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Generale Azzo Passalacqua

    Generale Azzo Passalacqua
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    IL GENERALE AZZO PASSALACQUA

    2 luglio 1885 – 5 settembre 1967

    IN MEMORIA E IN ONORE il fratello Giano e il nipote Anastasio
    ROMA – Marzo 1968

    IL GENERALE AZZO PASSALACQUA[1]

    2 luglio 1885 – 5 settembre 1967

    IN MEMORIA E IN ONORE il fratello Giano e il nipote Anastasio
    ROMA – Marzo 1968

    Gen. AZZO PASSALACQUA

    GUERRA 1915 -18 : Pluridecorato al valore GUERRA
    1940 – 45 : Nessuna decorazione, ma molte amarezze. Lo ricorderà la Storia come lo strenuo difensore di Catania

    GIUDIZI E TESTIMONIANZE SULL’AZIONE DI COMANDO DEL GENERALE AZZO PASSALACOUA E SUL COMPORTAMENTO DEI REPARTI Al SUOI ORDINI, NELLA BATTAGLIA PER LA DIFESA DI CATANIA (luglio – agosto 1943).

    RE UMBERTO II[2], nella guerra 1940-43 Comandante delle Armate del Sud. Autografo: « Caro Generale, vivamente grato per le tanto gentili espressioni, Le invio il mio memore saluto e l’assicurazione del costante e commosso ricordo della Sua così valorosa azione, alla testa delle eroiche truppe della Piana di Catania. Sempre suo aff.mo UMBERTO. – Cascais, li 19 ottobre 1949 ».

    MUSSOLINI[3], allora Capo del Governo e Capo supremo delle Forze armate in guerra. Dal libro « Un aviatore racconta le sue battaglie », del Capitano-Pilota F. A. Di Bella (Editore Renna, 1951), si rileva che il Gen. Passalacqua, mentre ferveva la dura battaglia di Catania, per ben tre volte fu chiamato al telefono da Mussolini, il quale – si legge a pag. 886 – « voleva conoscere la vera situazione dalla viva voce del sostenitore di quella epica difesa ». II Gen. Passalacqua, in ciascuno dei tre colloqui telefonici, fece sincera e dettagliata esposizione degli avvenimenti: la strenua resistenza sul Simeto, i provvedimenti da lui presi per tenere salda la disciplina, la urgente necessità di rinforzi e di viveri. Al termine del terzo colloquio (22 luglio), nel rinnovare il suo compiacimento per lo sforzo compiuto dai reparti del Settore costiero di Catania, Mussolini esclamò: « Passalacqua, tenete duro! Provvederò subito ». (Ma come poteva provvedere, alla vigilia del 25 luglio?).

    GENERALE D’ARMATA ALFREDO GUZZONI[4], allora Comandante delle FF.AA. in Sicilia (6′ Armata). Sintesi del Rapporto informativo sul Gen. Azzo Passalacqua (per il periodo 1 genn. – 17 agosto 1943), ed Encomio. « Intelligente, energico, coraggioso, forte tempra di comandante volitivo e capace, e di valoroso soldato. Encomio il generale Passalacqua per l’azione svolta quale comandante della Piazza di Catania, e per la resistenza organizzata al Simeto con le poche truppe ai suoi ordini ».

    GENERALE ATTILIO FALDELLA[5], allora Capo di Stato maggiore della 6′ Armata. Da quell’importante documento storico che è il suo libro « Lo sbarco e la difesa della Sicilia » (Ed. L’Aniene, 1956), si riportano alcuni passi relativi alla battaglia di Catania. A pagg. 171 e 172: » Avvenimenti del 14 luglio 1943. La difesa della Piana di Catania era affidata alla 213′ Divisione costiera (gen. Carlo Gotti) ed al Comandante Porto E (gen. Azzo Passalacqua)… Paracadutisti inglesi, malgrado la pronta reazione di reparti della 213′ Divisione costiera e del Comando Porto E, che catturarono parecchi prigionieri, arrecavano disturbo… forze aeree bombardavano Catania e l’aeroporto… unità navali bombardavano Catania e le batterie 162″ e 165’… le autorità civili di Catania furono prese dal panico, il prefetto abbandonò la città… la 483″ batteria Miltar fu abbandonata dal personale… Ma in quei frangenti il gen. Passalacqua, comandante della Difesa Porto E, non perdette il sangue freddo, come non lo perdette il Comandante della 213′ Div. costiera. Passalacqua, con grande energia impedì che il panico dilagasse, costrinse tutti a rimanere ai loro posti, e schierò parte del 372′ battaglione costiero sul Simeto… ». A pag. 337: » … tenaci nella resistenza e fino all’ultimo, reparti della 213′ Div. costiera e della Difesa Porto E difesero Catania ». A pag. 260: « La 213′ Div. costiera e la Difesa Porto E (Catania) avevano dato il concorso di proprie truppe prima sul Simeto e poi sul Fosso Buttaceto, in collaborazione con il 4′ regg. paracadutisti della Div. Goering ». A pagg. 260, 261: « Resosi indispensabile lo sgombro di Catania, furono prese disposizioni che consentirono di effettuarlo con ordine, sotto la protezione dei resti del 372′ e del 434′ battaglioni costieri, rimasti fino all’ultimo schierati immediatamente a sud di Catania con le retroguardie tedesche. II comandante della Difesa Porto E, generale Passalacqua, sgombrò la batteria da 75 e il DV gruppo da 90/53 e tutte le armi pesanti, fatta eccezione soltanto delle artiglierie in postazione fissa che furono distrutte ».

    GEN. EMILIO CANEVARI[6]. Dalla sua pubblicazione « La Guerra italiana. Retroscena della disfatta », in « Studi Politici » (Ed. Tosi, 1949). A pag. 780: « Davanti a Catania l’armata inglese trovò una fortissima resistenza ». A pag. 788: « …generale Passalacqua, valoroso comandante di Catania ». Da un articolo di E.C. sul « Meridiano », 29 nov. 1953: « Le truppe italiane, unitamente alla Divisione tedesca Goering sostennero, durante quasi un mese, quella difesa di Catania che sorprese gli anglo-americani. Il generale Passalacqua dimostrò di avere completamente in pugno il proprio comando… ».

    ANTONINO TRIZZINO[7], il famoso autore di « Navi e Poltrone ». Nella sua pubblicazione « Processo alla Guerra », sulla rivista « Meridiano » — in 16 puntate, dic. 1959 – febbr. 1960 — si legge verso la fine della 15′ puntata: « In quella che era stata la munitissima base navale di Augusta, entravano indisturbati — il 12 luglio 1943, appena due giorni dopo lo sbarco di Avola — un cacciatorpediniere inglese ed uno greco, seguiti da un solo mezzo da sbarco. Fortunatamente, ci fu un comandante che puntò i piedi in mezzo al disastro generale. Fu il generale Passalacqua. Con i suoi uomini fece barriera sul Simeto, e per alcune settimane contese palmo a palmo al nemico la piana di Catania. Ferreo, indomabile, è stato per questo ricompensato, dopo là guerra, da infinite amarezze. Ma senza di lui la Sicilia sarebbe stata conquistata ” col gesso ” ».

    ATTILIO TAMARO[8]. Dal suo libro « Due anni di Storia ». A proposito degli avvenimenti in Sicilia nel luglio 1943, si legge a pag 215: « Le truppe costiere avevano combattuto con grande tenacia sul Simeto, agli ordini del generale Passalacqua: splendidi il 372° btg. costiero del maggiore Bolla e il 434° btg. costiero del maggiore Pelizzoni. Le quali truppe, armate ormai quasi soltanto di mitragliatrici, avendo il nemico distrutta l’artiglieria, per settimane impedirono alle poderose forze nemiche di passare il Simeto; ed avrebbero resistito ancora, decimate e lacere, se i tedeschi non si fossero ritirati, prematuramente, sulla loro destra ». E a pag. 225: « Ciò che succedeva sul Simeto, presso Catania, dove poche mitragliatrici (dei reparti agli ordini del gen. Passalacqua) tenevano in scacco per tre settimane il poderoso esercito di Montgomery, deve fare riflettere quanto valgono le forze morali; e come, in certi momenti, i generali possano chiedere all’anima dei soldati ciò che non potrebbero avere dalle loro armi ».

    NINO BOLLA[9], il valoroso comandante di quel 372′ battaglione costiero, che si coprì di gloria sul Simeto. Ha scritto Libri e Memorie sulla guerra in Sicilia, luglio-agosto 1943. Al suo ex-superiore offrì copia della sua pubblicazione « La Sicilia ed Eisenhower » con queste parole: « Al generale Azzo Passalacqua, che valorosamente diresse nella piana di Catania la più dura ed impari battaglia. Nino Bolla, nel ricordo del fiume Simeto ». E così scrive a pag. 155: « Senza la battaglia del Simeto, la guerra in Sicilia avrebbe avuto termine in tre giorni, dopo lo sbarco degli anglo-americani. Senza il cedimento avvenuto a Troina, la battaglia dal ponte di Primosole alla foce del Simeto, durata 25 giorni, sarebbe proseguita e non si sa per quanto tempo ancora ».

