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Gregorio Gasparoli. Il Poligrafo. 1841

    Gregorio Gasparoli. Il Poligrafo. 1841
    07
    « di 11 »

    ILLM. LUCCIOLI
    INGEGNERE

    IL
    POLIGRAFO

    SESTINE

    Di

    G. GASPAROLI

    3

    IL POLIGRAFO


    1. Donne mie care, gran secolo è questo !!!
      Udite, udite, un’ altra novità … 
      È uscito fuori un altro manifesto,
      Una nuova scoperta eccovi qua …
      Scoperta, son per dir, se non eguale
      Poco men della macchina infernale !

    2.
    Misericordia !!! gridate – Ma no
    State tranquille; ho un poco esagerato:
    Il manifesto or qui vi mostrerò ,
    Statemi attente, non traete fiato
    Altrimenti spiegarvelo non posso
    Perchè tratta d’ un affare grosso.

    3.
    È un mostro ch’ è venuto al mondo or’ ora,
    E Poligrafo è detto in Greca voce;
    Un mostro? – Sì, ma zitte alla buon’ ora
    Che non è mica una bestia feroce.
    Mostro, in latino, significa cosa
    Non mai veduta , e quasi prodigiosa.

    4

    4.
    Se voi Donne studiaste ( com’ è stato
    In altri tempi ) il greco ed il latino,
    Noi maschj non avremmo invan studiato.
    Il Gretseri[1], il Porretti[2], e il Calepino[3].
    Nè dovrebbero i dotti a voi davanti
    Il linguaggio parlar degl’ ignoranti.

    5.
    Benedetti quei tempi in cui fioria
    Una Baffo[4], un’ Aspasia[5], una Corinna[6] !
    Una Donna a quei giorni non servia
    Solo per dare ai bamboli la zinna ;
    Ma sapea con parole argute e gravi
    Tenere a bada a un tempo i sette savi.

    6.
    Folle è però colui, che questo crede
    Il secolo dei lumi, e del progresso ;
    Se una scienza va innanzi, un altra cede:
    Il mondo si mantien sempre Io stesso .
    E sott’ occhio l’ esempio ne vedete ;
    Noi andiamo avanti , e voi non vi movete,

    7.
    Ma tronchiamo il discorso, che non merta
    Trattenerci di cosa disgustosa;
    Ritorniamo a parlar della scoperta ;
    E se intender volete qualche cosa ,
    Nè sapeste scoprirvela da voi ,
    Lasciate far , la scopriremo noi .

    8.
    Si tratta dunque di tale invenzione ,
    Che alla stampa darà lo scacco matto ;
    È una tal macchinetta in conclusione ,
    Che lo scritto moltiplica in un tratto
    Con cento penne , che con modo strano
    Seguono il moto d’ una sola mano.

    9.
    Bella cosa veder sii cento carte
    Con modo velocissimo , e leggiero
    Muoversi quelle penne, e con tal’ arte ,
    Che a prima vista nol direste vero ! ! !
    Che bella cosa, o donne, il veder è
    Cento penne che scrivono da sè ! ! !

    10.
    Tanti scrittor di versi , che non hanno
    Coraggio di stampar l’ opere loro ,
    Quanto tempo di meno perderanno
    Per copiare in polito il lor lavoro ,
    Che debbono mandar , com’è ben giusto
    Alle amiche , ed amici di buon gusto ?

    11 .
    Qual darà mai sollievo agli avvocati
    Ai Curiali, ai Copisti, ed ai Cursori,
    Che il più dell’ anno sono affaccendati
    Per risparmiar fatiche ai Stampatori
    Occupati dì e notte poveretti
    A stampar tanti classici sonetti.

    6.

    12.
    Con qual premura le daran di piglio
    I nostra Segretarj di città
    Per invitarci tre volte a consiglio ,
    Siccome è l’ uso di formalità ?
    Dico formalità, perchè in adesso
    O ci si vada o no tanto è lo stesso.

    13.
    Egli è un peccato che invenzion sì bella.
    Non serva ai professor di medicina !
    La non sarebbe gíà una bagattella
    Potere un professore ogni mattina ,
    Scriver cento ricette in meno che
    Non si sorsa una tazza di caffè ! ! !

    14.
    Nell’ andare a far visita al malato
    Quanto tempo di men perder dovria!
    Appena avesse il polso un po’ tastato
    Trarria di tasca una ricetta, e via . . .
    Prendetela a cucchiari . . . oggi ritorno . . .
    Potria far mille visite in un giorno.

