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Riccardo Zandonai. 1929

    Riccardo Zandonai, 1929

    A Vittorio Arangio Ruiz[1],
    eroe della nostra grande guerra,
    con gratitudine di redento, con orgoglio
    di italiano  R. Zandonai[2]

    Rovereto (Trentìno) Sett. 1929.

    Cav. Uff. L. Vaghi[3]
    PARMA
    VIA CAVOUR, 79

    Stampa all’albume su cartoncino telato, 24 x 38,5 cm

    © Archivio Sacchini


    Note

    [1] Vincenzo Arangio Ruiz
    Nacque a Napoli il 7 maggio 1884 da Gaetano, allora avvocato in quella città, e da Clementina Cavicchia, secondogenito di cinque fratelli e primo tra i figli maschi.

    Dopo il liceo classico, nel 1900 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Modena, dove il padre insegnava diritto costituzionale. Non si trattò di una facile scelta, dato che la propensione dell’A. per la filologia classica si urtava contro il desiderio paterno di istradarlo agli studi giuridici, ed essa venne favorita da un compromesso per cui il giovane studente avrebbe, nel campo giuridico, coltivato quegli studi romanistici così strettamente connessi con il suo orientamento d’elezione. A tale scopo, due anni più tardi, egli si trasferì a Napoli per seguire Carlo Fadda, professore di diritto romano in quella facoltà; ed ivi si laureò, nel luglio 1904, discutendo una dissertazione sulla successione testamentaria nel diritto dei papiri greco-egizi, conseguendo il massimo dei voti e la lode, nonché la dignità di stampa: in effetti, la dissertazione stessa venne pubblicata, senza la benché minima modifica (La successione testamentaria secondo i papiri grecoegizii, Napoli 1906).
    Nell’anno accademico 1906-07 fu nominato professore incaricato di diritto romano presso l’università di Camerino, allora libera, dove tenne anche l’incarico di storia del diritto romano. Nel 1907 ottenne la libera docenza in diritto romano a Napoli e l’incarico a Camerino fu cambiato in straordinariato. Terzo nel concorso per straordinario di diritto romano bandito dall’università di Macerata (30 ott. 1909), nel 1909-10 fu professore straordinario di diritto romano nell’università di Perugia, donde si trasferì, nel 1910-11, all’università di Cagliari, come straordinario di istituzioni di diritto romano. Chiamato ad insegnare, sempre come straordinario, le istituzioni di diritto romano nell’università di Messina nel 1912-13, conseguì il 16 dic. 1914 l’ordinariato, passando dal 1º genn. 1915 all’insegnamento di storia del diritto romano; qui rimase – con l’interruzione dovuta alla partecipazione alla guerra – fino al 1917-18.
    Nel 1918-19 fu chiamato ad insegnare istituzioni di diritto romano nell’università di Modena, dove professava ancora il padre e dove, nel 1919-20, insegnò anche, per incarico, l’introduzione allo studio delle scienze giuridiche e istituzioni di diritto civile, per poi andare a ricoprire la cattedra di istituzioni di diritto romano nell’università di Napoli (dove era già stato comandato per il 1920-21) nell’anno accademico 1921-22. Qui rimase fino al 1944-45: oltre alle istituzioni vi insegnò, in anni diversi ed intervallati, il diritto romano, la storia del diritto romano ed il diritto pubblico romano. Ma, a partire dal 1929 e fino al 1940, egli sospese la propria attività didattica presso l’università di Napoli, in quanto, chiamato ad insegnare il diritto romano presso l’università del Cairo in seguito alla vittoria in un concorso internazionale, preferì ottenere il congedo come professore ordinario, anche e prevalentemente per il desiderio di sottrarsi, almeno parzialmente, al clima culturale e politico imposto dal regime.