    FRANCESCO AURELIO DI BELLA[10]. Capitano di Aviazione, Pilota decorato da molte medaglia al valore. In esaltazione dell’Aeronautica, ha scritto il libro « Un aviatore racconta le sue battaglie

    1940-1943 ». A proposito della battaglia di Catania, si legge a pagg. 881, 882, 883: « La difesa di Catania, quando giunse la sua ora, fu la sola che nella terribile battaglia – paragonata dallo stesso nemico a quella di EI Alamein – mantenne per venticinque giorni salda la fede e l’impegno d’onore di difendere, sino all’ultimo, l’integrità del suolo ad essa affidata ». Punti salienti di un vibrante Ordine dei giorno, che il generale Passalacqua diramava ai Reparti dipendenti il mattino dell’11 luglio: « Sono otto giorni che le truppe del Settore vengono sottoposte ad intense azioni aeree nemiche… occorre resistere, resistere ad oltranza… ». Prosegue e commenta lo scrittore: « E fanti ed artiglieri, in particolare quelli del 372″ battaglione Bolla, sostennero con stoica fermezza l’urto del nemico, senza retrocedere… Quello era stato l’ordine ricevuto dal generale Passalacqua, che aveva saputo vivificare nella mente, nell’anima, nel cuore di quei sostenitori della difesa, il sentimento del dovere di altri tempi ».

    PROF. GAETANO ZINGALI[11]. Dal suo libro « L’invasione della Sicilia, 1943 » (Ed. Crisafulli, 1962). Si legge, a pag. 299, che le forze impegnate nel settore di Catania erano in tutto 12.000 uomini. « A queste (poche) forze, e al loro valoroso comandante Generale Passalacqua, si deve il merito della valida partecipazione italiana a quella magnifica pagina di storia che fu la battaglia per Catania, combattuta per ben 22 giorni nella piana, fra il Simeto a sud e la città a nord; battaglia che riuscì ad arrestare I’VIII Armata britannica ed a costringere Eisenhower a mutare il piano per le operazioni in Sicilia ». E a pag. 300: « Il successo si deve in parte alla ferrea disciplina e all’addestramento, morale e materiale, delle truppe del settore da parte del comandante ».

    PUNTI DI VISTA DEI DUE GRANDI CONDOTTIERI DELL’ALTRA PARTE, RIGUARDO ALLE OPERAZIONI IN SICILIA E, IN PARTICOLARE, ALLA BATTAGLIA PER CATANIA, NEL 1943

    GENERALE EISENHOWER[12]. Il 13 luglio aveva dichiarato ai giornalisti (Butcher: Tre anni con Eisenhower, pag. 357) che, « procedendo ogni cosa soddisfacentemente, l’occupazione totale della Sicilia sarebbe stata completata in due settimane ». Ma già due giorni dopo scriveva al generale Leese, comandante del XXX Corpo: « Siccome siamo temporaneamente bloccati sulla destra, importa che la nostra sinistra dia un gran colpo: voi vi spingerete il più rapidamente possibile su Caltagirone, ecc. ». In « Crociata in Europa » del gen. Eisenhower (Edizione Mondadori), nel capitolo « L’invasione della Sicilia », si legge alle pagg. 227, 228: « Il punto che volevamo conquistare nel più breve tempo possibile era Messina… L’attacco di Mongomery procedette rapido all’inizio, superando in breve tempo le rive orientali dell’isola per includere il porto di Siracusa… ma verso Catania la resistenza aumentò decisamente… dal 17 luglio l’VIII Armata inglese si trovò, nella pianura di Catania, con scarsa probabilità di superare i passi verso nord ». (Nota del gen. Passalacqua, in una sua memoria: « la prima resistenza sul Simeto fu opposta dai reparti costieri del settore di Catania, che continuarono poi a resistere per tre settimane: contro una Divisione inglese due nostri modestissimi battaglioni, il 372′ e il 434″, rafforzati da alcune compagnie mitraglieri, mentre della artiglieria del settore era rimasta una sola batteria, con scarso munizionamento »).

    GENERALE MONGOMERY[13]. Dal suo libro « Da EI Alamein al fiume Sangro » (Editore Garzanti, 1950), si riportano alcuni passi riguardanti le operazioni nella zona di Catania. A pag. 129: « 14 luglio 1943   La puntata principale, diretta verso Catania, doveva essere eseguita dalla 50′ Divisione… Le prime fasi dell’attacco ebbero successo… i paracadutisti tennero duro fino all’imbrunire… la colonna principale, nelle prime ore del 15 luglio, prendeva contatto con la brigata paracadutisti, che si era ritirata su un ciglione soprastante alla piana e al ponte di Primasole… ». (Nota del gen. Passalacqua: le colonne nemiche furono costrette a ripiegare, dopo aver subito .gravi perdite, per il fuoco delle nostre mitragliatrici postate sulla riva sinistra del Simeto). A pag. 130: « La notte dal 17 al 18 luglio, la 50″ Divisione lanciò una vigorosa puntata verso nord (Catania). Ma la reazione del nemico fu salda e decisa; esso eseguì contrattacchi energici, cosicché i risultati furono scarsi… ». A pagina 135: « Era evidentissimo che il nemico avrebbe tenuto Catania fino all’ultimo. Persistere nell’avanzata diretta sulla città avrebbe condotto a gravi perdite ». A pag. 140: « Nel settore costiero, interruzioni e mine ritardarono (2-4 agosto) il movimento, e sul fronte della 50» Divisione una accanita azione di retroguardia venne combattuta sul lato meridionale della periferia di Catania… ». ( Nota del gen. Passalacqua: « si trattava di fossi anticarro e di campi minati, allestiti, dall’aprile in poi, dagli stessi reparti del settore di Catania, già da allora esposti ai frequenti bombardamenti aerei. E quella azione di retroguardia era compiuta ancora dagli inesauribili fanti dei battaglioni costieri, per proteggere le nostre truppe in ordinato ripiegamento »). A pag. 144: « Riflessioni sulla campagna di Sicilia… La battaglia più dura fu quella di Primosole; può essere sembrato curioso che io, vinta la battaglia, abbia spostato l’asse principale delle mie operazioni dalla pianura costiera, che conduce a Catania, alla strada interna per Adrano. Ma persistere nella puntata diretta verso Catania avrebbe significato incorrere in perdite molto gravi, ed io non ero affatto convinto che a questo sacrificio di vite avrebbe seguito il successo. (Nota del gen. Passalacqua: « La tenace resistenza al Simeto, alla quale avevano contribuito i Reparti costieri del settore di Catania, aveva così ottenuto il grande risultato: aveva impedito alla VIII Armata inglese di raggiungere rapidamente Messina, come era nei piani del Co-mando nemico’)

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    Note

    [1] Azzo Passalacqua (Morro Reatino, 2 luglio 1885 – Roma, 7 settembre 1967) è stato un generale italiano del Regio Esercito durante la seconda guerra mondiale (difesa della Sicilia), noto per aver partecipato alla difesa di Catania e per aver qui presieduto uno spicciativo tribunale di guerra che condannò a morte un ufficiale della milizia per diserzione.

    Biografia

    Azzo Passalacqua nacque nel 1885 in provincia di Rieti, da Anastasio. Frequentò l’Accademia militare di Modena nel biennio 1908/07, da dove uscì con il grado di sottotenente dell’arma di fanteria, venendo assegnato al 2º reggimento bersaglieri.

    Partecipò alla grande guerra con grandi riconoscimenti, raggiungendo il grado di maggiore.

    Dal 16 giugno 1934, Passalacqua fu promosso colonnello e verrà assegnato al comando della 21ª divisione Granatieri di Sardegna a Roma. Allo scoppio della seconda guerra mondiale ebbe vari comandi di settore costiero di brigata: il 4° in Sardegna dal 1º aprile al 31 luglio 1941 e l’8° in Sicilia dal 1º agosto al 14 novembre 1941. Dal 15 novembre passò al comando del XII corpo d’armata di Palermo. Il 1º dicembre 1941, a domanda, transitò nella riserva e promosso generale di brigata, fu assegnato, quale comandante, alla difesa del porto di Catania (denominato E) dal 16 aprile 1942. Con decreto del 18 settembre seguente fu nominato Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia.

    Dopo lo sbarco alleato in Sicilia, il 10 luglio 1943, l’area orientale dell’isola, con punto focale Catania ed il suo porto, furono oggetto di un’importante battaglia per il loro possesso da parte inglese, già dai primi giorni. In questo contesto, il 14 luglio, in zone adiacenti a Catania, presso il fiume Simeto e la località Plaja, la 483ª batteria della Milmart, agli ordini del capomanipolo MVSN (corrispondente al grado di tenente) Giuseppe Catanzaro (circa venti uomini), ricevette l’ordine (apocrifo) di distruggere i pezzi e ritirarsi verso Messina. Ordine però regolarmente ricevuto e trasmesso dai superiori gerarchici di Catanzaro, il seniore (maggiore) Bonazzi ed il centurione (capitano) Corsi.