    15.
    Ma adesso ché quest’ arte è divenuta ,
    Come dicono alcuni , un’ impostura ,
    La generale panacèa è perduta ,
    Esige ciascun mal diversa cura ,
    E un medico vi fa se ci si mette
    Per un sol male quindici ricette.

    7

    16.
    E perde tanto tempo nel pensare
    Di qual indole è il mal, da che provenga ,
    Che un di non basta per determinare ,
    Se più questo o quel farmaco convenga ,
    E spesso avviene , che mentre il Dottore
    Fa la ricetta, l’ammalato muore.

    17.
    Ma vivaddio, mi sento dir da voi ,
    Se giova ai giusdicenti , ed ai poeti ,
    Perché rompete le saccoccia a noi ?
    Noi non scriviam sonetti , nè decreti ;
    Per noi consiste la segreteria
    In pochi affari di galanteria.

    18.
    E degli oggetti ce ne occorron tanti,
    Ma non già macchinette , o rococò ,
    Per scriver delle lettere galanti
    Non ci vogliono macchine, ci vuò
    Papier badi parfume , tre cher monsieur ,
    Plumes d’ argent brevetées, et encre bleu
    .

    19.
    Eh ! andate là che non ci avete grazia ;
    Non sappiamo che far del vostro arnese ;
    Uomini , e oggetti ch’ hanno la disgrazia
    Di non sentire un poco del Francese ,
    Ci sono senza tanti complimenti ,
    Antipatici , o almeno indifferenti.

    8

    20.
    E direste anche peggio , già Io so ;
    Chè quando incominciate a tirar giù ,
    O che v’ assista la ragione o no ,
    Poveri noi , non la finite più ;
    Però di prevenirvi ho divisato
    Per non farvi gettare il tempo , e il fiato.

    21.
    Io non sono, e il sapete , un cicisbeo
    Di quei che van quà e là come farfalle ;
    Non dico d’ esser già Giuseppe Ebreo ,
    Perchè alle donne non volto le spalle ;
    Ma non vò da una donna , se non c’è
    Una qualche ragione, ed un perchè.

    22.
    Nè son così balordo, che qualora
    Un presente un cadò di far m’accada,
    lo voglia offrire, in specie a una Signora,
    Una cosa che in regola non vada ;
    Però se vi presento questa quà
    Persuadetevi pure , che ci va.

    23.
    Ma se giova anche a noi ( ripiglierete )
    Perchè mai v’ è saltato in testa il cricco
    Di tacerlo fin qui? Perchè volete
    Che la sorsiamo a guisa di lambicco ?
    Non sarà cosa poi di tal momento
    Da farcela cader dal firmamento ! ! !

    9

    24.
    Eh Donne mie ! se conosceste il mondo
    Non mi dareste certo una tal critica ;
    Pajon le ciarle inutili , ma in fondo
    Altro non son che un tratto di politica ;
    E se con queste non vi si trastulla
    Care , da voi non ci si cava nulla.

    25.
    Senza un poco di ciarle, sembrerebbe
    Ogni materia priva d’ interesse ;
    La rettorica a che ci servirebbe
    Se ogni cosa alla prima si dicesse ?
    Io so che più a ciarlare mi riesce
    Più l’ interesse, e la materia cresce.

    26.
    Se per esempio un nostro contadino
    Vuol cavar del danaro al suo padrone ,
    Si presenta facendogli un inchino
    E incomincia alla lunga il suo sermone ,
    E giurereste che venuto sia
    A trovare il padron per cortesìa.

    27.
    Incomincia a parlar della raccolta ,
    Che si spera ubertosa , ed abbondante.
    – Dell’uva ?- Oh! ce n’è più dell’altra volta;
    – Delle olive? – Ih! son cariche le piante.
    E poi che gli ha la testa riscaldata
    Sotto mano gli tira la stoccata.

    10

    28.
    Se un Avvocato vi vuol dar la mossa
    Onde farvi imbarcare in una lite ,
    Non dice già, che vuol mangiarvi l’ ossa ;
    Ma con frasi accademiche e polite ,
    Vi moverà un discorso , onde provare
    Ch’ egli è da vile il farsi soverchiare.

    29.
    Se un viaggiator librajo , com’ è stile ,
    Vorrà farvi firmare un manifesto ,
    Vi si presenterà tutto gentile ,
    E ai tue altro parlerà che questo ;
    Nè conoscendo lui, nè l’ intenzione
    Vi /netterete forse in soggezione.

    30.
    Dirà che vi ha per fama conosciuto
    Perchè di voi si parla in ogni parte . . .
    Che sui fogli un articolo ha veduto . . .
    E intanto tira fuori le sue carte ,
    E con questi, e con simili balocchi
    Vi farà firmar giù siccome allocchi.

