Vai al contenuto

Antonio D’Ancona, 1960

    Antonio D'Ancona, 1960
    « di 2 »

    ASS. NE NAZ. LE VENEZIA GIULIA E DALMAZIA[1]

    Retro

    A.N.V.G.D. – Comitato Provinciale di Roma

    TESSERA DI SOCIO

    N° 10211    ANNO 1960

    rilasciata a D’ANCONA ANTONIO[2]

    esule da Fiume

    IL PRESIDENTE NAZIONALE
    (Com.te Libero Sauro)[3]

    EFFETTIVO

    LABOR – ROMA


    Note

    [1]L’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD) è un’associazione italiana di esuli dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.
    Storia
    In base alle informazioni del sito web di tale organismo la costituzione risale al 1947 a Milano. Secondo Mario de Vidovich, esule da Zara, fu fondata a Roma il 20 giugno 1948 con la partecipazione di ottanta comitati provinciali di esuli istriani, fiumani e dalmati già attivi nelle singole realtà locali.

    All’inizio le associazioni di profughi erano tante e diversificate. L’ANGVD fu l’unica a strutturarsi a livello nazionale, caratterizzandosi fin dall’inizio per una spiccata fede religiosa ed un impegno ideologico apartitico. Secondo le ricerche archivistiche di Silvia Arrigoni nella sede nazionale dell’ANVGD, a Roma: “Nel 1948 questo insieme variegato di profughi si denominava Comitato Nazionale per la Venezia Giulia e Zara.

    Si trasformò in Associazione Nazionale per la Venezia Giulia e Zara, per assumere poi definitivamente il nome attuale, ovvero Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Nel febbraio 1947 si era tenuta un’assemblea a Bologna, la prima, che cercava di dare un corpo unitario alle organizzazioni sorte in Italia. Era evidente a tutti che soltanto un’organizzazione unita, compatta e forte avrebbe potuto conseguire dei risultati ed avrebbe potuto far sentire la propria voce presso i numerosi interlocutori governativi cui l’Associazione doveva rivolgersi se intendeva perseguire gli obiettivi che si era posta”.

    Nel 2013 scrive Paolo Scandaletti: A seguito del pieno rientro di Trieste in Italia, ma con la rinuncia al restante territorio, nel 1954 si verifica la scissione dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), accusata dall’interno di essere filogovernativa. Ne escono quasi in trentamila, circa un terzo degli iscritti, e nasce l’Unione degli Istriani.

    Soci

    Possono associarsi gli esuli, i familiari e i simpatizzanti. Per aiutare i profughi, dal 1945, esistevano varie organizzazioni che aderirono poi all’ANVGD. La più nota era il Comitato Nazionale per la Venezia Giulia e Zara.

    La prima e la seconda generazione degli esuli istriani, fiumani e dalmati in tutta Italia collaborano e si confrontano per fare emergere quella pagina di storia italiana negata per decenni, a causa di motivi di politica internazionale. Ne consegue anche la battaglia quotidiana per il mantenimento dei valori culturali e tradizionali di quelle terre a cui sono stati strappati, agevolata dalla Legge 92/2004 di istituzione del Giorno del Ricordo che ogni 10 febbraio riporta sotto i riflettori quei dolorosi eventi.

    Nel contempo si rafforzano anche i valori di identità nazionale a cui gli esuli istriani, fiumani e dalmati sono legati. Ciò fa del Giorno del Ricordo un momento di riflessione per tutta la nazione, in cui le parole foibe ed esodo istriano, fiumano e dalmata vengono ravvivate nel loro significato più drammaticamente profondo, ma nel contempo in una fiduciosa prospettiva per il futuro.