    Nei pressi di Capomulini, però, Catanzaro fu fermato da un posto di blocco dei CCRR, arrestato per il reato di diserzione e tradotto a Sant’Agata li Battiati. Al cospetto del generale Passalacqua, comandante del porto di Catania e competente su tutte le forze di difesa, venne disposto subito un processo nella villa dei marchesi di Sangiuliano nei confronti del Catanzaro per il 15 luglio. Avendo negato tutto i suoi superiori, Catanzaro, ingegnere 42enne di Acireale, venne dichiarato colpevole e condannato alla fucilazione alla schiena. Esecuzione immediata in piazza Barriera del Bosco a Sant’Agata da un plotone di CCRR.

    Nel dopoguerra, Catanzaro venne riabilitato ed assolto in Corte di Cassazione con sentenza del 18 marzo 1955, con relativo risarcimento da parte del Ministero della Difesa ai familiari, la vedova signora Maria Catania e i figli, Domenico e Cleide.

    Nel corso della battaglia di Catania poi, Passalacqua, fu chiamato telefonicamente più volte da Mussolini in persona (sino al 22 luglio), preoccupato per i rinforzi, promessi, mai arrivati sul posto.(fonte)

    [2] Umbèrto II. Re d’Italia. Figlio (Racconigi 1904 – Ginevra 1983) di Vittorio Emanuele III. Erede al trono col titolo di principe di Piemonte, sposò a Roma (1930) Maria José, figlia di Alberto I del Belgio. Generale d’armata (1938), comandante del gruppo di armate disposte sul fronte occidentale (1940), nel 1942 comandò le armate del sud e assunse la carica di maresciallo d’Italia. Il 5 giugno 1944, il giorno dopo la liberazione di Roma, fu nominato luogotenente del regno; salì al trono il 9 maggio 1946 in seguito all’abdicazione del padre, e vi rimase, in effetti, solo fino al referendum del 2 giugno 1946, che istituì la Repubblica; di qui l’appellativo di re di maggio, datogli polemicamente dai repubblicani. Il 13 giugno abbandonò l’Italia e prese dimora a Cascais, presso Lisbona, sotto il nome di conte di Sarre. Le sue spoglie sono state tumulate nell’abbazia benedettina di Altacomba; tra le sue volontà testamentarie figurano il lascito al papa della Sacra Sindone, conservata nel Duomo di Torino, e allo Stato italiano dell’Archivio storico di Casa Savoia, da conservare nell’Archivio di stato di Torino.(fonte)

    [3] Benito Mussolini. Uomo politico (Dovia di Predappio 1883 – Giulino di Mezzegra, Dongo, 1945). Socialista, si andò staccando dal partito, fino a fondare i Fasci da combattimento (1919). Figura emergente nell’ambito del neoformato Partito nazionale fascista, subito dopo la “marcia su Roma” (1922) venne incaricato dal re della formazione del governo, instaurando nel giro di pochi anni un regime dittatoriale. In politica internazionale M. affrontò l’esperienza coloniale in Etiopia, si fece coinvolgere dai buoni rapporti con la Germania di Hitler nella persecuzione degli Ebrei, fino poi alla partecipazione al conflitto mondiale. I pessimi risultati bellici portarono il Gran Consiglio a votare la mozione Grandi presentata contro di lui (1943). Arrestato, fu liberato dai Tedeschi e assunse le cariche di capo dello Stato e del governo nella neonata Repubblica sociale. Alla fine della guerra fu catturato e fucilato dai partigiani per ordine del Comitato di liberazione nazionale. Dominò la storia italiana per oltre un ventennio, divenendo negli anni del suo potere una delle figure centrali della politica mondiale e incarnando uno dei modelli dittatoriali fra le due guerre. (fonte)

    [4] Alfredo Guzzoni. Nacque a Mantova, il 12 apr. 1877, da Postumio e Dejanira Giubellini. Entrato come allievo nella Scuola militare di Modena nel 1894, ne uscì due anni dopo sottotenente di fanteria, destinato al 59° reggimento a Monteleone Calabro. Rimase nel medesimo reparto fino al 1907, anche dopo la promozione a tenente accordatagli nel 1899. Nell’autunno del 1901 sposò Bice Cecchini, dalla quale ebbe due figlie e un figlio.

    Dal 1907 all’agosto 1911 frequentò i corsi della Scuola di guerra, essendo poi promosso, a scelta, capitano. In esperimento al corpo di stato maggiore, fu dapprima impiegato a Roma e, successivamente, a Padova. Assegnato ai primi del 1913 al 51° reggimento fanteria, passò, dopo un anno, al II battaglione mobilitato del 52° reggimento, con il quale raggiunse Bengasi alla fine di febbraio.

    Per un anno il G. fu capo di stato maggiore della zona militare di Cirene, per ritornare poi al battaglione mobilitato, con il quale ottenne un encomio solenne per gli scontri di Mkeinen e Gerrari e per la sorpresa di Kaulan.

    Tornato in Italia nel maggio 1915 al 51° fanteria, fu subito dopo assegnato all’intendenza della IV armata e, a dicembre, promosso maggiore. Capo di stato maggiore della 7ª divisione fanteria dall’agosto 1916, fu trasferito al comando del IV corpo d’armata nel gennaio 1917, venendo subito dopo promosso tenente colonnello e nominato capo di stato maggiore dell’11ª divisione fanteria. Con questa grande unità, e grazie anche ai suoi interventi in prima linea, il G. ottenne una medaglia d’argento al valor militare per la sua azione sul San Gabriele, presso Gorizia, e successivamente la promozione a colonnello. Per breve tempo a disposizione del comando supremo, venne nominato capo di stato maggiore del XXVII corpo d’armata, dal gennaio 1918, e del III corpo d’armata dal settembre dello stesso anno, meritando una seconda medaglia d’argento e la croce di cavaliere dell’Ordine militare di Savoia per il suo operato sul Montello, a giugno, durante la battaglia del Piave, e poi nel Trentino occidentale, durante l’ultima fase del conflitto; venne quindi assegnato, nel dicembre 1918, al comando dell’Ufficio operazioni.

    Qui ebbe modo di far valere le sue doti di organizzatore nel gestire i due maggiori problemi, legati all’esecuzione delle clausole dell’armistizio, che si affacciavano in quei primi mesi del dopoguerra: l’occupazione, oltre che delle “terre redente”, anche del Tirolo e della Dalmazia e i lavori di ricostruzione nelle zone liberate, il tutto da conciliare nell’ambito della progressiva smobilitazione dell’esercito.

    Le capacità e le conoscenze acquisite dal G. in questo delicato compito furono alla base dei due successivi incarichi: dal febbraio 1920 al luglio 1921, capo di stato maggiore della Commissione interalleata di controllo per l’Austria e, successivamente, di quella per l’Ungheria, fino al maggio 1924.

    Nel giugno di quell’anno venne nominato capo della segreteria militare del ministro della Guerra e, nell’aprile dell’anno successivo, ricoprì per brevissimo tempo l’incarico di capo di gabinetto. Nel giugno 1925 tornò in Ungheria, come presidente della Commissione interalleata di controllo, e vi rimase fino all’aprile 1927, pur essendo stato nominato, nel dicembre 1926, comandante del 58° reggimento fanteria. Conservò quest’ultimo comando sino al maggio 1929, per passare poi a disposizione del ministero della Guerra come capo dell’Ufficio ordinamento. Promosso generale di brigata il 1° genn. 1930, venne nominato comandante della III brigata alpini a Gorizia, per divenire poi, il 1° ott. 1931, comandante dell’Accademia di fanteria e cavalleria di Modena e della Scuola di applicazione di fanteria di Parma.

    Dopo due anni, promosso generale di divisione, venne trasferito a Roma, per comandarvi la locale divisione militare territoriale, divenuta divisione granatieri di Sardegna nel febbraio 1934. Negli anni 1933 e 1935 il G. fu chiamato a far parte del Consiglio dell’Esercito.

    Posto a disposizione del ministero delle Colonie, nel novembre 1935 partì per l’Eritrea, rimanendo ad Asmara, prima come vicegovernatore di quella colonia e poi, dal giugno 1936, come governatore.

    Anche in questo ruolo il G. ebbe modo di far valere le proprie capacità organizzative, tenuto conto che l’Eritrea costituiva non solo la retrovia del fronte settentrionale – attraverso le cui scarse infrastrutture portuali e stradali dovevano affluire tutti i rifornimenti necessari per una positiva conclusione della campagna etiopica – ma anche la colonia sui cui abitanti si faceva affidamento per la costituzione e per l’inquadramento delle truppe coloniali. Il 1° genn. 1937, la promozione per meriti eccezionali a generale di corpo d’armata sancì la piena approvazione del suo operato, confermata poi dal titolo di governatore onorario, conferitogli nel 1938.

    Rimpatriato nell’aprile 1937, il G. fu nominato comandante del corpo d’armata di Udine. Il 31 marzo 1939 venne improvvisamente convocato a Roma, dove gli fu conferito il comando delle truppe destinate a occupare l’Albania di lì a qualche giorno.