    31.
    Se a voi si presentasse un uom galante
    Con profumato crin, faccia pelosa ,
    E senza complimenti , al primo istante ,
    Che so io ? . . . vi chiedesse qualche cosa;
    Voi gli rispondereste al primo tratto
    ”Amico voi scherzate, o siete matto !

    11

    32.
    Ma se dopo esauriti i complimenti
    Che richiedo il bon ton, la civiltà ,
    Vi provasse con frasi commoventi
    Che l’averla è per lui necessità ,
    ( Se fosse cosa che darla poteste )
    Son persuaso che glie la dareste.

    33.
    E di far così appunto io m’ avvisai
    Quando vi presentai questa invenzione ;
    Da principio alla larga la pigliai ,
    Ma per dirvela aveva l’ intenzione
    Di portarvi bel bello ( e mi riuscia )
    Ad acquistar la macchinetta mia.

    34.
    Perchè dopo parlato., come ho fatto ,
    Per destarvi un pochino d’interesse ,
    Del come giovi altrui , di tratto in tratto
    Guardato avrei ch’ effetto vi facesse ,
    E abbordato v’ avrei dopo veduto
    Che quel tale interesse era cresciuto.

    35.
    Allora avrei incalzato l’ argomento
    Dicendo in che giovare a voi potea ,
    Ed ottenuto avrei forse l’ intento ;
    Ma or m’ avete interrotta l’ idea
    Con tante , e tante ciarle, e ci scommetto
    Che a dirvel’ ora non vi fa più effetto.

    12

    36.
    Avete mai veduti a tavolino
    Un poeta, o di musica un maestro
    Invasi da uno spirito divino ,
    ( Quel che in volgare voi chiamate l’estro )
    Scrivere mentre il parosismo dura
    Versi e note da mettere paura?

    37.
    Eppur se accade che un menomo oggetto
    Li distragga dall’estasi in cui sono ,
    S’ offusca loro il genio e l’ intelletto ,
    L’un dimentica il metro , e l’altro il tono ,
    E scrivon quelle cose, che ci fanno
    Sbadigliar senza sonno il più dell’anno.

    38.
    E da che mai credete che provenga
    Che s’odon versi che fanno pietà ,
    E musiche, che Dio lungi ne tenga ?
    Da difetto di spirito non già ,
    Che i Poeti , e i Maestri sarian buoni ;
    È proprio effetto delle distrazioni ! ! !

    39.
    Ed io parlo per prova, giacché so
    Che quando di parlar con voi mi tocca ,
    So mentre al meglio del discorso io sto
    Saltate fuori a metterci di bocca ,
    Benchè abbia tanto spirito e talento,
    Non trovo più la bussola del vento.

    13

    40.
    Ma che vi ci ho da far? Ci vuoi pazienza !
    Il poco che mi resta or tiro giù ,
    E se non mi vorrete dare udienza ,
    Volto le spalle, e non ci penso più .
    Attente dunque, e non m’ interrompete ,
    O vi mando … e in che luogo lo sapete.

    41.
    Vorrete per esempio lucidare
    Un disegno che in man v’ è capitato ?
    Più alle fenestra non dovrete stare
    Mezz’ora per averne un duplicato ,
    Ma standovi sedute, in un momento
    Colla macchina mia ne avrete cento.

    42.
    Volete andare alla villeggiatura ?
    Le vostre amiche lo dovran sapere ,
    Scriverlo a tutte? – il so , vi fa paura ,
    Son tante ; ma che il sappiano è dovere . . :
    – Come si fa ? – Con questa, Dio v’ajuti ,
    Fate una circolare in tre minuti.

    43.
    Volete dare un circolo , una festa ?
    Dirmi potrete voi – Stampo il biglietto -;
    Ma io so che in circostanza come questa.
    Una lettera scritta fa più effetto ;
    Perchè chi della macchina non sa ,
    Un riguardo maggior sel crederà.

    14

    44.
    Eh! che burlate !!! Un uomo che si vede
    Con biglietto invitar scritto da voi
    È un filosofo marcio o non crede
    Che spasimate per i fatti suoi ;
    Anzi sarà un miracolo se quello
    Di, volta non farà dargli al cervello.

    46.
    E gioveravvi in cento altre occasioni ,
    Che qui tralascerò per brevità :
    Ma, perchè temo che le mie ragioni
    Non v’ abbiano, convinte che a metà ,
    Per non lasciarvi nè crude nè cotte ,
    Or dò il colpo di grazia , e buona notte.

