giorno tanto d’aver l’impressione di essere in un forno crematorio,
    che verso il crepuscolo poi viene sostituito, da una umidità tale che
    sembra impossibile che ci possa essere qui in Africa.
    D’altronde, l’Africa della tua immaginazione non é questa e laddove
    la tua fantasia vede dei splendidi paesaggi, succedendosi gli uni a=
    gli altri, dall’immensità terrificante del deserto, alle splendide,
    meravigliose, lussureggianti foreste vergini del tropico, agli immen=
    si fiumi, agli impetuosi torrenti, formanti stupende cascate; a quei
    laghi immensi, a quelle paludi, a quei fertili campi che l’operosità del=
    l’indigeno riesce a far dare il riso e il caffè di qui abbisogna=
    no l’Africa insomma che tanta materia à per l’artista, nella quale la
    natura si rivela con tutti i suoi tesori, con tutte le sue bellezze,
    che ànno fatto sprezzar rischi e pericoli a tutta quella valorosis=
    sima schiera di arditi esploratori; sfortunatamente non è quella in
    cui io mi trovo attualmente.
    Tu mi dirai, grazie, lo sapevo-ò conoscenza anch’io della geografia e
    certe cose le posso sapere senza che tu me le dica -ma vedi alle
    volte si cade facilmente in inganno leggendo riviste e giornali,
    sicché ò creduto opportuno esprimerti tutto quel che penso.
    Vuoi un’idea della Cirenaica?=[1]
    Immagina unterritorio di un’estensione ragguardevole ma così brullo
    così squallido, che veramente fa un po’ schifo.
    Bengasi che ne è la capitale non presenta nulla di notevole, verso
    la marina dove v’è il palazzo del Governo, la palazzina del Governato
    re e altri edifici pubblici e militari, se non si dice, oh come è
    bello, non si dice però nemmeno, com’è brutto! Ma quando poi si è co=
    stretti ad attraversare il quartiere arabo, allora ciao patria.
    Strade strettissime, tortuoew, fatte li alla carlona, senza che l’e=
    stetica e un po’ di simmetria ci abbia messo un po’ il naso, dove le
    case si succedono le une alle altre; senza che via siano altre strade
    per recarsi in un altro posto, sicché titocca fare per lo meno 2 km.
    Santo Dio come si fa a distinguerle le une dalle altre?Buchi, fine=
    stre portine e porticelle che si susseguono le une alle altre, fa=
    tte con una architettura che non è quella bellissima, di cui i bei
    chioschi i superbi cortili mori, di Sicilia e Spagna ci fanno in
    cantare, ma un miscuglio, una tale brodaglia, che non
    se ne capisce, né capo né coda; tanto da  permettere a me che

    che sono un asino emerito in fatto di architettura, di poter criticare
    senza timore di sbagliare; da queste case poi ogni tanto sbucano sudi=
    ci laceri, in stato da fare ribbrezzi esseri che non meriterebbero
    d’esse chiamati umani. Avanzano, placidi calmi; distratti, con
    quell’apatia orientale anche così ostinata in essi, non vedendo
    del loro fisico che una parte del volto, del resto sembrano dei cenci
    ambulanti. Il tutto dà l’idea dello squallore e della miseria.
    Qualsiasi direzione si voglia prendere poi da Bengasi, si va
    sempre in contro a un territorio arido e brullo su delle
    alture, e sabbioso in piano, ogni tanti vi si trova un palme=
    to, o un aggruppamento di case che pomposamente loro chiamano
    paese, alle volte s’incontrano degli attendamenti ma dall’aspetto co-
    sì miseri che a vederli non si direbbe che vi abitassero degli uomini
    no. Ecco la Cirenaica, però in mezzo a tanto squallore come un sorriso
    sta Derna che giustamente chiamano il giardino della Cirenaica è
    circondato da ubertosi campi che possono un po’ gareggiare coi nostri
    e con la sua piccola corona di colline si fa riparo dal terribile ghi-
    bli del deserto.
    In altra occasione ti farò una descrizione un po’ più dettagliata
    adesso manca il tempo. Son contento che te la passi bene e sper
    ro sia sempre così. Io m’arrangio anche .
    In risposta alla tua prossima ti invierò una piccola raccolte di car
    toline artistiche e di tutti quei paesaggi che potranno un po’ inte=
    ressarti; e quando verrò in patria ti porterò qualcosa che certamente
    ti farà piacere riguardo a curiosità locali.

    Non ò altro da aggiungerti, spero che mi risponderai presto sono an=
    sioso di sapere tue notizie:

    Baci affettuosi tuo fratello

    Franco[2]

    Ringrazioti moltissimo per la fotografia mandatami,
    ne sono proprio contento, te ne manderò anch’io
    una mia non appena la farò.
    Ho scritto un po’ e un po’ a secondo che ne ho avuto il
    tempo e l’occasione. Pensami.