    La ristrettezza dei tempi, la composizione poco omogenea del corpo di spedizione e le continue interferenze politiche non resero facile il compito del G., che si trovò costretto a seguire un piano che puntava esclusivamente sulla velocità di esecuzione. Comunque le operazioni, iniziate nella notte del 7 aprile con lo sbarco in quattro punti diversi della costa albanese, si conclusero nel giro di poco più di 24 ore, sia per la netta preponderanza delle forze italiane, sia per la ben congegnata preparazione politica, sia, soprattutto, per la scarsissima opposizione locale, concretatasi in un’iniziale resistenza a Durazzo e dintorni. Il G. seppe sfruttare la situazione spingendo al massimo le truppe celeri sul più importante obiettivo della spedizione, Tirana, che venne contemporaneamente raggiunta anche da un battaglione granatieri trasportato per via aerea. Non sembra possano essere imputate al G. alcune deficienze riscontrate nello svolgimento delle operazioni dovute soprattutto alla composizione dei reparti – con richiamati che non conoscevano l’uso delle armi e dei mezzi di trasporto e di comunicazione di cui erano ora dotati – e a una superficiale pianificazione degli sbarchi, con piroscafi inadatti e mancato rispetto delle modalità previste.

    In riconoscimento dell’opera svolta il G. ebbe la nomina a comandante designato di armata e rimase a Tirana, come comandante superiore delle truppe d’Albania, provvedendo alla sistemazione difensiva di quel territorio e all’immissione delle forze armate albanesi in quelle italiane. Rientrato in patria, venne designato al comando della 4ª armata. Con questa, nel giugno 1940, prese parte alla breve campagna contro la Francia, che gli valse la nomina a commendatore dell’Ordine militare di Savoia.

    Il riordinamento dei vertici militari, seguito al disastroso inizio della campagna di Grecia e alle dimissioni del maresciallo P. Badoglio, permise al G. di raggiungere l’apice della carriera con la contemporanea nomina, il 30 nov. 1940, alle cariche di sottosegretario di Stato per la Guerra e di sottocapo dello stato maggiore generale. Incarico, quest’ultimo, di particolare rilievo in quanto l’assenza da Roma del capo di stato maggiore generale U. Cavallero, impegnato direttamente in Albania, gli consentiva inevitabilmente una maggiore libertà di azione. Tuttavia, tale libertà di azione non fu apprezzata dal generale Cavallero che, rientrato a Roma, riorganizzò lo stato maggiore generale abolendo la carica di sottocapo e costringendo il G., il 24 maggio 1941, alle dimissioni da sottosegretario.

    Il 1° novembre dello stesso anno il G., promosso generale di armata, venne collocato in congedo per raggiunti limiti di età. Fu però richiamato in servizio il 20 ott. 1942 e posto a disposizione del ministero della Guerra con incarichi speciali, per esser poi nominato, il 1° giugno 1943, comandante della 6ª armata e delle forze armate della Sicilia.

    Caduta il 7 maggio Tunisi, era quasi certo che la Sicilia sarebbe stata il successivo obiettivo alleato. Dato il pieno dominio del cielo da parte degli Angloamericani, la situazione dell’isola si presentava già allora difficile, con la popolazione civile quasi del tutto priva di rifornimenti e con il grosso delle truppe disposto a cordone lungo le coste, con approntamenti difensivi e armamenti inadeguati, quasi senza mezzi di trasporto, con ufficiali anziani e con il 70% della truppa composto da richiamati. Il G., pur richiedendo rinforzi, dispose che, in caso di sbarchi nemici, venisse attuata dalle forze costiere una resistenza a oltranza, così da permettere l’intervento delle unità mobili italotedesche, tenute in riserva di armata. Ma, nella notte del 10 luglio, la netta superiorità aeronavale e l’abbandono delle piazze costiere di Augusta e Siracusa resero possibile lo sbarco angloamericano mentre quasi dovunque la difesa del litorale, affidata ai reparti costieri, non riuscì a essere protratta più di qualche ora. La controffensiva delle divisioni Livorno e Goering nelle zone di Licata e Gela venne ben presto stroncata dal fuoco navale. Messo così solidamente piede a terra, gli Alleati poterono proseguire nella loro offensiva, che il G. cercò di rallentare nei limiti del possibile, riuscendo a far traversare lo stretto di Messina a buona parte delle forze ai suoi ordini dopo 37 giorni di resistenza.
    Sorpreso dall’armistizio dell’8 settembre, il G. si ritirò a vita privata. Due attacchi di R. Farinacci alla sua condotta delle operazioni in Sicilia, apparsi su Regime fascista, ne provocarono l’incarcerazione il 26 ottobre; l’11 novembre, comunque, il G., anche per l’intervento dei vertici militari tedeschi in Italia, era già stato scarcerato.
    Nel dopoguerra tentò, inutilmente, di veder riconosciuta la propria azione di comando nella difesa della Sicilia.
    Il G. morì a Roma il 15 apr. 1965.(fonte)

    [5] Emilio Faldella (Maggiora, 5 marzo 1897 – Torino, 9 settembre 1975) è stato un generale e agente segreto italiano. Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto 25.01.1969.
    Prima guerra mondiale
    Nasce a Maggiora (NO) nel 1897 da un’antica famiglia del Monferrato. Nel 1914 entra nella Accademia Militare di Modena e nel maggio 1915 è nominato sottotenente destinato al 3º Reggimento Alpini. Combatte sul Monte Nero, a Santa Maria di Tolmino, sul Vodil e sul Mrzli, sul Kukla (conca di Plezzo), nell’intera battaglia difensiva del Trentino.
    Per l’esfiltrazione dal Monte Biserto (Val Terragnolo) viene decorato nell’ottobre 1916 con medaglia d’argento. Partecipa quindi a tutte le operazioni nella zona del Pasubio, al Monte Corno Battisti di Vallarsa e sul Coni Zugna. Dal luglio 1917 segue le sorti del generale Guido Liuzzi in quasi tutti i suoi comandi. Quale aiutante maggiore del 1º Gruppo alpino partecipa alle battaglie del Piave e di Vittorio Veneto.
    Servizio Informazioni Militare e la guerra di Spagna
    Dopo il conflitto frequenta la scuola di guerra e viene trasferito allo stato maggiore col grado di capitano. Nel 1928 è promosso maggiore e nominato comandante del Battaglione Dronero del 2º Reggimento alpini. Nel giugno 1930 viene destinato al Servizio Informazioni Militare: dal luglio 1930 al giugno 1935 è in Spagna con l’incarico di copertura di console a Barcellona; nel gennaio 1935 venne promosso tenente colonnello; dal luglio 1935 all’agosto 1936 è capo della sezione speciale Africa Orientale (AO). In questo periodo si occupa dell’affare Jacir Bey.
    Con l’inizio della guerra di Spagna, dal 28 agosto 1936 è inviato al quartier generale dal generalissimo Francisco Franco, come “osservatore” e ufficiale di collegamento. Assume poi il comando del “Raggruppamento carri-artiglieria” (due compagnie carri e sei batterie di artiglieria autotrasportate) nel corso della prima battaglia di Madrid (ottobre-novembre 1936). Dal dicembre 1936, con l’arrivo più massiccio di aiuti militari italiani in Spagna, è nominato capo di stato maggiore del Corpo Truppe Volontarie (in assenza del comandante Roatta, in Italia per conferire, prepara la battaglia per la conquista di Malaga).
    Nel febbraio 1937 sostituisce ancora Roatta, ferito nei combattimenti di Malaga, finché non viene conquistata. Dopo la battaglia di Guadalajara, Roatta viene avvicendato con il generale Ettore Bastico e Faldella con il colonnello Gastone Gambara. Faldella assume quindi il comando del 5º Reggimento di fanteria legionaria: con questo incarico partecipa alla conquista di Bilbao ed alla battaglia di Santander (giugno – agosto 1937), ottenendo la croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia.
    Seconda guerra mondiale
    Nel dicembre 1937 termina il suo periodo al SIM e viene trasferito all’Ufficio Addestramento dello stato maggiore dell’Esercito. Nel 1939 è promosso colonnello e diviene comandante del 3º Reggimento Alpini nel quale avrà alle sue dipendenze il cappellano militare Secondo Pollo. Con il reggimento combatte nel 1940 sul fronte occidentale. Dall’agosto 1941 al maggio 1943 è al comando dell’Ufficio Addestramento dello Stato Maggiore.
    Successivamente è capo di stato maggiore della 6ª Armata e delle Forze Armate della Sicilia (sotto il comando del generale Alfredo Guzzoni). Generale di brigata il 1º luglio 1943. L’8 settembre i pochi resti ed il comando della 6ª Armata sopravvissuti allo sbarco in Sicilia sono stati messi a riposo. Dopo l’armistizio, per ordine del generale Antonio Sorice, ministro della Guerra, Faldella torna all’attività di intelligence. Aderisce alla Repubblica Sociale Italiana dove viene nominato Intendente generale delle forze armate, ma al contempo assume il comando di una vasta ed efficiente rete clandestina operante in Venezia Giulia a favore del Regno del Sud. Tradito, è arrestato il 16 maggio 1944.
    Viene liberato grazie all’intercessione del Maresciallo Rodolfo Graziani e vive nei mesi successivi a Milano in una curiosa situazione di semiclandestinità. Il 26 aprile 1945 per ordine di Raffaele Cadorna Jr assume il comando della piazza di Milano.
    Al termine della missione in un incontro avuto con il cardinale Schuster questi ebbe a dire
    «Lei ha la grande soddisfazione di poter in coscienza dire di aver salvato centinaia e forse migliaia di vite umane.»
    Congedo e gli studi storici
    Collocato a riposo a domanda dal 22 gennaio 1946, si dedica successivamente ad attività sociali ed allo studio delle discipline militari, con particolare riguardo alla dimensione addestrativa. Il 27 marzo 1951 viene promosso generale di divisione e il 20 ottobre 1969 a titolo onorifico generale di Corpo d’armata.
    È anche uno storico militare di livello, con numerose pubblicazioni all’attivo. Muore a Torino nel 1975.(fonte)