    46.
    L’ inventore , mie care è un italiano ;
    S’ anco non meritasse l’ invenzione
    D’aver la firma della vostra mano ,
    Fatelo per onor della nazione :
    Che cosa alfine ci rimetterete
    Se per riguardo glie l’accorderete ?

    47.
    È ver che alfine poi non ha inventato
    La bussole , o la polvere da schioppo ;
    Ma riflettete che in un tempo è nato
    Che non ci resta più da scoprir troppo ;
    Che a furia di scoprire in scienze e in arti
    Siam già scoperti da tutte lo parti.

    15

    48.
    Anzi io che ho letto bene il manifesto ,
    Ho capito dal modo come scrive ,
    Che un’ altra cosa troverà ben presto ,
    E ch’ è un Uomo che sa come si vive.
    Deh ajutatelo voi con man pietosa
    Così vi scoprirà qualche altra cosa.

    49.
    S’ egli era un palloncin pieno di vento ,
    Come hanno fatto già Volta , Galvani ,
    Mesmer , Guillot , Daguerre , ed altri cento
    Inventori Francesi , ed Italiani ,
    Esso che Strona è detto almeno avria
    Chiamata l’ arte sua Stronografia .

    50.
    Ma vedete modestia ! ! ! il mondo intanto
    Ha una nuova scoperta , e non sa come ,
    E Voi ( se non foss’ io stato da tanto
    Da dirvi la sua patria ed il cognome )
    Voi stesse , nientemeno che si tratta ,
    Che nono sapreste dir chi ve l ‘ha fatta.

    51.
    Ma donne mie sbrighiamoci che , ho fretta ,
    Ditemi un sì per questa volta ancora.
    Fornitevi di questa macchinetta ,
    Firmate il manifesto alla buon’ ora ;
    Prendetela com’ è , sia dritta o storta ,
    se non glie la pagate non importa.

    Si permette la stampa
    Li 21 Agosto 1841
    Pel Direttore di Polizia
    L. Valeri ff.

    IMPRIMATUR
    P. Fr. Hyac. Borg. Vic. P. M. S. P. A.

    IMPRIMATUR
    G. Petochi Vic. Gen.

    Paolo Aldo Tabarrini
    Viterbo


    Autore:

    Gasparoli Gregorio.

    Editore:

     Tipografia Tosoni

    Luogo di stampa:

     Viterbo.

    Anno:

     1841

    Formato:

    chiuso cm 9,5 x 13,5. In – 8 f. Pagg. 16.

    Note:

     Opuscolo in discrete condizioni. Copertina morbida rilegatura con punto metallico 

    Argomenti:

     Promozione invenzione del Poligrafo


    Note

    [1] Jacob Gretser (Markdorf, 27 marzo 1562 – Ingolstadt, 28 gennaio 1625) è stato un drammaturgo, teologo e storico tedesco.
    Nacque a Markdorf, nella diocesi di Costanza ed entrò a far parte della Compagnia di Gesù dal 1578 dopo aver effettuato il seminario a Innsbruck. Visse prevalentemente a Ingolstadt, dove insegnò per tre anni filosofia, per quattordici anni teologia dogmatica e per sette anni teologia morale, e per qualche tempo a Friburgo, in Svizzera, dove insegnò lettere.

    Come religioso scrisse numerosi lavori teologetici-apologetici, a sostegno della Chiesa cattolica e del Bellarmino ai tempi della Controriforma. Fu coinvolto pienamente nelle più importanti controversie religiose e politiche del suo tempo, dimostrandosi un grande estimatore del papa Clemente VIII e dell’imperatore Ferdinando II. I suoi scritti religiosi più significativi risultarono la Controversiarum Roberti Bellarmini S. R. E. cardinalis amplissima defensio (1606) e il De cruce Christi (1598), nel quale polemizzò con i Protestanti ed il loro rifiuto del culto della Croce.
    Molti dei più importanti e potenti uomini, a lui contemporanei, lo consultavano prima di assumere decisioni e tenevano con lui assidui carteggi.(fonte)