    Presidenti

    Alla presidenza dell’ANVGD, nel 1948, fu chiamato il padre dott. Alfonso Orlini, da Cherso. I presidenti succedutisi da allora sono: Elio Bracco, Libero Sauro, Maurizio Mandel, Paolo Barbi, Gianni Bartoli, Lucio Toth, Antonio Ballarin e Renzo Codarin.(fonte)

    L’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, fondata nel 1947, è la maggiore rappresentante sul territorio nazionale degli italiani fuggiti dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia al termine della Seconda guerra mondiale sotto la spinta della pulizia etnica delle milizie jugoslave e lo spettro delle foibe; ne derivò l’esodo di 350.000 persone di ogni ceto sociale e la morte violenta di migliaia di innocenti nelle foibe. A 60 anni da quegli eventi, prima e seconda generazione degli Esuli istriani, fiumani e dalmati in tutta Italia collaborano e si confrontano per il riaffioramento di quella pagina di storia italiana negata per decenni per motivi di politica internazionale. Ne consegue anche la battaglia quotidiana per il mantenimento dei valori culturali e tradizionali di quelle terre a cui sono stati strappati, agevolata dalla Legge 92/2004 di istituzione del Giorno del Ricordo che ogni 10 febbraio riporta sotto i riflettori quei dolorosi eventi ma nel contempo anche i valori di identità nazionale a cui gli Esuli istriani, fiumani e dalmati sono legati, e fa del Giorno del Ricordo un momento di riflessione per tutta la Nazione, in cui le parole foibe ed esodo istriano, fiumano e dalmata vengono ravvivate nel loro significato più drammaticamente profondo ma nel contempo in una fiduciosa prospettiva per il futuro.

    La nostra Storia

    L’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia è la prima associazione a carattere nazionale, sorta nel 1947, con lo scopo di raccordare e organizzare le decine di migliaia di profughi – italiani autoctoni – provenienti dai territori della Venezia Giulia e della Dalmazia che il Trattato di pace del 10 febbraio 1947 aveva ceduto alla ex Jugoslavia o assegnato alla Zona B del mai costituito Territorio Libero di Trieste. La sua sede è sempre rimasta a Roma, per la necessità di un rapporto costante con il Parlamento, il governo e le amministrazioni centrali dello Stato.
    Riorganizzata con l’atto costitutivo del 7 giugno 1956, l’Associazione ha conservato nei decenni la sua estensione a tutto il territorio nazionale, essendo nati i diversi Comitati dalle comunità di Esuli ospitati prima nei campi-profughi e poi nei «Villaggi» giuliano-dalmati costruiti in diverse città italiane in esecuzione di un programma speciale di edilizia popolare.
    In quanto Associazione di carattere privato, si assumeva il compito di mantenere uniti su base volontaria gli esuli dai territori perduti attraverso le attività assistenziali e culturali dei Comitati locali, la celebrazione delle festività civili e religiose, la partecipazione e l’organizzazione di convegni di studio, conferenze, ecc., in stretta collaborazione con le amministrazioni dello Stato, gli enti locali, le università e le scuole, le associazioni combattentistiche e d’arma e le istituzioni culturali. Le iniziative dell’Associazione hanno portato un contributo determinante nel campo dei provvedimenti legislativi adottati dal Parlamento italiano per risolvere i problemi dell’esodo giuliano-dalmata, dalle leggi per l’edilizia popolare a quelle per l’indennizzo dei beni perduti nei territori ceduti (con il cui corrispettivo l’Italia ha pagato i danni dovuti alla ex Jugoslavia in forza del Trattato di pace). Per oltre 50 anni ha operato in questo senso l’Ufficio Assistenza diretto da Padre Flaminio Rocchi OFM.

    La natura apolitica e apartitica dell’Associazione è stata il presupposto essenziale della considerazione di cui tutt’ora gode. Di fatti, sin dall’Istituzione del Giorno del Ricordo, i rappresentanti dell’ANVGD partecipano alla cerimonia solenne del 10 febbraio a Roma a fianco di quelli della Federazione degli Esuli, di cui è co-fondatrice. 

    L’ANVGD si schiera contro ogni lettura ideologica della storia; tale impegno è evidente dalla sinergia instaurata negli anni con il Ministero dell’Istruzione con il quale si impegna nella divulgazione scolastica e nella formazione dei docenti: scuolaeconfineorientale.it costituisce da anni un punto di riferimento per meglio inquadrare la prospettiva dell’Esodo istriano, fiumano e dalmata.