    [6] Emilio Canevari (Viterbo, 19 dicembre 1888 – Santhià, 31 dicembre 1966) è stato un generale e saggista italiano, esponente di spicco del fascismo e in particolare della Repubblica Sociale Italiana fondata da Benito Mussolini nell’autunno 1943, della quale organizzò l’Esercito Nazionale Repubblicano.
    Già colonnello nel Regio Esercito, autore di saggi e collaboratore ordinario di Il Regime Fascista con lo pseudonimo di Maurizio Claremoris, fu fra i firmatari del Manifesto della razza che dette vita alle leggi razziali fasciste. Un suo saggio del 1938 sull’impiego dell’aviazione nella guerra civile spagnola avrebbe ispirato, nel 1941, l’elaborazione della strategia dell’aviazione statunitense.

    Nel 1941 tradusse, con il capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Ambrogio Bollati, il testo del 1832 del militare e teorico prussiano Carl von Clausewitz Della Guerra.

    Dopo la caduta del fascismo e l’Armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943 aderì alla RSI della quale divenne Segretario Generale dell’Esercito Nazionale Repubblicano al ministro della Difesa nazionale prima di Domenico Chirieleison e Umberto Giglio. Fu poi a capo della missione militare italiana per l’addestramento di quattro divisioni italiane nell’alleata Germania nazista: esordì siglando, il 16 ottobre, con il generale Buhle per parte tedesca, gli accordi fondamentali per la ricostituzione delle forze armate italiane.

    Il patto prevedeva che l’esercito repubblicano fosse arruolato per coscrizione (e quindi non su base volontaria, come chiedeva Ricci) in Italia e addestrato per sei mesi in Germania da istruttori tedeschi, il tutto a spese delle RSI. Ma l’accordo raggiunto coi tedeschi non venne giudicato positivamente dal Duce e Graziani (Dolfin, segretario personale di Mussolini, sospetta che il dittatore inizialmente non lo avesse nemmeno letto e pare che anche Graziani l’avesse firmato senza prima visionarlo) per cui Canevari, capro espiatorio dell’imbarazzo creatosi, venne allontanato dall’esercito il 4 dicembre 1943 con il pretesto di alcune sue dichiarazioni poco ortodosse verso il fascismo.

    Nei mesi successivi operò come ufficiale di collegamento tra Wolff, Graziani e la Milizia Armata responsabile per le questioni concernenti l’arruolamento nelle formazioni di SS italiane; fu anche direttore del settimanale Avanguardia delle SS italiane tra fine marzo e inizio aprile 1944. Il 22 aprile 1944 fu arrestato per attività antinazionali ed antitedesche dalle SS a seguito della denuncia del giornalista Felice Bellotti, capo dell’Ufficio propaganda delle SS ed agente di Wolff: condannato alla deportazione nel penitenziario “Sanatorium” di Monaco, a seguito dell’intervento del generale Harster gli fu permesso di scontare la detenzione in Italia.

    Dopo sei mesi di prigionia a Verona, venne confinato come civile nel paesetto di Torri del Benaco, dove rimase anche dopo la conclusione del conflitto. In un suo memoriale affermò di essere stato arrestato «a scopo di rapina» da soldati statunitensi il 22 aprile 1947 proprio a Torri del Benaco, per poi essere rilasciato a seguito del pagamento di un riscatto.(fonte)

    [7]Antonino Trizzino (Bivona, 27 maggio 1899 – 1973) è stato un giornalista e militare italiano, ufficiale della Regia Aeronautica fino al 1941, quando le sue intemperanze comportamentali gli costarono l’espulsione dalle forze armate.

    Successivamente si dedicò all’attività di giornalista e scrittore di libri critici e accusatori di carattere militare, dove cercava di spiegare i perché della disastrosa condotta della marina e dell’aeronautica italiane durante la seconda guerra mondiale, attività che gli costò diversi processi per diffamazione.

    Nel 1920, a causa della prematura morte del padre, Trizzino interruppe gli studi di Ingegneria a Palermo e si arruolò nella Regia Aeronautica. Cinque anni dopo prese parte alla prima crociera aerea del Mar Mediterraneo e venne destinato ai reparti idrovolanti, dove conseguì il grado di maggiore, diventando ufficiale pilota. La sua carriera però venne ben presto segnata da due ammaraggi, il secondo dei quali quasi mortale, in seguito al quale riportò ben trenta fratture. Dopo una lunghissima degenza, nonostante il parere sfavorevole dei medici decise di tornare a pilotare, e andando contro gli ordini, decise con uno stratagemma di far sbarcare da un idrovolante un ufficiale di grado inferiore, per mettervisi ai comandi e dimostrare le ancora intatte capacità psicofisiche.

    Ciò gli procurerà molti problemi disciplinari, ma alla fine venne reintegrato in servizio e nel 1932 fu decorato con la medaglia di bronzo. Successivamente gli fu completamente preclusa la possibilità di tornare a volare per l’aeronautica in qualità di pilota e, nel tentativo di far fruttare l’esperienza militare acquisita, decise di cimentarsi nel campo del giornalismo di argomento politico e militare. Nel 1936 pubblicò il suo primo saggio, intitolato L’aviazione italiana nel Mediterraneo e in Africa orientale e parallelamente brevettò un dispositivo per il lancio da alta quota di siluri da aereo. L’entusiasmo di Trizzino venne presto disatteso da una controversia che lo contrappone al ministero dell’Aeronautica, che sostenne di avere la proprietà intellettuale del progetto e che Trizzino era solo l’incaricato di sorvegliare gli esperimenti presso il silurificio di Fiume.

    In data 5 marzo 1941 Trizzino subì il primo dei due Consigli di disciplina da parte dell’aeronautica per questioni di carattere morale, venendo degradato già al termine del primo Consiglio e quindi posto in congedo d’autorità anche a causa di numerose passate intemperanze personali che non deponevano a suo favore; questo fu solo l’inizio di una serie di vicissitudini giudiziarie che coinvolsero Trizzino da civile, il quale dopo aver chiuso malamente la parentesi militare della sua vita, decise di impegnarsi completamente nel giornalismo, manifestando sempre più chiaramente il suo favore nei confronti del fascismo. Durante la seconda guerra mondiale divenne giornalista e critico militare su diversi quotidiani, fra i quali Il Tevere, Il Tempo e il giornale fascista La difesa della razza. Dopo la caduta del regime si avvicinò agli ambienti del separatismo siciliano scrivendo il libro Che vuole la Sicilia? e di lì a poco sposò quelle idee pubblicando il volumetto Vento del Sud, con la prefazione di Andrea Finocchiaro Aprile.(fonte)

    [8] Attilio Tamaro. Nacque a Trieste il 13 luglio 1884, da Giovanni, di origini istriane, e da Giuseppina Gherlan, triestina.

    Pur appartenendo a una famiglia di modesta estrazione sociale, completò gli studi superiori nella città natale presso il ginnasio comunale poi intitolato a Dante, e proseguì quelli universitari a Graz: l’ateneo tergestino, per la cui nascita lo stesso Tamaro aveva condotta la propria giovanile lotta politica fin dal primo Novecento, sarebbe infatti stato ufficialmente istituito solo nel 1924. Si laureò in lettere nel 1906 con una tesi di argomento storico-artistico. Dopo una breve attività lavorativa quale bibliotecario nella provincia istriana – secondo taluni a Pola, secondo altri a Parenzo –, rientrò a Trieste nel 1907 per rimanervi fino allo scoppio della Grande Guerra.

    Quelli tra il 1907 e il 1914 furono anni di apprendistato giornalistico presso L’Indipendente e Il Piccolo e, soprattutto, di crescente impegno nella battaglia irredentista condotta sia sul piano politico che culturale (conobbe in quel periodo l’allora ‘triestino’ James Joyce) attraverso il ruolo di segretario della locale università popolare. L’incarico gli venne affidato per indicazione del Partito liberal-nazionale, all’epoca la forza politica maggioritaria nella realtà triestina, di cui era espressione lo stesso ‘podestà’ (sindaco) di Trieste, nel quadro dei poteri amministrativi periferici dell’Impero austroungarico. Nel suo complessivo svolgimento sarebbe risultata l’esperienza più importante dei suoi primi trent’anni. La svolse dal 1910 al settembre del 1914, quando, attraversato con documenti falsi il confine, si trasferì in Italia.