    [2] Ferdinando Porretti (Padova, 1684 – Padova, 25 febbraio 1741) è stato un latinista, scrittore e teologo italiano. Nato nel 1684 a Padova, dopo gli studi in lettere e scienze presso il Seminario della città ottenne la laurea dottorale in teologia.
    Nominato pubblico precettore della città di Padova, è ricordato per le sue due opere più importanti: la Grammatica della lingua latina e la Prosodia. La Grammatica fu scritta in volgare con la forma di dialogo e venne dedicata ad Angelo Querini, politico e patrizio veneto di cui il Porretti fu precettore privato. Con l’aggiunta della seconda parte, la Prosodia, Porretti ebbe così successo che già solo vent’anni dopo la sua morte si contavano 11 ristampe.
    La Grammatica del Porretti fu un manuale fortunatissimo, che sopravvisse e continuò ad essere stampato fino alla seconda metà dell’Ottocento, diventando il testo principale su cui si formarono generazioni di studenti delle scuole pubbliche italiane. La sua fortuna fu dovuta ad un metodo innovativo: il Porretti, allontanandosi da uno stile di insegnamento della lingua latina che prevedeva di far studiare ai fanciulli in tenera età i grandi classici senza averne gli strumenti, tentò di rendere l’apprendimento immediato basando i dialoghi del suo manuale su possibili esperienze quotidiane e vicine alla vita dei giovani allievi. Non tutti gli intellettuali dell’epoca accolsero l’innovazione del Porretti con favore, Monaldo Leopardi, filosofo controrivoluzionario padre di Giacomo, in un capitolo della sua autobiografia, sotto l’eloquente titolo di “L’antico metodo non deve cambiarsi”, criticò il padovano asserendo che fosse più proficuo uno studio “lungo e noioso” del latino.
    La Grammatica del Porretti diventò in Italia, in ogni caso, la grammatica latina per antonomasia, e numerosi furono i riferimenti popolari, basti pensare al melodramma di Luigi Ricci, Gli esposti, del 1834, o alle Commedie di Giovanni Giraud.
    Ferdinando Porretti morì all’età di 57 anni, il 25 febbraio 1741, e venne sepolto nella chiesa della beata Vergine del Torresino a Padova.(fonte)

    [3] Ambrogio Calepio, detto il Calepino. Figlio naturale del conte Trussardo, primo feudatario della Val Calepio, nacque probabilmente intorno al 1435 e fu battezzato con il nome di Giacomo. Legittimato dal padre insieme col fratello Marco, come appare dal testamento che Trussardo stese nel 1452, entrò col nome di Ambrogio nell’Ordine degli eremitani agostiniani nel 1458, seguendo una abitudine assai comune per i cadetti delle famiglie nobili. Novizio a Milano nel convento dell’Incoronata, passò poi due anni a Mantova (1461-62); fu a Cremona nel 1463 e a Brescia nel 1464-65, e di nuovo a Cremona nel 1466, dove fu ordinato sacerdote. Ritornato a Bergamo, si dedicò intensamente allo studio: qui compose il Dictionarium latinum, pubblicato poi nel 1502dallo stampatore reggiano Dionigi Bertocchi.