    L’insegnamento fu ripreso nel 1940, e dopo la Liberazione l’A. fu anche, per breve tempo, preside della facoltà di giurisprudenza dell’ateneo napoletano. Nel 1945-46 fu chiamato ad insegnare, nell’università di Roma, le istituzioni di diritto romano, ed ivi succedette, nel 1948-49, ad Emilio Albertario nella cattedra di diritto romano, conservando per incarico -fino al collocamento fuori ruolo – l’insegnamento delle istituzioni, a cui aveva affiancato, già dal 1946-47, l’ulteriore incarico di papirologia giuridica. Collocato fuori ruolo il 1º nov. 1954, fu nominato professore emerito nell’ateneo romano dopo il collocamento in pensione nel 1959. Nel frattempo, a partire dal 1947, aveva ripreso, in Egitto, l’insegnamento nell’università del Cairo, a cui si era affiancato analogo insegnamento nell’università di Alessandria d’Egitto, insegnamenti che cessarono nel 1954, anche in ragione delle mutate condizioni politiche dell’Egitto. Nel dopoguerra, però, l’A. continuò, pur con adattamenti d’orario, a tenere regolarmente i corsi nell’università di Roma.
    Nel dopoguerra la presenza dell’A. si fece sempre più importante nelle manifestazioni ufficiali della cultura italiana e nella vita universitaria. Precedentemente, era stato tenuto in disparte per il suo atteggiamento di ferma opposizione al regime, tant’è che partecipò una volta soltanto, nel 1928, ad una commissione per l’abilitazione alla libera docenza. Membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione dal 1948 al 1954, ne fu vicepresidente (presidente ne è formalmente il ministro) dall’ottobre 1951 al settembre 1954.
    Al di fuori del mondo universitario fu socio nazionale della ricostituita Accademia nazionale dei Lincei dal 1947, presidente della classe di scienze morali nel 1950-1952 e dal 1958 alla morte, presidente dell’accademia stessa dal 1952 al 1958, e ad interim negli ultimi mesi di vita. Fu presidente della Società italiana di storia del diritto dalla fondazione (1961) fino alla morte. Venne chiamato nel 1961 alla presidenza del comitato internazionale premi della Fondazione Balzan. Diresse dal 1959 il Bullettino dell’istituto di diritto romano, succedendo a Salvatore Riccobono e cooptando come condirettore Pietro De Francisci: dal 1945 aveva diretto anche l’Archivio giuridico, e in tale direzione seppe mostrare una grande capacità di muoversi su tutto l’arco della scienza giuridica, anche al di fuori del suo più preciso campo d’elezione.
    Oltre che della Società italiana per il progresso delle scienze, fu presidente della Società Dante Alighieri nel 1955 (ne era stato vicepresidente dal 1947), dell’Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo dal 1953 alla morte, e del Corpo nazionale giovani esploratori italiani dal 1953 al 1958. In campo europeo fu presidente dell’Association des universités d’Europe dalla fondazione al 1964.
    Su un piano più propriamente politico, l’A. era stato già in prima fila tra gli intellettuali italiani che si opposero fin dall’inizio al fascismo, e fu firmatario del “manifesto Croce”, contribuendo anche con articoli apparsi sulla stampa politica alla lotta contro la nascente dittatura. Durante il ventennio, a Napoli, egli continuò a coltivare l’amicizia di quegli intellettuali di estrazione liberale che facevano capo, in modi diversi, a Benedetto Croce, della cui amicizia e familiarità egli si onorava. Alla politica attiva tornò verso la fine della guerra, che ormai volgeva al suo inevitabile esito. Ebbe una parte rilevante nell’organizzazione delle forze che tendevano ad una rinascita democratica già nel periodo anteriore alla caduta del fascismo e, soprattutto nel settembre del 1943, nelle convulse giornate che precedettero l’insurrezione di Napoli e la liberazione della città: del Comitato di liberazione nazionale di questa città egli fu presidente. Prese, anche successivamente, parte attiva alla vita politica dell’Italia liberata, come esponente del partito liberale. Costituitosi nell’aprile del 1944 il governo Badoglio, al quale partecipavano i partiti rappresentati nel CLN, ne fece parte come ministro di Grazia e Giustizia, e fu poi, in Roma, ministro della Pubblica Istruzione nel secondo ministero Bonomi (dicembre 1944-giugno 1945), e nel ministero Parri (giugno-dicembre 1945). Membro della Consulta nazionale, partecipò – senza successo, ma senza troppe illusioni – alla campagna elettorale per la Costituente, sempre nelle file del partito liberale, cui rimase fedele anche nel periodo successivo, quando si accentuò il suo distacco dalla vita politica attiva in una con l’accentuazione della sua presenza nel mondo della cultura, anche se di quel partito spesso non condivise la linea politica.
    L’A. – che aveva sposato nel 1914 Ester Mauri, da cui ebbe cinque figli – morì a Roma il 2 febbr. 1964.