    Per Tamaro, al pari di altri giovani coetanei tergestini quali Scipio Slataper, Giani Stuparich, Ruggero Fauro Timeus, Spiro Xydias, l’entrata in guerra contro l’Austria significò l’arruolamento come volontario nel Regio Esercito italiano. La partecipazione alle azioni militari vere e proprie fu pressoché inesistente, ma – accanto a soggiorni a Parigi e Londra, per promuovere a nome di ambienti influenti del ministero degli Esteri le istanze italiane in vista del riassetto postbellico del Küstenland austriaco – ben presto emerse il ruolo di propagatore dei valori della patria, secondo uno spirito nazionalistico imbevuto nel suo caso di ingredienti sia antiaustriaci sia antislavi. Datano a quel periodo i primi scritti caratterizzati da quell’intreccio di sensibilità storiche, giornalistiche e soprattutto nazionalistiche che sarebbe poi rimasto nel corso del tempo la sua cifra peculiare: da L’Adriatico golfo d’Italia. L’italianità di Trieste (Milano 1915) a Le condizioni degli italiani soggetti all’Austria nella Venezia Giulia e nella Dalmazia (Roma 1915); da Il trattato di Londra e le rivendicazioni nazionali (Milano 1918) a La lutte de Fiume contre la Croatie (Rome 1918), per finire con la prima opera di un certo respiro: La Vénétie julienne et la Dalmatie. Histoire de la nation italienne sur ses frontières orientales (Rome 1918-1919).

    Poco prima dell’entrata in guerra si era sposato il 24 febbraio 1915 con Aurelia Conighi, dalla quale non avrebbe avuto figli.

    Terminato il conflitto ed entrato rapidamente in crisi lo Stato liberale sotto la spinta delle tensioni estreme del dopoguerra italiano, trovò del tutto naturale aderire al fascismo, tanto più in quanto – com’egli scriveva con qualche azzardo nel 1924 e avrebbe poi sostanzialmente ribadito una decina di anni dopo nella voce Irredentismo dell’Enciclopedia Italiana (XIX, Roma 1933, pp. 567-569) – «la storica azione del Partito liberale-nazionale triestino rassomiglia profondamente a quello che oggi è il fascismo, anche perché la parte più giovane e più combattiva realizzò già allora quell’azione che oggi si chiama squadrismo» (A. Tamaro, Storia di Trieste, II, Padova 1976, p. 460). Trascorse i primi anni Venti nella ripresa dell’attività giornalistica – risultando tra l’altro caporedattore degli organi di stampa nazionalisti Idea nazionale e Politica, e corrispondente da Vienna dal 1922 al 1927 de Il popolo d’Italia – e nella stesura dell’opera che l’avrebbe poi consacrato quale uno dei più noti pubblicisti di orientamento nazionalista dediti alla ricostruzione delle vicende storiche della propria città (Storia di Trieste, I-II, Roma 1924).

    Preparata in certo qual modo da precedenti incarichi informali svolti a Vienna, Berlino e nell’Europa orientale, risale al 1927 la svolta nella sua vita professionale e nel consolidarsi del legame con un fascismo ormai delineatosi come regime autoritario/totalitario. Per quanto già inserito dal febbraio di quell’anno nell’organico della diplomazia italiana, fu infatti tra i beneficiari (‘ventottisti’) della legge 2 giugno 1927, con la quale il governo modificò in profondità il precedente rapporto tra sé e la struttura diplomatica dello Stato, prevedendo l’ingresso e l’avanzamento nei ruoli delle ambasciate e dei consolati di un nutrito contingente di funzionari estranei al ‘cursus honorum’ tradizionale e nominati direttamente dal ministro degli Esteri, anche ovviamente sulla base della fedeltà politica al regime. Tamaro entrò così nei ranghi della diplomazia, ricoprendo in successione le funzioni di console generale ad Amburgo (1927-29) e di ministro plenipotenziario – grado sottostante solo a quello di ambasciatore – dapprima in Finlandia (1930-35) e poi in Svizzera (1935-43). Nella giovane repubblica scandinava, in particolare, ebbe modo di promuovere l’immagine del regime mussoliniano, assurto in Finlandia a modello di gruppi nazionalisti e anticomunisti quali il movimento di Lapua e il successivo movimento patriottico popolare.

    Attorno alla fine del 1934 sembrò che Benito Mussolini stesso intendesse inviarlo a Sofia. Ma poi, anche per quella che taluni ritengono l’ostilità personale del sottosegretario agli Esteri Fulvio Suvich (suo conterraneo e coetaneo), il progetto si trasformò nella proposta di un invio a Pechino – rifiutata da Tamaro – e infine alla sede di Berna, dove in effetti venne trasferito e sarebbe rimasto fino al maggio del 1943, quando ormai sessantenne fu messo a riposo. Si concludeva dunque, senza il raggiungimento di un grado e di una sede che esprimessero prestigio e riconoscimento da parte del regime, una carriera percorsa da Tamaro nella crescente amara consapevolezza di essere rimasto a livello nazionale (mentre a Trieste era da tempo riconosciuto quale figura di chiara fama) un outsider: soprattutto rispetto alle tradizioni di un mondo diplomatico ancora castale e legato al rango sociale di provenienza. Tradizioni che la stessa convinta adesione alle idee e alle ambizioni internazionali del fascismo non era valsa a scalfire.

    Sullo sfondo del crollo del governo di Mussolini gli venne ritirata la tessera del Partito fascista a causa, si ritiene, del prolungato rapporto epistolare che egli aveva intrattenuto sin dagli anni Trenta con l’imprenditore triestino di origini ebraiche Camillo Castiglioni. Anche in ragione del suddetto raffreddamento nei rapporti con il regime, non manifestò particolare simpatia per l’esperienza politica della Repubblica sociale italiana e, pur avendo fatto parte della compagine diplomatica nazionale durante il Ventennio, nel dopoguerra non patì effettive conseguenze per la propria passata militanza.

    Gli ultimi anni di vita, accompagnati tra l’altro dalla duplice delusione della sconfitta monarchica nel referendum del giugno del 1946 (peraltro da lui già preconizzata nei mesi precedenti) e della frantumazione dei territori nativi in una parte italiana e una iugoslava in seguito al ‘memorandum di Londra’ del 1954, vennero così dedicati alla ripresa dell’attività giornalistica (condotta in buona parte sotto gli pseudonimi Mario Giassi, Tergestino, Giusto Montemuliano) e alla stesura di opere tra storia e memorialistica riguardanti il biennio 1943-45 e l’intero Ventennio di regime. Si trattò di opere criticamente non solidissime, come d’altra parte gli scritti pubblici precedenti, ma che hanno fornito una miniera di riferimenti a fatti e documenti sia per lavori tecnicamente più appropriati relativi alla storia politica e sociale di Trieste che per imprese di ampio respiro quali la monumentale biografia mussoliniana di Renzo De Felice.

    L’animo profondamente nazionalista, che già nel 1920 lo aveva portato a esprimersi contro il trattato di Rapallo per la definizione dei confini tra Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, spinse un Tamaro ormai settantenne a una pubblica e netta presa di posizione contro il trattamento riservato all’Italia negli accordi di pace di Parigi del febbraio del 1947 (La condanna dell’Italia nel trattato di pace, Bologna 1952). Morì a Roma il 20 febbraio 1956.(fonte)

    [9] Nino Bolla. Nella notte tra il 13 e il 14 luglio, un Commando sbarcò ad Agnone, puntando direttamente sul San Leonardo, coperto dal cannoneggiamento del cacciatorpediniere Tetcott. Però questi uomini del SAS si scontrarono con gli uomini del 372° Btg. costiero, comandato dal Maggiore Nino Bolla, reparto agguerrito e determinato. Violenta, infatti, fu la resistenza di questo reparto e in suo aiuto vennero i tedeschi del 3° Btg. Paracadutisti della Goering, che erano atterrati da poco sulla piana di Catania con uno spettacolare aviolancio. Essi, con l’ausilio di una carro Tigre, bombardarono violentemente le postazioni degli inglesi che si erano incuneati tra quattro bunkers tenuti, appunto, dagli uomini di Nino Bolla.(fonte)

    [10] Francesco Aurelio Di Bella nacque a Roccalumera il 7 luglio 1914. Dopo aver conseguito la maturità classica presso il Liceo Maurolico di Messina si arruolò nella Regia Aeronautica.

    Nel mese di agosto del 1936 conseguì il primo brevetto di pilotaggio su idrovolante Caproni Ca.100 Idro, venendo successivamente trasferito presso la Scuola Centrale di Pilotaggio di Portorose (Istria). Nel marzo 1937 conseguì il brevetto militare, con la qualifica di sottotenente. Nel novembre dello stesso anno partì per la Spagna, inquadrato nell’Aviazione Legionaria, dove prestò servizio fino al marzo 1939 quando rientrò in patria. Per il servizio prestato in terra spagnola venne decorato con la Medalla Militar dal governo nazionalista, e ricevette la Croce di Guerra al Valor Militare dal governo italiano. Nel settembre dello stesso anno entrò a far parte del 10º Stormo Bombardamento Terrestre.