    Il contratto per la prima edizione dell’opera fu steso il 5 giugno 1498 a Bergamo, nel convento di S. Agostino, dove il C. era frate. La famiglia dei conti Calepio, evidentemente interessata ad un lavoro che le avrebbe recato lustro, s’interessò direttamente all’impresa. Infatti Andrea, figlio di Nicolino e nipote del C., s’impegnò a pagare al Bertocchi la somma di 160 ducati d’oro, in cinque rate, quale contributo alle spese, trattenendo per sé il ricavato della vendita di metà della tiratura, prevista in 1.600 copie (l’altra metà sarebbe andata allo stampatore). Questi avrebbe dovuto però trasferire i suoi torchi a Bergamo, perché la composizione e la stampa avvenissero sotto il controllo dell’autore. Tra i testimoni all’atto vi è un altro dei Calepio, Bartolomeo, canonico della cattedrale di Bergamo e “doctor decretorum”, evidentemente presente in qualità di legale. Della vita del C.non si hanno, dopo questa, altre notizie: nessun documento che lo riguardi esiste nell’archivio della famiglia, e ciò è abbastanza naturale, data la sua origine non legittima e la sua vita ritirata. La morte può essere collocata, sulla base di una lettera (Arch. della proc. generale dell’Ordine in S. Maria del Popoloa Roma), tra la fine del 1509 e l’inizio del 1510. Infatti, nel documento, che reca la data del 31 genn. 1510 padre Giovan Gabriele da Martinengo, scrivendo all’allora procuratore generale Giovan Benedetto da Ferrara, chiede che si preghi per l’anima di frate Ambrogio, da poco scomparso. Il dizionario latino del C. apparve a stampa nel 1502col titolo: Ambrosii Calepini Bergomatis Dictionarium, impressum Regii Longobardiae: industria presbyteri Dionisii Bertochi impressoris. An. MDII (in folio, senza numerazione di pagine). L’autore vi aveva lavorato almeno dagli anni immediatamente anteriori al 1487, data cui risale un primo abbozzo manoscritto autografo del futuro dizionario. La stampa, molto trascurata, e lo stesso successo dell’opera (che tra il 1502 e il 1509ebbe nove edizioni) indussero il C. a correggere e rifare il lavoro. Il rifacimento era pronto nel 1509quando il C. morì. Mentre il Dictionarium continuava a esser ristampato, anche fuori di Italia (15 altre edizioni tra il 1509 e il 1520), i fratidel convento di S. Agostino di Bergamo, in possesso dei quali era rimasto il manoscritto corretto, trattavano per una nuova stampa, che si ebbe a Venezia nel 1520 presso lo stampatore Bernardino Benaglio, sotto il titolo: Ambrosius Calepinus Bergomensis, dictionum Latinarum, et Graecarum interpres perspicacissimus, omniumque vocabulorum insertor acutissimus (seguono la data, 10 marzo 1520, e altre indicazioni; anche questa edizione fu in folio). Secondo Agostino Salvioni, “questa edizione… deve essere tenuta l’unica, la genuina, ed originale, sulla quale il Calepio vuol essere giudicato”. Negli anni posteriori alla prima edizione, il C. lavorò anche a un vocabolario latino-italiano, restato manoscritto.
    La fonte materiale e ideale del dizionario del C. è data dalla Cornucopia di Nicolò Perotto e dalle Eleganze di Lorenzo Valla. Col Perotto e col Valla il C. condivide il proposito di porre fine al gergo delle scuole, di restaurare la latinità classica. Il dizionario intende offrirsi come guida a chi intenda risalire, oltre l’età di mezzo, alla classicità.
    La latinità del C. si estende da Plauto a Tacito, ai grammatici e, scavalcando il latino tardo e medievale, al latino umanistico, di Valla e Perotto, citati come auctores accanto ai classici. Non ci troviamo dinanzi a un lessico, nel senso moderno del termine, ma piuttosto dinanzi a una mescolanza di lessico ed enciclopedia antiquaria (e non solo): questa appare perché il dizionario include un onomastico (antroponimi, toponimi ecc.), ed anche perché in voci propriamente lessicali sono altresì frequenti le digressioni di tipo enciclopedico (per es., s.v. pingo è accennata una storia della pittura antica e quattrocentesca).
    L’opera ebbe traduzioni in italiano (nel 1533, a Venezia, apparve quella di Lucio Minerbi), ma soprattutto rifacimenti e adattamenti bi e plurilingui, che aggiungevano, accanto al lemma latino, i corrispondenti greci, ebraici (raramente) e dei vari “volgari” europei. Un più sistematico Calepinus septem linguarum (latino, greco, ebraico, italiano, tedesco, francese, spagnolo) fu redatto nel Settecento da I. Facciolati, maestro del Forcellini.(fonte)

    [4] Franceschina Baffo, Nacque ai primi del sec. XVI a Venezia, forse da Girolamo Baffo, che fu provveditore e capitano in Napoli di Romania e poi senatore. Oltremodo scarse le notizie biografiche. Raggiunse il vertice della carriera letteraria nel decennio compreso fra il 1543 e il 1552, come si ricava da numerose testimonianze che sottolineano una posizione di notevole prestigio intellettuale, se ancora nel secolo successivo Francesco Antonino Della Chiesa ricordava che “fiorì con sì gran fama di dottrina e scienza che molte persone illustri da lontani paesi andarono a quella Città per visitarla e conoscere in lei gli effetti di quelle meraviglie che molti racontavano”. Poi il suo nome scompare nella Venezia ormai dominata dalla fervorosa spiritualità dell’Accademia della Fama e pervasa dai brividi ascetici del Fiamma e del Magno. La dimenticanza dové precorrere così la morte di questa modesta scrittrice, la cui attività non varcò le soglie della prima metà del secolo.
    Arbitra di questioni d’amore appare nel Dialogo amoroso del Betussi (Venezia 1543)insieme al Pigna e al Sansovino, mentre nel Raverta dello stesso autore essa è piuttosto una garbata suggeritrice di problemi che alternerà con piacevoli aneddoti e favole cortesi. Il Doni se ne deliziava (“Io stupisco, io rinasco, io risuscito. Che mie rime, o mie lettere? Ohimé ch’io sono fatto guasto d’amore di voi perché m’avete abbagliato con la fama, con gli scritti e con l’opere; e sebbene io non vi guato con gli occhi io strabilio con la memoria”) e non esitava a inserire la lettera alla B. – che contiene un gustoso autoritratto di maniera bernesca – nei Pistolotti amorosi (1, Venezia 1522, C. 12),mentre il Brevio ne scriveva con entusiasmo al Domenichi (Della nuova scielta di lettere di diversi di Bernardino Pino,II,Venezia 1574, p. 331). Dettò rime d’amore per un Camillo, uomo d’armi al seguito di Guido Rangone, di cui la B. pianse la lontananza: “Ma poi che tolta n’è l’amata vista / E che privo di voi n’ha rio destino, / Onde in van duolsi ognor l’alma mia trista, / Sovengami talor di noi vicino, / Che lo star senza voi troppo n’attrista / E perciò porto gli occhi e il viso chino”. È un motivo sincero d’affetto in un esiguo canzoniere che non spiacque ai contemporanei e neanche al sicuro gusto letterario di qualche settecentista.(fonte)