    La Struttura

    La struttura della ANVGD si articola in Comitati Provinciali e  Delegazioni, esistenti in 16 regioni italiane (Sardegna, Campania, Abruzzo, Lazio, Toscana, Marche, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Piemonte, Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Sicilia, Puglia), con oltre 8.000 iscritti.
    Hanno ricoperto la carica di Presidente nazionale:
    l’on. Lino Drabeni, ex comandante partigiano nell’Italia del Nord, esule da Zara;
    Padre Alfonso Orlini, Ministro Generale dei Frati Minori Conventuali, esule da Lussino;
    Comm. Fulvio Bracco, industriale, nativo di Cherso;
    Com.te Libero Sauro, istriano, figlio della Medaglia d’oro;
    l’on. Gianni Bartoli, istriano, ex sindaco di Trieste negli anni del Governo Militare Alleato e del ritorno della città all’Italia;
    l’on. Paolo Barbi, di famiglia dalmata, più volte Sottosegretario;
    il sen. Lucio Toth, magistrato, esule da Zara;
    il dott. Antonio Ballarin, poi presidente della Federazione
    il Cav. Renzo Codarin, attualmente in carica

    Dopo la dissoluzione della ex Jugoslavia l’ANVGD ha incrementato notevolmente la sua attività culturale, ponendosi come obiettivi:
    – far conoscere all’opinione pubblica italiana le vicende del confine orientale italiano e della contigua area balcanica, non solo nel Novecento ma anche nei secoli precedenti;
    – sensibilizzare i media e la stessa opinione pubblica sull’importante ruolo politico, culturale ed economico che il Sud-Est europeo riveste per il nostro Paese in questa fase di assestamento geopolitico e di avvicinamento degli Stati dell’area all’Unione Europea;
    – risvegliare negli italiani il senso dell’identità e dell’unità nazionale;
    – aiutare i connazionali rimasti nelle terre di origine a difendere la loro lingua e le tradizioni italiane. A tale scopo sempre più frequenti si sono fatti i contatti con l’Unione Italiana, che rappresenta le comunità italiane tuttora residenti nei territori appartenenti alle Repubbliche di Slovenia, Croazia e Montenegro. (fonte)

    [2] Antonio D’Ancona. Importante fotografo di Fiume (Rijeka). In piazza Andrassy aveva lo studio fotografico. Era il padre dell’ingegnere Enrico D’Ancona che realizzò importanti opere di urbanistica, in particolare a Roma (quartiere Monteverde).

    [3] Com.te Libero Sauro, istriano, figlio terzogenito della Medaglia d’oro Nazario Sauro;

    Nazario Sauro. – Nacque a Capodistria, in territorio dell’Impero austro-ungarico, il 20 settembre 1880, primogenito di Giacomo (nato nel 1852), marittimo di origini romane, e di Anna Depangher (nata nel 1857). La sorella Maria nacque nel 1883 in Francia, dove la famiglia si era trasferita da due anni, prima del rientro a Capodistria nel 1886. Dal padre, che gestiva anche uno stabilimento balneare, Nazario assorbì una precoce passione per il mare, che presto andò a sostituire le modeste prestazioni scolastiche al ginnasio locale. Nel 1901 sposò Caterina Steffè, dalla quale ebbe cinque figli: Nino, Anita, Libero, Italo, Albania. La scelta di «nomi di libertà», come scrisse nell’ultima lettera al figlio Nino, rispecchiava la sua fede patriottica e un’adesione all’irredentismo permeata di suggestioni mazziniane e garibaldine, testimoniate anche da un prolungato impegno a favore della causa dell’indipendenza albanese tra il 1908 e il 1913.