    Note

    [1]  Cirenaica. Con riconquista della Cirenaica si indica la parte finale della riconquista della Libia, e precisamente quel conflitto nella colonia tra le forze militari italiane e la resistenza libica che cominciò nel 1928, proseguì con un crescendo di azioni militari italiane contro la resistenza e terminò nel 1931 con la sconfitta della resistenza dei ribelli e la cattura ed impiccagione del capo della resistenza indigena Omar al-Mukhtar. La pacificazione venne portata avanti da parte italiana con ampio ricorso a stragi ed atrocità e comportò anche uccisioni di massa della popolazione indigena della Cirenaica – un quarto della popolazione della Cirenaica di 225.000 morì durante il conflitto. L’Italia commise numerosi ed efferati crimini di guerra durante il conflitto, quali l’uso di armi chimiche illegali, rifiuto di fare prigionieri di guerra giustiziando i combattenti arresi ed esecuzioni di massa di civili. Le autorità italiana attuarono una pulizia etnica espellendo forzatamente 100.000 arabi cirenaici (metà della popolazione della Cirenaica) dai loro insediamenti, che vennero assegnati a coloni italiani.

    Il contesto

    L’occupazione della Libia nell’autunno 1911 (prime operazioni belliche il 29 settembre, sbarchi a Tobruk il 4 ottobre e a Tripoli, il 5 ottobre) fu preceduta da una preparazione diplomatica pressoché perfetta e accompagnata da una grande mobilitazione dell’opinione pubblica italiana. Mancava però una preparazione politico-militare specifica, era convinzione diffusa che fosse necessario fronteggiare poche migliaia di soldati turchi, non la popolazione libica, la cui dura resistenza (esplosa il 23 ottobre nei combattimenti di Sciara Sciat, un quartiere di Tripoli) fu accolta con sorpresa. Il corpo di spedizione italiano fu portato rapidamente a 100.000 uomini, quasi la metà della forza di pace dell’esercito; ma si trattava di truppe di leva inadatte a muovere nel territorio desertico. L’occupazione italiana fu quindi limitata alla zona costiera.
    Il trattato di Ouchy (12 ottobre 1912), con cui la Turchia rinunciava all’amministrazione civile e militare sulle regioni libiche, non comportò la fine della resistenza. Fino al 1921 il dominio italiano era stato precario, e limitato ad una esigua fascia costiera, tanto che ancora nel 1922 si dovette iniziare una sorta di “riconquista della Libia”, e solo nel 1931 la resistenza dei ribelli fu definitivamente annientata.
    La riconquista iniziò nel luglio 1921 con l’arrivo del nuovo governatore Giuseppe Volpi. Volpi, supportato dal ministro delle Colonie, il liberale Giovanni Amendola, impresse subito una sterzata alle demoralizzate guarnigioni ormai abituate a vivere alla giornata. All’alba del 26 gennaio 1922, realizzando una sorpresa tattica, carabinieri, zaptié ed eritrei sbarcarono a Misurata Marittima, occupando la località; era l’inizio della svolta che in poco più di un anno si concluse con l’occupazione di tutta la Tripolitania.
    Negli anni seguenti il dominio italiano fu esteso con metodo e pazienza. Nel 1923-1925 fu raggiunto il controllo della Tripolitania settentrionale, poi quello delle regioni semidesertiche centrali. Tra il 1928 e il 1930 le truppe del generale Rodolfo Graziani occuparono le regioni meridionali, fino al Fezzan. Nel frattempo, i confini della colonia erano stati ridefiniti a favore dell’Italia con alcuni trattati bilaterali, quali la delimitazione del confine libico egiziano, con la cessione dell’Oasi di Giarabub (Trattato del Cairo del 6 dicembre 1925), oltre al triangolo settentrionale del Sudan Anglo-Egiziano a sud della Libia Italiana ceduto nel 1926.

    Le operazioni in Cirenaica

    La Tripolitania era di nuovo sotto controllo italiano, ma restava il problema dell’immensa ed arida Cirenaica. Il 1º febbraio 1926 la sfida contro il deserto fu raccolta a Giarabub: dopo una marcia sfibrante gli italiani raggiunsero l’oasi sbalordendo il locale capo senussita, che si sottomise spontaneamente.

