REALE ACCADEMIA D’ITALIA
IL CANCELLIERE
20/IV/1935/XIII
Carissimo, grazie dell’ultima
tua. -Io partirò a fin settimana per
l’estero con un incarico simpatico per un
mesetto (Bucarest – Costantinopoli – Atene).
Ti raccomando molto di accelerare la faccenda
Lazzaroni, davvero ignobile. – Se vuoi conoscere
quale retroscena anche femminile degli accusa=
tori chiama riservatamente mio fratello Michele
Marpicati -Stabilimento Incisa – Lissone (Milano)
e saprai la verità. – Del resto risolta la pendenza
Lazzaroni, e fatto il podestà (se merita lo stesso Faroni),
vedrai che i due o tre mestatori Milesi, Simoncelli,
si rassegneranno e la borgata sarà come
sempre ordinata e pacificata. – Tu mi
conosci e sai ch’io non dico, e non direi a te,
mai una cosa per un’altra. Ieri ho avuto una
lettera anonima (stesse fonti “memoriale”) in cui è
detto che “dopo Marpicati, se m’è andato Vicari, e poi
Salerno” – Miserie di paese: ma se suonate
di istigatori della ragazza svergognata e venale
che denunciò Lazzaroni; e gli estensori del memoria=
letto (complice un’impiegata già o ancora amante
“notoriamente” di un ex-segretario comunale) dateci
testa. Lo meritano – E io non dirò più parola.- Tante
cose affettuose, tuo Marpicati[1]
a matita LU 320
Note
[1] Arturo Marpicati – Nacque a Ghedi, nella Bassa bresciana, il 9 nov. 1891, da Bortolo e da Matilde Guerreschi, primo di cinque figli.
La famiglia (al M. seguirono, nell’ordine, Edvige, Angelo, Giovanni e Michele), dapprima benestante, si era trovata in ristrettezze economiche e Bortolo, con la sua attività di falegname, riusciva appena a sopperire ai bisogni. Lo stesso M., sentendosi investito della primogenitura, fin da ragazzo si impegnò per contribuire al bilancio. Fu tuttavia un’infanzia serena, quella del M., «di lavori in cui si alternavano la fatica ed il divertimento; di avventurose perlustrazioni nelle lame paludose, terre del mistero popolate, nella fantasia dei fanciulli, di mostri e di insidie, di pericoli e di tentazioni paurose ma allettanti» (Botturi Bonini, p. 14).
Agli studi elementari, sotto la guida di L. Bonardi, seguirono gli anni di formazione trascorsi nel seminario di Brescia, caratterizzati da intense letture che, se ampliarono una cultura umanistica vasta e «non sempre canonica» (ibid.), contribuirono al formarsi di un’intelligenza dalla sensibilità affatto personale, protesa verso il contemporaneo e tale da misurarsi con le prime prove poetiche. Studente-lavoratore, il M., negli anni del liceo, fu prefetto presso il pensionato scolastico Umberto I di Brescia, presentandosi agli esami, non senza difficoltà, come privatista (A. Marpicati, Bocciato in matematica, in Id., Quando fa sereno, Milano 1937, pp. 79-90; poi nuova ed., Sole su le vecchie strade, Torino 1956).
Per intercessione del padre scolopio G. Manni, si trasferì a Firenze, dove si sostentò con un posto di ripetitore di doposcuola e, superata finalmente a Brescia nel giugno del 1913 la prova ancora pendente della maturità, poté iscriversi all’Istituto di studi superiori fiorentino. Qui, oltre agli eccellenti maestri e alle frequentazioni accademiche (fra cui G. Mazzoni, G. Vitelli, E.G. Parodi, G. Salvemini e P. Rajna, con il quale si laureò nel luglio 1918 discutendo una tesi sulla «Questione della lingua nel Cinque-Seicento»), ottenne – sempre per interessamento di Manni – un posto di precettore presso la famiglia dei conti Cosimo ed Editta Rucellai, cui rimase sempre legato da sentimenti di riconoscenza e amore filiale.
Interventista della prima ora e nazionalista convinto, allo scoppio della prima guerra mondiale il M. partì volontario. Presto, tuttavia, l’afflato idealistico e tardorisorgimentale che lo accomunava a una generazione di giovani (fra i più prossimi a lui vi erano G. Prezzolini e G. Borsi, che lo stesso M. contribuì a riconciliare) si tramutò in amarezza e disillusione: il senso della «vittoria dimezzata» emerge a chiare lettere in un romanzo, uscito a distanza di qualche anno dal termine del conflitto: La coda di Minosse (Milano 1925, e successive edizioni), in cui sono rievocati, seppur trasposti in terza persona, episodi autobiografici.