    Il 5 febbraio 1940 venne trasferito alla 253ª Squadriglia, 104º Gruppo, del 46º Stormo Bombardamento Terrestre al comando del colonnello pilota Umberto Nannini. Nello stesso Stormo militavano anche Carlo Emanuele Buscaglia (252ª Squadriglia) e Urbano Mancini (254ª Squadriglia). All’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, la sua squadriglia venne impiegata dapprima sul fronte francese, e a partire dall’ottobre dello stesso anno su quello greco. Per la sua attività bellica compiuta tra il giugno ed il novembre 1940 venne decorato con una Medaglia d’Argento al valor Militare.

    Il 23 febbraio 1941 partecipò ad un bombardamento su Florina, in Grecia, che aveva come obiettivo la locale stazione ferroviaria. Il suo aereo, un Savoia Marchetti S.M.79, fu colpito dal fuoco contraereo e dovette effettuare un atterraggio di fortuna in territorio jugoslavo, a nord di Spalato. Riportò gravi ferite, che ne condizionarono il resto della vita. Dopo poco tempo riprese servizio, e nel maggio 1941 chiese di essere trasferito ai reparti aerosiluranti.

    Dopo aver partecipato ad un corso di addestramento prese servizio presso la 283ª Squadriglia Aerosiluranti, creata nel luglio 1941. Come pilota di S.M.79 Sparviero, Di Bella ebbe il suo debutto operativo il 23 luglio quando 12 S.M.79 attaccarono nel Mediterraneo occidentale il convoglio britannico Substance diretto da Gibilterra verso Malta. L’aereo di Di Bella lanciò un siluro che colpì l’incrociatore leggero HMS Manchester danneggiandolo gravemente. per questa impresa fu citato sul Bollettino di guerra n. 415 e decorato con una seconda Medaglia d’Argento al Valor Militare concessa sul campo.

    Il 27 settembre partecipò ai tentativi di attacco contro il convoglio Halberd, tutti sventati dall’intervento dei caccia Fairey Fulmar di scorta. Per le sue attività tra il settembre ed il dicembre 1941 ricevette una terza Medaglia d’Argento al Valor Militare.

    Il 22 marzo 1942 partecipò alla Seconda battaglia della Sirte, rivendicando un siluro a segno su un incrociatore inglese, azione compiuta assieme al velivolo del tenente Roberto Cipriani. Questo fatto gli valse l’assegnazione di una quarta Medaglia d’Argento al Valor Militare. Ormai pluridecorato, partecipò alla Battaglia di mezzo agosto, dove per le sue azioni compiute contro il convoglio Pedestal tra il 12 e 13 agosto 1942 gli venne assegnata la quinta Medaglia d’Argento al Valor Militare.

    Il 7 ottobre 1942 fu trasferito, in qualità di istruttore, presso il 3º Nucleo Addestramento Aerosiluranti di Decimomannu, in Sardegna. Dopo lo sbarco degli alleati nell’Africa del Nord (Operazione Torch) rientrò in combattimento. Il 9 novembre partecipò a un’azione sulla rada di Algeri, avente come obiettivo le navi alla fonda. L’11 novembre attaccò, insieme ad altri velivoli, un convoglio in navigazione verso le coste nordafricane. Sganciato il proprio siluro solamente al terzo tentativo, rivendicò il danneggiamento di un grosso piroscafo. Le azioni si susseguirono incessanti fino al gennaio 1943 quando fu trasferito all’aeroporto greco di Kalamai, per addestrare i piloti del 104º Gruppo di Gadurrà, Rodi. Terminato l’addestramento rientrò a Decimomannu ai primi giorni di marzo.

    Il 19 giugno prese parte ad un attacco contro la rada di Gibilterra, effettuato partendo dall’aeroporto francese di Istres, in Provenza. Il 9 luglio prese il via l’invasione della Sicilia, ed il 16 dello stesso mese dieci S.M.79 attaccarono un convoglio in navigazione tra Capo Passero e Augusta. Con il velivolo fortemente danneggiato dai caccia avversari, dovette ammarare tra Capo Faro e le isole Eolie venendo tratto in salvo, insieme al suo equipaggio, da una motosilurante tedesca. Al capitano Di Bella venne attribuito l’affondamento di un piroscafo da 12.000 tonnellate carico di munizioni, e per questa azione venne decorato con la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

    L’8 settembre 1943 decollò da Foligno con il proprio velivolo trasferendosi in territorio controllato dagli alleati. Fu collocato in congedo nel luglio 1944.(fonte)

    [11] Gaetano Zingali (Francofonte, 10 gennaio 1894 – Catania, 15 febbraio 1975) è stato uno statistico, economista e politico italiano. Libero docente di Statistica (1922), fu incaricato di Statistica economica nel R. Istituti di Scienze economiche e commerciali di Catania (1922-’34), straordinario di Statistica dal gennaio 1925 nell’Università di Messina e poi in quella di Catania (ottobre 1925); divenne ordinario nel 1928.

    Divenne professore ordinario di Scienza delle Finanze e Diritto finanziario e incaricato di Statistica e demografia nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania dal 1935 fino al 1964. Fu membro del Consiglio Superiore di Statistica dal 1929 al 1943. Fu pure preside della Facoltà di Giurisprudenza di Catania dall’anno accademico 1932-’33 al 1936-’37.
    Fu deputato (1929-1939) e componente del Consiglio superiore della magistratura (1962-1966).(fonte)

    [12] Dwight David Eisenhower. Generale e uomo politico statunitense (Denison, Texas, 1890 – Washington 1969).

    Esponente del Partito repubblicano, fu presidente della repubblica statunitense (eletto nel 1952; confermato nel nov. 1956). La sua presidenza si caratterizzò per un allargamento delle competenze degli Stati e per misure di liberalizzazione dell’economia e, in politica estera, per il tentativo di contenere l’espansione del comunismo lanciando la cd. dottrina E., che offriva aiuto militare ai paesi del Medio Oriente.
    Durante la seconda guerra mondiale, diresse dapprima la divisione piani di guerra; successivamente (giugno 1942) fu comandante in capo delle forze americane in Europa; guidò le operazioni per lo sbarco nell’Africa del Nord (nov. 1942) e l’occupazione della Tunisia e dell’Italia (1943); nel dic. 1943 fu nominato comandante supremo delle forze di spedizione alleate in Europa. Capo di S. M. generale degli USA, dal nov. 1945 attuò la smobilitazione delle forze armate americane in Europa, lasciando l’esercito nel febbr. 1948. Dal maggio 1948 al genn. 1953 fu presidente della Columbia University. In conseguenza della tensione sempre più sensibile fra l’URSS e l’Occidente, il 19 dic. 1950 fu richiamato in servizio e nominato da Truman capo supremo delle forze armate del Patto atlantico. Candidato del Partito repubblicano nel luglio 1952, lasciò l’esercito e il 4 nov. 1952 fu eletto presidente della Repubblica, carica cui sarebbe stato confermato nel nov. 1956. In politica interna E. incoraggiò l’iniziativa privata e l’espansione industriale degli USA (che conobbe due recessioni, una breve nel 1953-54, e una più grave nel 1957-58). La promessa elettorale del pareggio del bilancio non fu mantenuta nonostante la riduzione delle spese militari, cui si sopperì con lo sviluppo delle armi nucleari strategiche e tattiche. I primi due anni della presidenza E. videro imperversare negli USA la reazione anticomunista fomentata dalle clamorose inchieste del sen. McCarthy ed esauritasi lentamente dopo la condanna di quest’ultimo da parte del Senato (dicembre 1954). Di grande importanza fu la decisione della Corte Suprema americana sull’incostituzionalità della segregazione razziale nelle scuole (1954), che favorì lo sviluppo del movimento antisegregazionista negli USA, come pure l’invio di truppe federali da parte di E. nell’Arkansas (1957) in occasione dei disordini razziali. Sul piano internazionale, al rigido anticomunismo del segretario di stato J. F. Dulles e all’estensione del sistema di alleanze occidentali (inserimento della Repubblica Federale di Germania nella NATO, accordi militari con la Spagna, costituzione della SEATO e del Patto di Baghdād, deneutralizzazione di Formosa, basi aeree in Groenlandia) E. affiancò i primi tentativi di distensione con l’URSS (vertice di Ginevra del 1955). Dopo la morte di Dulles (maggio 1959) accentuò il suo impegno in politica estera (viaggi in Europa, Asia e Nord-Africa nel dic. 1959, in America Latina ed Estremo Oriente nel 1960); l’avvio di un processo di dialogo con Mosca (visita di Chruščëv negli USA nel sett. 1959) fu tuttavia bloccato dall’incidente dell’U-2, l’aereo spia statunitense abbattuto nel maggio 1960 durante un volo di ricognizione sull’URSS.(fonte)

    [13] Bernard Law Montgomery, Generale inglese (Kennington Oval, Londra, 1887-Alton, Hamp­shire, 1976). Durante la Seconda guerra mondiale prese parte alla campagna di Francia (1940) e comandò in Gran Bretagna la difesa del settore sud-orientale. Dal 1942 fu a capo dell’8ª armata in Africa del Nord, dove guidò l’offensiva di el- ̔Alamein: fattore decisivo di questo successo fu il geniale impiego tattico dell’artiglieria nella fase preparatoria della battaglia. Partecipò alla campagna di Sicilia e d’Italia, organizzò il secondo fronte in Europa e, insieme a D.D. Eisenhower, diresse lo sbarco delle forze alleate in Francia (6 giugno 1944). Con una serie di abili manovre contribuì a respingere l’offensiva tedesca delle Ardenne (1944-45). Fu comandante in capo delle forze di occupazione in Germania e membro della commissione alleata di controllo (1945), poi vicecomandante supremo delle forze NATO (1951-58).(fonte)