    Iscrittosi alla Scuola nautica di Trieste, ottenne il 29 dicembre 1904 la patente di diploma di direttore al grande cabotaggio: iniziò così a svolgere il lavoro di navigazione nella marina mercantile austriaca e di trasporto passeggeri lungo la costa orientale dell’Adriatico. In quegli anni si consolidarono le idee irredentiste e il sentimento di italianità, che Sauro coltivò attraverso il culto dei grandi artefici del Risorgimento – in primis Mazzini e Garibaldi – e soprattutto di Dante Alighieri. Fece parte della comitiva di giuliani, istriani e dalmati (i quattro piroscafi imbarcarono circa 600 persone) che nel settembre del 1908 si recò in pellegrinaggio a Ravenna alla tomba del Poeta, in occasione della cerimonia di consegna della lampada votiva (inviata da Firenze) e dell’ampolla d’argento portata in dono dagli irredenti adriatici.

    Nel settembre del 1914, dopo lo scoppio della Grande Guerra, riuscì a trasferirsi a Venezia, arruolandosi nella Regia Marina italiana con il grado di tenente di vascello di complemento; da allora cominciò a inviare all’Ufficio informazioni del ministero della Marina varie note sui sistemi di fortificazione, sulla dislocazione di navi e sommergibili austro-ungarici. All’indomani dell’ingresso italiano in guerra si rese protagonista di decine di incursioni contro le postazioni e i piroscafi nemici – celebre quella effettuata nel porto di Parenzo –, potendo sfruttare la conoscenza dettagliata del litorale adriatico e dell’organizzazione austriaca. Per questa sua attività ricevette l’onorificenza di cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia e la Medaglia d’argento al valor militare.

    Il 30 luglio 1916 il sommergibile Giacinto Pullino, sul quale Sauro si era imbarcato come pilota con l’obiettivo di silurare i piroscafi austriaci attraccati nel porto di Fiume, finì per incagliarsi presso l’isolotto di Galiola. L’equipaggio fu catturato e la stessa sorte toccò a Sauro, che aveva tentato la fuga solitaria su un battello a remi. Dichiaratosi con il nome di Nicolò Sambo, tenente di vascello nella riserva, fu presto riconosciuto da alcuni marittimi del luogo e quindi messo a confronto con i familiari, fatti venire da Pola. Mentre il cognato Luigi Steffè non ebbe esitazioni a denunciarne la vera identità, drammatico fu l’incontro con la madre e la sorella Maria, nel corso del quale per tacita intesa essi finsero di non conoscersi.

    Accusato di alto tradimento, fu condannato a morte mediante capestro. La sentenza fu eseguita il 10 agosto 1916.

    Il 27 agosto furono consegnate alla famiglia le due lettere che Sauro aveva scritto un anno prima (il 20 maggio 1915) e affidato al repubblicano veneziano Silvio Stringari. Nella missiva alla moglie, egli ribadiva che il «dovere d’italiano» era stato la bussola della propria vita; al figlio Nino scriveva che la Patria andava concepita come «il plurale di padre», invitandolo a educare i fratelli a essere «ovunque e prima di tutto italiani» (originali in Archivio del Museo centrale del Risorgimento, Fondo Nazario Sauro).

    Le circostanze della morte schiusero la seconda fase della vicenda di Sauro, quella che gli assicurò un posto rilevante nel racconto martirologico di cui fu intessuto il discorso pubblico nazionale. Sin dagli ultimi due anni di guerra il suo nome fu utilizzato per ribadire la legittimità dell’intervento italiano e per denunciare la ‘barbarie’ austriaca, in linea con la demonizzazione del nemico che alimentò la propaganda di tutti i Paesi belligeranti. Egli diventò un’icona dell’irredentismo e fu prontamente inserito nella schiera dei ‘martiri’ illustri, del passato e del presente: Guglielmo Oberdan, Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa. Non a caso, La canzone del Piave cita proprio la triade Oberdan, Sauro e Battisti. Cartoline patriottiche e articoli commemorativi ne rilanciarono il ricordo dentro i circuiti della propaganda e dell’educazione nazionale e occorrenze rilevanti comparvero persino in campo onomastico. Dopo l’esumazione della salma, il 26 gennaio 1919 si svolse la cerimonia ufficiale di sepoltura nel cimitero di Marina di Pola: in quell’occasione fu consegnata alla madre la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, concessa con r.d. del 20 gennaio 1919.