Il libro, «più antidannunziano, voglio dire più antiletterario che si possa immaginare» (A. Marpicati, Gabriele d’Annunzio e l’epoca del Vittoriale (da epistolari inediti), in Quaderni dannunziani, XII-XIII [1958], p. 210), dopo aver ottenuto consenso e larga circolazione, cadde in oblio. Ingiustamente dimenticato costituisce un tassello, secondario senz’altro ma prezioso, nell’economia degli studi sulla letteratura della Grande Guerra: tanto più giova sottolinearlo dal momento che – da un punto di vista storico-letterario – ci troviamo innanzi a un cerchio chiuso, a un codice («Il rito dell’innocenza è sommerso» sigillerà magistralmente in un verso W.B. Yeats; e il M. «Noi, vincendo le battaglie – Noi siamo i vinti, sempre», Salmo disperato, in Id., Liriche di guerra, Bologna 1935, p. 65), uno di quei temi per cui tutti stanno scrivendo la stessa cosa, se pure apparentemente pensando ad altro: un’esperienza sconvolgente, in cui per la prima volta si palesa il dominio della tecnica e la centralità dell’industria sui ritmi della Natura, che deve essere raccontata e scritta, prim’ancora che per un bisogno letterario, data la sua matrice universalistica, come esigenza morale e di testimonianza (e lo stesso avverrà, per esempio, per la guerra di Spagna – si pensi ad A. Malraux, A. Koestler, E. Hemingway, G. Bernanos – e per la letteratura concentrazionaria).
All’opacità dell’azione, nei resoconti, spesso corrisponde la lividezza dell’istante: incarcerato e processato per «abuso d’autorità», dopo aver malmenato un piantone che si era addormentato in un posto di guardia ostacolando il flusso del traffico su un ponte, si può dire che il M. attraversi dalla vicenda giudiziaria il territorio della guerra, fatto di miseria e onore, vigliaccheria ed eroismo, giungendo nell’ultimo capitolo – intitolato «Commentario della ritirata di Caporetto» – a un contr’altare possibile, riunito in chiave diaristica, della Rivolta dei santi maledetti (1921) del ben più celebre C. Malaparte [E. Suckert]. Se in Malaparte gli «eroi italiani si legittimano come eroi contro, strappi alla tradizione, all’inerzia della storia e del costume», e questi è «abilissimo nel tenersi in bilico sul filo acrobatico dei concetti pericolosi, delle antifrasi seducenti» (M. Biondi, Introduzione, in C. Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Firenze 1995, pp. 24 s.), il M. viceversa – come P. Jahier – filma gli eventi dal basso, attento in particolare all’identità, registrando le diverse specificità «regionali ed espressioni dialettali che la naja sottopone a contatto e a rifusione» (Isnenghi, p. 410).
E all’esperienza della guerra – insieme con La coda di Minosse – devono essere ricondotte alcune fra le prove migliori del M.: a far tempo da Liriche di guerra (Firenze 1918; Milano 1919; Bologna 1935), passando per i Ritratti e racconti di guerra (Bologna 1932) fino a … e allora non dimenticateci: diari e racconti della guerra 1915-18 (Torino 1961). Le Liriche di guerra, in particolare, furono non solo elogiate da B. Mussolini (Il Giornale del mattino, 22 maggio 1918; poi in Scritti e discorsi di Benito Mussolini, I, Dall’intervento al fascismo [15 nov. 1914 – 23 marzo 1919], Milano 1934, p. 314), ma dettero modo al M. di collaborare a Il Popolo d’Italia e di conoscere il futuro duce.
Nell’ottobre del 1918, mentre era in licenza a Roma, il M. ebbe modo di conoscere, fra gli altri, L. Pirandello, F. Tozzi e O. Vergani. Direttore de La Gazzetta del mitragliere durante la smobilitazione, dopo aver superato i relativi concorsi il M. si trasferì quindi a Fiume, insegnando dapprima all’istituto tecnico Leonardo da Vinci, quindi al liceo classico Dante Alighieri. Fu in tale occasione che conobbe L. Russo.
«Li legò poi negli anni una reciproca simpatia; le loro relazioni furono assai cordiali, mantenendosi immutate anche quando i due vecchi compagni di concorso presero strade politiche assai diverse: come ebbe a scrivere Luigi Russo “il baco delle Muse è speciale. Esso è perfin capace di ammazzare il bacillo fascista”» (in Botturi Bonini, p. 18).
A Fiume ricevette l’incarico di consegnare a G. D’Annunzio, a Venezia, un messaggio del Consiglio nazionale della città ch’era la «consacrazione del legame che doveva unire in eterno Fiume all’Italia» (Alatri, p. 412).