    [5] Aspasia (‘Ασπασία, Aspasia). Di questa donna, il cui nome ebbe tanta risonanza anche nelle letterature moderne, conosciamo in realtà assai poco. Nel deterrminarne la figura abbiamo la scelta fra due gruppi d’informazione: a) un gruppo che proviene dal circolo socratico e che consta, oltre che di frammenti, anche di un dialogo forse platonico (il Menesseno) e di due passi di Senofonte (Memorabili, II, 6, 36; Economico, III, 14); b) un gruppo che proviene dai comici, Cratino ed Eupoli (rispettivamente fr. 241 e 274 Kock), e Aristofane. Il primo gruppo è encomiastico, il secondo denigratore. La natura così diversa delle due fonti spiega la difflerenza dei giudizî. Ma in realtà non è neppure necessario di scegliere, perché le ingiurie dei comici confermano le lodi dei socratici. Impossibile è invece assodare fatti precisi. Così rimane incerto se Pericle, il quale era precedentemente sposato con moglie nobile e ne aveva avuto due figli, si unisse o no con A., dopo il divorzio, in nozze legittime. Certo è che A. non era ateniese, ma di Mileto; figlia di un Assioco. Certo che generò a Pericle un figlio, ch’ebbe il nome del padre. Questo figlio, per un decreto anteriore di Pericle stesso (451-50 a. C.), non poteva avere diritto di cittadinanza anche solo perché la madre non era ateniese. Pericle però ottenne nel 430 che da quel decreto si derogasse in favore del figlio di A.; il quale fu dunque iscritto fra i cittadini, e nel 407 era addirittura stratego: fu anzi allora uno degli ammiragli condannati per la battaglia delle Arginuse (v.). Le relazioni fra Pericle e Aspasia furono dunque posteriori al 450. Furono anteriori al 441, quando Pericle indisse la guerra di Samo; perché fu mormorato allora che la deliberazione fosse suggerita da Aspasia.
    Circa il 432 a. C., A. fu sottoposta a processo sotto duplice accusa di empietà e di lenocinio presentata dal commediografo Ermippo. Il processo non era isolato, ma si connetteva con i processi intentati in quell’anno a Fidia, lo scultore che sovrintendeva alle opere pubbliche disposte da Pericle, e ad Anassagora di Clazomene, il filosofo ionico da cui, secondo Platone, Pericle desunse quanto di robusto e d’insolito era nella sua eloquenza. In un regime di libertà democratica, quale allora vigeva ad Atene, questa serie di processi, che colpivano le persone più care al capo del governo, non deve essere valutata oltre il vero: era in parte il prodotto di quella parrhesia ateniese, per cui tutto a tutti era lecito di affermare, e le facezie, le calunnie, le accuse, le querele infierivano: parrhesia a cui vanno imputate anche le sconce allusioni dei comici contro A. Ma non è dubbio che la convivenza di Pericle con A., anche se legittima; l’amicizia con le persone colte e spregiudicate, che osavano frequentarne la casa, e affrontare la maldicenza; la notizia vaga e imprecisa delle dottrine filosofiche venute di Ionia, come di Ionia era venuta A., e rivolte a liberare Atene dalla superstizione mitologica; erano perpetua cagione di calunnie e di acredine. I due tipi femminili di quella società ateniese – la moglie e l’etèra – si trovavano come fusi e mischiati nella persona d’A.: e poche cose urtano e irritano il senso comune quanto l’ardimento con cui le personalità più fervide rompono schemi e divieti sociali. Alla moglie non si voleva consentire altro ufficio che casalingo, tra il gineceo e i figliuoli; altro interesse che strettamente domestico. Alla etèra si concedeva libertà di vita esteriore emancipazione dalla morigeratezza borghese, lusso di adornamenti, lusso intellettuale di cultura: ma non si voleva concedere che vivesse durevolmente accanto al capo del governo, e potremmo dire dello stato, ed esplicasse, o paresse esplicare, sopra di lui un’azione efficace tanto più perché costante e quotidiana. E perciò “Giunone libertina” la definiva la satira del commediografo Cratino.
    A prescindere da quest’atmosfera, è impossibile determinare la parte di A. nella politica di Pericle. È altrettanto arbitrario immaginarla grande, quanto piccola o nulla. I moderni si riconducono sempre, come già gli antichi, o alla derisione dei comici o alla lode dei socratici. Arbitrario è anche il riconoscere o il negare in lei animo superiore alle competizioni e ai negozî della politica; e dottrina filosofica o scientifica o letteraria. Se mai ebbe a dare qualche giudizioso consiglio, e si riseppe, non era proclive a essergliene grata una cittadinanza a cui s’insegnava che donna eccellente è quella della quale non si ode parlare né per lode né per biasimo (Tucidide, II, 45). Degli errori sì, che Pericle commise, di quelli le si addossò spesso la colpa. Anche il decreto contro Megara, che parve la causa e fu il pretesto della grande guerra peloponnesiaca fra Atene e Sparta, finì con essere attribuito ad A. (Aristofane, Acarnesi, 526 segg.). Comunque, il processo del 432 terminò col proscioglimento. Pericle, secondo la narrazione di Plutarco (Pericle, 32: cita come fonte il socratico Eschine di Sfetto), dovette molto supplicare la giuria: e non avrebbe neppure risparmiato le lagrime, chè era uso i famigliari e gli amici degl’imputati cercassero d’intenerire a quel modo i patetici giurati di Atene. Dopo la morte di Pericle (nel 429, di peste), A. avrebbe sposato un Lisicle, mercante di buoi, stratego nel 428-27. Ma non tutti i moderni accettano questa notizia. Pare che ella morisse in Attica e ivi fosse sepolta.(fonte)