    L’ingresso dei territori orientali nel Regno d’Italia accentuò una politica della memoria che faceva ampio ricorso alle figure chiave dell’irredentismo, secondo una linea interpretativa sempre più virata in chiave nazionalista. Sauro fu additato a figura esemplare dell’italianità delle terre istriane, godendo di ampia diffusione nelle biografie popolari, nei rituali commemorativi, nella divulgazione scolastica. Negli anni Trenta, quando il processo di militarizzazione della cultura fu esteso alla lettura di uomini ed eventi del passato, egli fu arruolato nella serie di precursori e martiri dell’italianità, di cui il fascismo rivendicava la proprietà esclusiva. Nella collana La centuria di ferro edita da Oberdan Zucchi, il medaglione dedicato a Sauro ne esaltava l’eroismo, inserendolo nella «schiera di puri italiani che col proprio sangue scrissero le più belle e luminose pagine della Storia del Risorgimento a gloria della nostra stirpe» (N. De Julio, Nazario Sauro, 1939, p. 12).

    Durante il Ventennio gli furono intitolate strade e piazze, scuole, caserme, circoli, associazioni, unità navali, mentre la casa natale fu trasformata in museo. Alla Mostra della rivoluzione fascista, allestita nel 1932 nel decennale della marcia su Roma, tra i cimeli dell’irredentismo furono esibite alcune parti del patibolo e della corda servita per la sua impiccagione e la giacca con cui era stato sepolto. Il monumento più importante fu inaugurato a Capodistria il 9 giugno 1935, alla presenza di Vittorio Emanuele III. L’opera, realizzata dallo scultore Attilio Selva e dall’architetto Enrico Del Debbio – autori anche del monumento ai caduti della Grande Guerra di Trieste sul colle di San Giusto – riproduceva la sagoma di un sommergibile, sulla cui torretta svettava una vittoria alata. Due dei figli di Sauro, Italo e Libero, ebbero ruoli di primo piano nei ranghi del partito fascista della regione fino al 1945, e il primo fu consigliere speciale per le questioni slave presso il governo centrale.

    A conferma della relazione peraltro contrastata con una tradizione irredentista che rinviava inevitabilmente allo scontro passato con il mondo germanico, nel maggio del 1944 il monumento di Capodistria fu in buona parte smantellato (ufficialmente per fare spazio a una batteria antiaerea) dai tedeschi, che dopo l’8 settembre 1943 avevano preso il controllo diretto di tutta la parte orientale dell’Italia (Adriatischen Küstenland). Un anno dopo, con l’arrivo dell’armata jugoslava di Tito, il nuovo governo ordinò la fusione delle statue poste alla base del monumento. In quella fase delicata di transizione, il nome di Sauro conservò per alcuni anni un certo richiamo, legato alla controversa questione del confine dell’Alto Adriatico. Dopo la firma del Trattato di pace di Parigi (10 febbraio 1947), che assegnò alla Iugoslavia la quasi totalità della penisola istriana, il grande esodo della comunità italiana fu accompagnato da alcune rilevanti operazioni simboliche e di appartenenza identitaria. Sotto il coordinamento dell’associazione partigiani italiani di Pola, la salma di Sauro fu esumata e la bara, avvolta nel tricolore, fu imbarcata nella motonave Toscana, che in dieci viaggi trasportò verso Venezia e Ancona circa 12.000 profughi polesi. Il 9 marzo 1947 il feretro fu collocato nel Tempio votivo del Lido di Venezia, dedicato ai caduti della Grande Guerra. Con il passare degli anni, e a parte alcune ricorrenze importanti (nel 1966, cinquantenario della morte, un monumento fu inaugurato di fronte alla stazione marittima di Trieste), il nome di Sauro scomparve abbastanza rapidamente dalla memoria pubblica, restando confinato essenzialmente ai luoghi e alle reti degli esuli istriani e agli ambienti del repubblicanesimo storico: un destino in parte diverso da quello di Oberdan e Battisti i quali, associati ai nomi più altisonanti di Trieste e Trento, continuarono ad avere una qualche eco nazionale, sebbene anch’essa sempre più attenuata a seguito dei mutamenti sociali e culturali in atto nel Paese.(fonte)