Ricevuto nella Casa rossa sul Canal Grande il 7 apr. 1919 (tuttavia, lo stesso M., in luogo diverso, afferma trattarsi dell’8 aprile), l’incontro con il poeta-soldato si rivelò decisivo per il M., poi ribattezzato Artù, come l’antico re cavaliere, «per la sua prodezza e per la sua lealtà» (dedica su una copia dell’Alcyone per mano del poeta: Roma, Arch. Marpicati): un’affettuosa consuetudine, quella con D’Annunzio, cui posero fine le esequie solenni del poeta a Gardone alle quali il M. avrebbe partecipato in veste ufficiale, il 3 marzo 1938 (v. comunque: A. Marpicati, Il mio primo incontro con Gabriele d’Annunzio, in L’Italia che scrive, XVII [1934], 6, p. 164).
Nel «Natale di sangue», che conchiuse l’avventura fiumana, il M. si trovò a giocare un ruolo particolare, quando divenne chiaro che Mussolini non aveva alcuna intenzione di impegnarsi in quella che era ormai la disperata causa dannunziana. Firmato il trattato di Rapallo tra Italia e Iugoslavia il 12 dic. 1920, D’Annunzio, dopo aver proclamato in risposta lo stato di guerra, inviò a Milano il M. in un estremo, disperato tentativo di richiesta di aiuto a Mussolini.
Il M. raggiunse Milano in abiti borghesi e con mezzi di fortuna, attraversando clandestinamente Fiume cinta d’assedio e recando con sé la perentoria missiva del «vate» (A Benito Mussolini. Per le mani del capitano A. M., in cui si legge: «Il capitano Marpicati ti dirà. Qui si preparano a consumare il delitto. Sei tu pronto co’ tuoi ad invadere le Prefetture? Ad assaltare le Questure?»). Mussolini andò su tutte le furie: «“Quel tuo poeta è grande, ma è pazzo! Noi i questurini li abbiamo alle costole giorno e notte […] e ci arresteranno tutti da un momento all’altro”» (cfr. A. Marpicati, Gabriele d’Annunzio e l’epoca del Vittoriale…, cit., pp. 207-222, con riferimento p. 208). Sempre per il tramite di D’Annunzio il M., nella seconda metà degli anni Venti, conobbe il pittore G.A. Sartorio, cui rimase legato da una profonda amicizia.
Dopo l’esperienza fiumana il M. si era presto accostato al fascismo, compiendo una rapida carriera politica: già segretario federale di Fiume (24 maggio 1928 – 6 genn. 1930), fu poi vicesegretario del Partito nazionale fascista (PNF, 12 dic. 1931 – 24 dic. 1934).
In tali vesti presenziò all’incontro tenutosi al Vittoriale fra D’Annunzio e Mussolini il 1° nov. 1932. Malgrado si trattasse di un colloquio privato, non è improbabile che la discussione vertesse sullo scacchiere europeo, alla luce di quanto accaduto in Germania (H. Göring era stato eletto presidente del Reichstag il 30 agosto), desiderando Mussolini sondare il poeta, notoriamente filofrancese e decisamente avverso all’ascesa di A. Hitler (cfr. Salierno, pp. 155 s.). Il M. rievocò l’incontro fra i due grandi rivali, «ridivenuti amici, ma sempre sospettosi e gelosi l’un dell’altro», in Con Mussolini e con d’Annunzio al Vittoriale, in Quaderni dannunziani, XX-XXI (1961), pp. 876-881, con riferimento p. 879.
Tuttavia, «troppo onesto e, sebbene avveduto, indipendente, per poter accomodarsi» (Prezzolini, p. 13), il M., restio ad assecondare taluni indirizzi del governo e appartenente all’ala minoritaria, sfavorevole a una più stretta intesa con la Germania, nel 1934 fu allontanato dalla carica di vicesegretario, per essere messo definitivamente ai margini della vita del partito allorquando si schierò, fra l’altro, in favore di G. Lombardo Radice, ingiustamente perseguitato. La nomina al Consiglio di Stato (giugno 1938) segnò così il «prepensionamento» politico: la contropartita per essere stato esautorato dalle cariche, fra cui, in particolare, il Gran Consiglio (di cui era stato membro dal gennaio 1932 al dicembre 1934). Dal 1929 al 1938 fu inoltre cancelliere della R. Accademia d’Italia, da cui tuttavia non venne mai accolto come membro effettivo per la malcelata ostilità di alcuni esponenti del regime.