    La personalità dell’A. è stata fra le più ricche e significative nella giusantichistica italiana del primo sessantennio del secolo. Egli non può esser ricondotto ad una scuola. A Modena studiò con Enrico Serafini e Carlo Arnò, che non gli furono di certo maestri, anche se, soprattutto del secondo, conservava un ricordo tutto sommato affettuoso. Con Carlo Fadda si laureò a Napoli, e per lui l’A. ebbe e manifestò sempre ammirazione e rispetto, ma – già dagli inizi – le strade dei due studiosi troppo profondamente si divaricavano negli interessi e nel metodo. Uno studioso che esercitò su di lui un influsso fu, senz’altro, Vittorio Scialoja, al quale l’A. rimase sempre legato da una pietas affettuosa e devota. In realtà, però, egli trovò da solo la propria strada nell’ambito della ricerca giusantichistica.

    Il suo approccio ai diritti antichi, anche al di là dell’attività propriamente letteraria, è stato sempre contrassegnato dall’estrema varietà d’interessi. La sua propensione per la filologia classica è sicuramente alla base del fatto che – seguendo un tratto non isolato in quel momento della ricerca storico-giuridica – egli coniugò lo studio del diritto romano con quello delle altre esperienze giuridiche dell’antichità classica, con una fedeltà che si perpetuò fino agli ultimi tempi della sua vita. Ed è la stessa propensione che spiega la costante acribia filologica che ne ha sempre accompagnato il lavoro, sorreggendo ed improntando di sé la naturale predisposizione per l’analisi dei testi e per l’esegesi giuridica.

    Questa sicura padronanza del metodo filologico sta anche alla base dell’atteggiamento dell’A. nei confronti del problema delle interpolazioni, una delle più grosse questioni metodologiche che dall’ultimo ventennio del sec. XIX al secondo dopoguerra abbiano travagliato la giusromanistica. Atteggiamento ispirato all’equilibrio che è sempre stato un’altra delle caratteristiche della personalità dell’A., nella consapevolezza dei rischi della metodologia interpolazionistica e della fragilità della maggior parte dei suoi postulati teorici e dei suoi fondamenti filologici, anche se non ci si può nascondere che, nella concreta prassi scientifica, egli rimanesse non di rado coinvolto nel generale Zeitgeist, propenso a sospettare dei testi più che a credere. pregiudizialmente, alla loro autenticità. E, nonostante l’originaria propensione per gli studi filologici, l’A. non perdette mai di vista che l’analisi del testo, volta ad accertarne la genuinità, è sempre in funzione dell’esegesi giuridica dello stesso, la quale, del resto, fornisce altresì il più sicuro mezzo per controllare i risultati della critica testuale.

    L’A. rimaneva, infatti, come romanista e come giusantichista essenzialmente uno storico dell’esperienza giuridica, un giurista, conscio della specificità della storia “speciale” coltivata. È da questo punto di vista che va valutata la presa di posizione dell’A. nei confronti dell’altra grande disputa metodologica che, nella prima metà del secolo, ha attraversato soprattutto la romanistica italiana, e cioè quella relativa all’impiego di categorie dogmatiche moderne nella ricostruzione del sistema giuridico romano (si direbbe oggi, il problema del metalinguaggio nella giusantichistica). La sensibilità filologica e storica lo spingevano, senz’altro, nel campo di coloro che si opponevano ad un uso indiscriminato di tali categorie nella ricerca storica, anche se bisogna avvertire che – in linea teorica – di questo suo atteggiamento rimangono tracce più che altro occasionali. In ciò concorrevano una non completa decantazione del problema, quale si poteva senza dubbio riscontrare agli inizi delle polemiche al riguardo, e l’eccessiva accentuazione da un lato di taluni risvolti inaccettabili in linea teorica e, dall’altro, gli eccessi sul piano pratico della metodologia dogmatica.

    Nella produzione letteraria dell’A., a parte la monografia del 1906, che era la pubblicazione della sua dissertazione di laurea, le opere in volume sono tutte connesse con la sua attività didattica, mentre più direttamente finalizzati alla ricerca rimangono soltanto i saggi al livello di un articolo, il che va, senz’altro, messo in relazione con le preferenze metodologiche dell’autore.