    [6] Corinna. (Κόριννα, Corinna)
    Poetessa greca, nata in Tanagra da Acheloodoro e da Procratia, contemporanea all’incirca di Pindaro, come si ricava dal fr. 21 Bergk – 15 Diehl, ove la poetessa biasima Mirtide d’Antedone per avere osato essa, donna, venire a gara con Pindaro. C. avrebbe, secondo gli antichi, essa pure gareggiato con Pindaro e l’avrebbe vinto secondo Pausania una volta, secondo Eliano e Suida ben cinque. E gli antichi narravano d’insegnamenti da lei dati a Pindaro sulla giusta misura nell’uso dei miti.

    Le poesie di C. (in massima nomi), furono raccolte in almeno cinque libri: l’elemento mitologico ebbe in esse grande prevalenza. Sappiamo da un epigramma dell’AntPalatina (IX, 26) ch’ella cantò Atena, ma in generale furono argomento dei suoi versi gli eroi e le eroine della Beozia. Della Beozia ella celebrò l’eroe eponimo Beoto; altrove la sua musa tessé le lodi di Iolao o narrò la spedizione dei Sette contro Tebe. Famoso il carme Κατάπλους, in cui si trattavano le vicende del celebre cacciatore beotico Orione; in un altro, Miniadi, C. narrò la storia delle tre figlie di Minia, Leucippe, Alcitoe o Alcatoe, ed Arsippe, punite da Dioniso per averne disprezzato il culto; in un altro ancora le mitiche origini di Tanagra. Nel 1906 fu rinvenuto in Egitto un papiro, purtroppo assai guasto, contenente cospicui avanzi di due carmi di C., uno riferentesi alla gara fra Elicona e Citerone, i giganti eponimi dei due monti, e l’altro riguardante le figlie dell’Asopo. Un altro frammento è stato di recente scoperto da studiosi italiani. La poesia di C. era essenzialmente oggettiva e narrativa: la personalità della poetessa non ne balza fuori in alcun modo. I metri di C. sono in generale molto semplici: dei due carmi ritrovati nel detto papiro, il primo è in dimetri ionici (serie di sei, di cui l’ultimo sincopato), l’altro in dimetri coriambici (serie di quattro chiuse da un ferecrateo). La lingua di C. ha una forte coloritura beotica.
    In patria Corinna godette sempre molta fama. Nel sec. IV le fu fatta scolpire una statua da Silanione; nel ginnasio v’era una pittura che la rappresentava in atto di cingersi con la benda per la vittoria riportata su Pindaro. Ma non esercitò grande influsso presso i poeti posteriori, né molti furono a ricordarla: ne fecero onorata menzione Antipatro di Tessalonica, Propezio e Ovidio. In un tardo catalogo dei poeti lirici essa fu aggiunta come decima ai nove soliti. Una statuetta di marmo con l’iscrizione KOPINNA fu trovata a Compiègne da S. Reinach che pensò si trattasse d’una copia dell’originale di Silanione.(fonte)