Se nel 1930, d’accordo con Russo, aveva appoggiato la osteggiata candidatura di A. Momigliano alla cattedra di letteratura italiana presso l’Università di Milano, il M. fu mentore e vicino a Pirandello, ambiguamente legato al fascismo e riparato in Francia, che gli chiedeva di intercedere presso Mussolini cui, testualmente, si dichiarava «con tutto il cuore fedele e devotissimo», proseguendo poi: «Nessuno meglio di te glielo può dire. E fagli sapere che io non sono per astio né per piacere fuori del mio Paese, ma perché, escluso da tutti i teatri italiani, escluso dalla società degli Autori […], sono costretto a guadagnarmi da vivere all’estero […]; se non mi rappresentano più neanche all’estero, muoio di fame» (lettera di L. Pirandello al M., Parigi, 6 febbr. 1932: Roma, Arch. Marpicati).
Conseguita nel 1934 la libera docenza, il M. aveva ottenuto un incarico per l’insegnamento di lingua e letteratura italiana presso l’Università di Roma. Considerato fin dalla fine degli anni Venti «giornalista e scrittore letterario assai versatile» (Pellizzi, p. 28), al M. – innamorato della sua terra ma fiumano d’elezione – si devono l’itinerario adriatico Piccolo romanzo di una vela (Milano 1922), diario di una crociera fra Fiume, Venezia e Zara a bordo del cutter «Felice Stocco», nonché Abbazia. Ozi e diporti sul Carnaro (Bologna 1931), sorta di Baedeker impreziosito da immagini d’epoca. All’inchiostro del narratore si mescolò, negli anni, quello del saggista letterato, d’occasione o politico, anche se gli esiti più felici della sua produzione sono da ricercarsi entro un arco di compasso ristretto, nelle rievocazioni di volti e luoghi familiari nel tempo.
Una parte degli scritti del M. può limitarsi a documento e testimonianza di un’epoca: si veda in particolare Nella vita del mio tempo (Bologna 1934), che riunisce una serie di interventi e discorsi (fra cui, tuttavia, spicca l’ancora attuale Leggere: «Si vuole poi che in Italia si legga meno che altrove […]. Ma avviene però a molti di assaggiarli soltanto, questi libri intonati alle nostre necessità odierne, piluccando qua e là […]. Cosicché i più ne parlano poi senza averne letto una pagina», p. 217); nonché Fondamenti ideali e storici del fascismo (ibid. 1931); Opere del regime (Roma 1934); Il partito fascista: origine, sviluppo, funzioni (Milano 1935); Uomini e fatti del mio tempo (Torino 1942); e ancora: La R. Accademia d’Italia con particolare riferimento alla classe di lettere (Budapest 1931) e L’Accademia d’Italia (Milano 1934). Allo studioso, attento in particolare all’osmosi fra letteratura e politica con ciò che ne precede e quel che consegue, si devono i Saggi di letteratura (Firenze 1931), Passione politica in Giosuè Carducci (Bologna 1935) e gli ancor validi contributi su U. Foscolo (Liriche, prose letterarie scelte, Palermo 1926; Il dramma politico di Ugo Foscolo, Bologna 1934; Lettere inedite di Ugo Foscolo a Marzia Martinengo, Firenze 1939; Dante e il Foscolo, Roma 1939; Il Foscolo e l’Alfieri, Asti 1942).
Fu inoltre, nel marzo 1923, fra i fondatori a Fiume della rivista Delta e collaboratore dell’Enciclopedia Italiana, di Civiltà fascista, del rammentato Popolo d’Italia, del Corriere della sera, di Nuova Antologia e della Revue hebdomadaire (vedi Annunzio [sic] et le livre d’Alcyon, ibid., XLIII [1934], 45, pp. 172-187).
Richiamato allo scoppio del secondo conflitto mondiale con i gradi di tenente colonnello di stato maggiore presso il comando della 4ª armata sulle Alpi e in Francia, alla fine del 1943, non aderì alla Repubblica di Salò e riuscì a riparare fortunosamente a Castelgandolfo. Nel primo dopoguerra uscì assolto da diversi processi, avendo i giudici riscontrato «i segni manifesti della bontà, dell’onestà e del coraggio messi sempre a servizio delle giuste cause, e non poche volte in difesa di uomini di cultura e professori perseguitati dal fascismo perché non sufficientemente conformisti» (Roma, Arch. Marpicati). Riaccolto al Consiglio di Stato nei primi anni Cinquanta, dedicò gli ultimi tempi agli otia letterari.
Colto da improvviso malore mentre si trovava in vacanza, il M. fu ricoverato nell’ospedale di Belluno, dove morì l’11 ag. 1961.
Si era sposato a Fiume il 2 sett. 1922 con Maria Antonietta Lado, da cui ebbe i figli Guido e Nyla.(fonte)