    Fra le opere di più ampio respiro una posizione a parte occupano i due manuali, le Istituzioni di diritto romano (1ª ediz., come Corso di istituzioni di diritto romano, in due volumi, Napoli 1921-1923: 14ª ediz., ibid. 1960, e successive ristampe) e la Storia del diritto romano (1ª ediz., ibid. 1937; 7ª ediz., ibid. 1957, e successive ristampe). In questi due manuali, soprattutto, si nota la grande padronanza e l’approfondito livello di conoscenza che l’A. aveva dell’intera esperienza giuridica romana, anche al di là della personale visitazione dei problemi nell’ambito della propria prassi di ricerca, il che gli permetteva di cogliere sempre momenti essenziali per la soluzione della questione storica e di prospettare contributi personali per siffatte soluzioni. Esemplari nella chiarezza elegante della forma e nella loro funzionalità didattica, le Istituzioni hanno rappresentato per decenni – e rappresentano tuttora – un modello della maniera in cui lo studente può esser introdotto ed appassionato allo studio del diritto romano. E, oltre che nei particolari, esse assumono una valenza che trascende quella meramente didattica nello sguardo d’assieme che permettono del modo di porsi dei giuristi romani di fronte al fenomeno del diritto. Una lunga tradizione esercitava, però, su di esse un influsso omologante, almeno ad un certo livello: esso manca nella Storia, più personale dunque e più marcatamente saggistica (e, quindi, più ineguale nell’approfondimento dei singoli argomenti). Ciò accentua naturalmente il valore di quest’opera al di là del profilo didattico, e deve fra l’altro esser posto in relazione con la circostanza che – a differenza del corso istituzionale, praticato in effetti su tutto l’arco della vita – l’insegnamento della storia del diritto romano ha rappresentato per l’A. un impegno più che altro occasionale.

    Se si prescinde da due agili corsi sui contratti e sul diritto di famiglia nei papiri greco-egizi, originati da lezioni tenute, su invito di A. Calderini, nell’Università cattolica di Milano (rispettivamente Lineamenti del sistema contrattuale nel diritto dei papiri, Milano 1928, e Persone e famiglia nel diritto dei papiri, ibid. 1930), le altre opere monografiche rappresentano tutti corsi di diritto romano. A parte quello sul processo romano del 1950-51 (che ha dato luogo alla pubblicazione di dispense da parte degli assistenti), essi vertono tutti sulla materia delle obbligazioni, da quello napoletano sulla responsabilità contrattuale (Responsabilità contrattuale in diritto romano, Napoli 1927, 2ª ediz., ibid. 1933), a quelli romani sul mandato (Il mandato in diritto romano, ibid. 1949), sulla società (La società in diritto romano, ibid. 1950), sulla compravendita (La compravendita in diritto romano, ibid. 1952-54).

    La produzione saggistica si colloca, poi, su tutto l’arco della giusantichistica classica. Nell’ambito del diritto privato, il primo A. è particolarmente attento ai problemi dei diritti reali e della loro costruzione giuridica, a cui ha portato forti contributi. Le obbligazioni hanno sempre rappresentato una costante negli interessi dell’A., costante la cui importanza si è andata forse rafforzando nel tempo, mentre il processo ha rappresentato un punto nodale, attraverso il quale saggiare le ricostruzioni del diritto sostanziale. Sempre presente, negli interessi dell’A., la storia delle fonti, più forse sul versante della storia dei testi che di quella dei giuristi: anche se egli non fu insensibile al fascino di talune grandi personalità della giurisprudenza romana, non s’impegnò mai in una ricerca basata sulle personalità dei singoli prudentes, con una metodologia che sarebbe divenuta di moda soprattutto dopo la sua scomparsa.