    In Cirenaica i successi italiani incontrarono difficoltà impreviste. Le ricorrenti rivalità tra le tribù seminomadi della Tripolitania e l’assoluto dominio dell’aviazione italiana nei grandi spazi desertici avevano facilitato la conquista italiana; anche le regioni desertiche della Cirenaica furono occupate senza altre difficoltà che quelle logistiche tra il 1926 (oasi di Giarabub) e il 1931 (oasi di Cufra). Invece il Gebel al Akhdar (“la montagna verde”), l’altipiano che si innalza fino a mille metri quasi a picco sul Mediterraneo, per poi digradare lentamente verso il deserto, offriva un terreno rotto e ricco di boscaglie, grande quasi come la Sicilia, che si prestava alla guerriglia perché la ricognizione aerea e i mezzi motorizzati perdevano efficacia. La Cirenaica aveva circa 200.000 abitanti, di cui poco meno della metà era la popolazione sedentaria della stretta fascia costiera, 100.000 allevatori seminomadi sul Gebel e alcune migliaia nelle oasi sparse nel deserto. Il Gebel cirenaico era retto dalla Senussia, un movimento fondamentalista islamico nato nella prima metà dell’Ottocento che aveva esteso la sua influenza a regioni semidesertiche come la Cirenaica, l’Egitto occidentale, il Sahara orientale. La civiltà islamica non conosce distinzioni tra religione e politica, le zauie senussite sul Gebel e nelle oasi erano centri di culto e di studio coranico che gestivano la vita delle tribù seminomadi e i loro commerci con l’Egitto, amministravano la giustizia e percepivano le imposte, organizzavano le spedizioni militari e tenevano i rapporti con le potenze coloniali. Dinanzi all’invasione italiana la Senussia tenne un comportamento lineare: era disposta a riconoscere agli italiani (come già ai turchi) una sovranità puramente nominale e il controllo della stretta fascia costiera, a patto che non venisse intaccato il suo dominio del Gebel e delle regioni desertiche. Il governo italiano, che aveva già abbastanza problemi in Tripolitania, accettò di fatto questa spartizione e con gli accordi del 1920-21 riconobbe a Mohammed Idris il titolo di emiro di inequivocabile rilievo politico (anche se le fonti italiane dell’epoca definirono la Senussia come una confraternita, accentuandone il carattere religioso).(fonte)

    [2] Franco (Francesco) Di Pasquale. Si tratta del fratello di  Alfonso Di Pasquale.

    Alfonso Di Pasquale rimasto orfano all’età di sette anni, cresce in condizioni di precarietà economica. Nel 1917 viene arruolato in artiglieria ed assiste alla disfatta di Caporetto. Notato per la sua abilità nel disegno, viene incaricato di disegnare le tavole di tiro. Dopo aver combattuto sul Piave (era uno dei ragazzi del ’99) si trasferisce a Roma, dove viene assunto come disegnatore tecnico nel Servizio Geologico del Ministero dell’Agricoltura. Contemporaneamente si dedica all’attività artistica e si diploma all’Accademia di Belle Arti di Roma e la sua attività, iniziata all’inizio degli anni ’20 si protrae per mezzo secolo. Di Pasquale inizia così un’attività artistica che porterà a un ampio curriculum di mostre, dalle Quadriennali di Roma, al Premio Michetti, collaborando con riviste d’arte. Diventa consulente, critico d’arte e illustratore di periodici. Chiamato a periziare un quadro di Giorgio De Chirico, avrà occasione di conoscere e frequentare il grande pittore, che ne apprezza la capacità di dare alla sua pittura ad olio la luminosità dell’acquarello. Intanto, l’artista ha sposato la moglie Incoronata, originaria di Lavello: e la cittadina lucana rimarrà soggetto ricorrente dei suoi quadri. Di matrice figurativa realista, trova i suoi momenti migliori nei paesaggi, nei ritratti e nelle scene di vita quotidiana. Alla sua morte ha lasciato il corpus delle sue opere alla città di Andria.(fonte)
    Alfonso Di Pasquale (1899-1987) è un personaggio della cultura del Novecento italiano che incarna la fusione tra due forme di raffigurazione del territorio: l’espressione artistica tramite la pittura paesaggista e la rappresentazione scientificotecnica nella cartografia geologica. Due modalità diverse di ricondurre la visione tridimensionale della realtà ad una proiezione in due dimensioni. Appassionato di pittura sin dall’infanzia, fu funzionario pubblico, lavorando per oltre quaranta anni con qualifica di disegnatore presso il Regio Ufficio Geologico (poi Servizio Geologico d’Italia). In parallelo egli condusse però una carriera artistica che gli valse numerosi riconoscimenti. In questa nota si ripercorre la vicenda umana, professionale e pittorica del Di Pasquale, comparando per ciascun periodo la produzione artistica e i contributi cartografici. Un altro tassello a comporre il mosaico della storia della geologia italiana del XX secolo, di cui Alfonso fa parte a pieno titolo. Da L’artista della cartografia geologica: Alfonso Di Pasquale, pittore e disegnatore. Di Alessio Argentieri (fonte)