    L’esecuzione ai Due Obelischi

    La storia dell’ingegnere Catanzaro che faceva parte della milizia e per un errore fatale venne fucilato
    di SERGIO SCIACCA

    Guerra e tragedie. Tragedie dovute non solo al nemico, ma anche al «fuoco amico», a decisioni repentine in momenti disperati. Quelli che vissero le giornate del 1943 a Catania ne conservano nitidi ricordi. Vogliono che ne conoscano i fatti anche i giovani, quelli che sempre meno studiano la storia, perché non sanno che essa è la registrazione della vita, che purtroppo si ripete, con tutti i suoi errori. La storia dell’ingegnere Giuseppe Catanzaro è una di quelle che merita di essere ripresa. Una vicenda di morte e di errori fatali che è stata chiarita, ma alla quale si possono ancora aggiungere altre note. Era nato a Gagliano di Enna nel 1901. Era sposato e aveva due figlioletti. Faceva parte della milizia con il grado di capomanipolo (tenente). Gli era stata affidata la difesa della Plaja: dal faro Biscari fino alle foci del Simeto, la cerniera più delicata per le sorti di Catania. Alle sue dipendenze una batteria che doveva respingere gli eventuali assalti navali e assicurare una attiva contraerea. Proprio in questa duplice competenza sta la causa che lo portò alla fucilazione. In quanto responsabile della difesa di superficie egli dipendeva dal comando dell’Esercito, in quanto addetto a rintuzzare gli attacchi dal cielo, rispondeva al comando dell’aviazione. Ma in tempi di crisi quando comandano in due, non vanno d’accordo tra di loro e al momento opportuno scaricano sui subalterni ogni responsabilità. Il comandante della piazza di Catania era un generale di ferro, Azzo Passalacqua. In quei giorni di terribile incertezza aveva stabilito ordini categorici per evitare qualsiasi sbandamento. Disciplina assoluta, sorveglianza continua e, perché non avvenissero fughe nei reparti, quattro appelli al giorno. Chi fosse trovato assente senza disposizione superiore fosse ricercato come disertore e fucilato. In caso di necessità si procedesse per le vie spicce, anche senza ricorso alla corte marziale. Del resto in guerra non si può procedere con le garanzie degli avvocati e dei ricorsi in appello. A Siracusa ed Augusta c’era stato lo sbandamento generale degli addetti alla difesa. Gli Alleati avevano occupato le postazioni senza colpo ferire, nel giro di qualche ora. Che cosa accadde a Catania? Di preciso non lo sapremo mai. I protagonisti hanno smesso di parlare, i documenti da loro lasciati danno adito a diversi dubbi. Fatto sta che il 14 luglio viene diffuso l’ordine di cessare ogni resistenza e ritirarsi. Poteva trattarsi di una comunicazione avventata che nel caos dell’assalto fu scambiata per un ordine; poteva trattarsi di un ordine autentico emanato dall’aviazione e non confermato dall’esercito. I testimoni dell’epoca raccontarono di avere visto diversi personaggi in divisa distribuire comandi scritti in questo senso. Qualcuno fu anche trovato e recava la scritta a macchina: «Ritiratevi. Ritiratevi. Il generale ha ordinato di ritirarvi». Certo gli ordini effettivi portano una firma, vengono consegnati da ufficiali responsabili. Il biglietto scritto a macchina poteva anche essere opera di una spia nemica o di un traditore. Come che fosse il manipolo alle dipendenze dell’ingegnere si ritirò e il suo capo con lui. Abbandonarono le bocche da fuoco, lasciarono elmetti e tutto il resto: anche i paioli del rancio rimasero a crepitare inutilmente sui fornelli. Nessuno nei bunker. Solo un cane lupo, chissà di chi, era rimasto in prima linea e si aggirava confuso tra le mitragliatrici. E gli uomini della milizia? Furono trovati a Capomulini, diretti a Messina. Alcuni furono trovati a casa in abiti civili. Poteva essere l’inizio della disfatta che il generale paventava. Se l’esempio si fosse esteso Catania sarebbe stata conquistata in poche ore, come Siracusa. Non doveva accadere. Bisognava dare un esempio. Forte. E fu dato. A tarda sera del 14 luglio fu arrestato il capomanipolo. Fu tradotto a villa Pantò, sulle alture di Barriera. Il mattino dopo fu processato. A presiedere il tribunale fu lo stesso generale Passalacqua; accanto a lui il comandante dell’artiglieria antiaerea Enzo Bonazzi e altri ufficiali. Il generale è nervoso, si alza dal tavolo e prende a passeggiare avanti e indietro nella sala. «Perché il capomanipolo era fuggito?» L’ingegnere rispose che aveva ricevuto l’ordine da Bonazzi che stava proprio lì e poteva confermare. Ma questa volta fu il seniore (tenente colonnello) Bonazzi ad andare su tutte le furie: egli non aveva mai impartito un ordine del genere. Forse a questo punto il capomanipolo si rese conto di essere in un vicolo cieco. Precisò: aveva ricevuto l’ordine per telefono, forse non era stato lo stesso Bonazzi a parlare, ma qualche suo aiutante. Nessuno di quelli che vennero menzionati confermò. Forse il comando era giunto in un momento di confusione da qualcuno che non era autorizzato a darlo. Non era pensabile per lui di effettuare accertamenti in quel frangente. Ma lui l’ordine lo aveva ricevuto. Non gli credettero. Forse in quello stesso tribunale qualcuno non volle credergli per coprire le proprie responsabilità. Fatto sta che la sentenza venne subito emessa. Fucilazione. E fu subito eseguita. Con qualche difficoltà perché bisognò trovare un plotone di carabinieri e un ufficiale dell’Arma per eseguire la condanna secondo le regole. Ci vollero due ore per trovare i militari. Poi una rapida corsa in macchina fino ai due obelischi di Barriera. Lo slargo fu sgombrato, il condannato fu posto faccia a muro presso l’obelisco più a nord. Erano le 10 e mezza del mattino. La gente era stata allontanata, ma molti guardavano dagli spiragli di porte e finestre. Subito dopo l’esecuzione il comandante Catanzaro fu sepolto nel vicino cimitero di S. Agata li Battiati. Ma la storia non finì qui. La vedova non si dava pace. Molti conoscevano l’ingegnere e sapevano che non avrebbe mai tradito deliberatamente. Una attestazione inedita ci viene racc contata dall’allora aviere Vincenzo Pavone, che dalla propria ricca esperienza di guerra trasse un vasto memoriale entrato a far parte dell’archivio aeronautico: «L’ingegnere Cannizzaro era un idealista. Credeva fermamente nei valori della patria. Si distingueva da quelli che si erano accostati al regime per opportunismo. La sua faccia simpatica ispirava fiducia». Non resta che pensare se non che l’ordine di ripiegamento partì effettivamente dall’aviazione e poi fu rapidamente negato, infierendo su un capro espiatorio che doveva pagare al posto dei veri responsabili. Perciò a guerra finita la vedova intentò causa per fare dichiarare l’errore giudiziario. Esaminati con calma gli atti fu riconosciuta la legittimità dell’operato del capomanipolo che fu «reintegrato nel suo onore di soldato e nella stima di chi conoscendolo ne aveva apprezzato i nobili sentimenti e il profondo attaccamento al dovere». Si era nel 1955. Il clamoroso caso poteva essere lo spunto per una revisione incisiva della procedura penale in tempo di guerra (specialmente per eliminare la non perseguibilità penale dei responsabili di errori): ma la politica del tempo procedeva verso altro senso. Non fu fatta alcuna revisione del codice. Tutti i dettagli della dolorosa vicenda si trovano nell’accurata analisi storica «La guerra a Catania» di Salvatore Nicolosi (che fu capocronista della nostra testata) pubblicata nel 1983. Il tempo da allora è stato galantuomo con il nobile patriota: la piazza che vide il suo martirio porta adesso il suo nome, la sua tragica storia dette avvio a un progetto di riforma costituzionale che adesso trova applicazione nel diritto internazionale. E soprattutto resta il ricordo di una personalità schietta che credeva nei valori positivi e cadde vittima di meschine manovre: «Dal martirio della sua innocenza / grandioso monumento la sua alma s’ergea – è scritto sulla sua lapide – implacabile anatema della guerra»: e la figlia Cleide, che adesso è una fine scrittrice di romanzi tra storia medievale e sentimenti delicati, rievoca dalle memorie familiari il suo affabile sorriso, l’allegria spontanea, la dolcezza paterna con cui scriveva il suo nome sull’abat-jour. Un nome insolito, ripreso dalle liriche della più grande poetessa di Grecia, che amava le gioie della vita e detestava gli orrori della guerra.

    Dal giornale LA SICILIA di venerdì 12 settembre 2003 (fonte)