    Al di là della storia delle fonti e del fondamentale saggio del 1914 sulle genti e la città, nel campo del diritto pubblico la sua attenzione si è principalmente rivolta ai problemi dell’organizzazione del mondo provinciale e dell’applicazione in esso del diritto romano. Si viene così a toccare un altro momento centrale degli interessi scientifici dell’A., nel più ampio quadro della giusantichistica classica, e cioè il costante impegno e lavoro nell’ambito delle fonti documentali. A questo proposito si coniugavano due aspetti fondamentali già messi in luce nella personalità scientifica dell’A., la sua puntuale acribia filologica e la prontezza nel cogliere i dati giuridicamente rilevanti nel singolo concreto accadimento. A parte i contributi sparsi, che spaziano su ampie aree della papirologia ed epigrafia giuridiche, rimangono particolarmente significativi i contributi dati alla pubblicazione dei papiri dell’università degli studi di Milano e delle Tabulae Herculanenses (che furono un argomento sempre al centro dei suoi interessi negli ultimi lustri di vita): tali contributi andavano dagli aspetti paleografici e filologici della ricostruzione del testo all’analisi giuridica, e in tutta questa attività scientifica è dato cogliere anche la profonda simpatia dell’A. per le vicende d’ogni giorno, della gente comune, la quale rappresentava senz’altro un tratto fondamentale della sua umanità. Gli interessi così manifestati trovano un momento di sintesi particolarmente elevato nella silloge di documenti giuridici rappresentata dai Negotia, che costituiscono la pars tertia dei Fontes iuris Romani anteiustiniani: apparsi in epoca difficile (Florentiae 1943), ad essi l’autore continuò a dedicare sempre la propria attenzione in vista di una seconda edizione, le cui bozze egli stava correggendo nell’ultima notte di vita. Il lavoro di aggiornamento, attuato mediante il sistema di appendici, è rimasto fortemente incompiuto, perché si limita alla revisione completa del primo capitolo, oltre alcuni addenda agli altri.
    L’altro aspetto del rapporto dell’A. con i testi papiracei o pergamenacei è costituito dalla pubblicazione e dal commento dei frammenti della giurisprudenza classica o bizantina che sono venuti alla luce nel corso di questo secolo. Qui si stacca il caso del Gaio antinoite da lui pubblicato (Frammenti di Gaio, in Pubblicazioni della Società italiana papiri greci e latini, n. 1182, II [1934], pp. 1-42), anche per il particolare rapporto ed affetto che legava l’autore al manuale gaiano, il cui manoscritto veronese egli difese sempre contro le critiche più radicali. In questo rapporto rilevava, senz’altro, la profonda sensibilità dell’A. per la didattica: grande è stata la presa che egli ha esercitato, in tutto l’arco della carriera universitaria, sugli studenti, soprattutto nei corsi affollati del primo anno di sedi come Napoli e Roma.

    Molti romanisti che hanno iniziato la carriera accademica fra il 1920 ed il 1964 hanno studiato con lui e possono dirsi suoi allievi, ma egli non ebbe mai quella che potrebbe chiamarsi una scuola, se questa espressione debba evocare qualcosa di più o meno rigidamente organizzato, ed il suo metodo, fortemente personale, non poteva di certo trasmettersi ad altri. Alla formazione di una scuola più o meno istituzionalizzata ostava, del resto, il profondo senso della libertà che contrassegnò sempre il suo modo d’agire, il rispetto per la personalità degli altri, il senso che aveva spiccato per l’autonomia del singolo studioso, fosse o meno questi un suo allievo.(fonte)

    [2] Riccardo Zandonai. Compositore, nato a Sacco (Trentino) il 28 maggio 1883. Studiò dapprima a Rovereto con V. Gianferrari, poi – nel 1899 – a Pesaro, presso quel Liceo musicale, con P. Mascagni, diplomandosi nel 1902.

    Al saggio finale egli dava un poema sinfonico per soli, coro e orchestra, Il ritorno di Odisseo, su versi di G. Pascoli. Componeva intanto pagine minori (tra le quali fu subito pubblicata la romanza E te lo voglio dire) che ebbero a procurargli interessamento da parte dei competenti. Fu quindi presentato, da Arrigo Boito, a G. Ricordi, che gli chiese un’opera. Lo Z. compì in sei mesi, per l’editore milanese, Il grillo del focolare, commedia musicale ricavata da C. Hanau da una novella di C. Dickens e che fu rappresentata a Torino (Politeama Chiarella) il 28 novembre I908. Il buon successo di quest’opera incoraggiò il giovane musicista a proseguire sulla strada del teatro lirico, e a questo egli dava, tre anni dopo, il dramma Conchita, tratto da M. Vaucaire e C. Zangarini da La femme et le pantin di P. Louys. Conchita fu rappresentata a Milano (Dal Verme) il 14 dicembre 1911 e fu per lo Z. una vittoria anche più significativa di quella riportata con Il grillo del focolare.
    Seguì, a breve distanza, Melenis, tragedia in 3 atti tratta da M. Spiritini e C. Zangarini dal poema di L. Bouilhet, rappresentata a Milano (Dal Verme) il 13 novembre 1912. L’opera non ebbe altrettanta fortuna della precedente. Ma, poco più d’un anno dopo, e cioè il 19 febbraio 1914, Z. giungeva al suo massimo successo con Francesca da Rimini, tratta da T. Ricordi dalla tragedia di G. D’Annunzio: alla prima rappresentazione (Torino, Teatro Regio) ne tennero dietro infatti innumerevoli in tutti i grandi teatri d’Italia e di fuori, né tale vitalità accenna ancora a diminuire. La guerra mondiale (durante la quale lo Z. veniva condannato a morte per diserzione dal governo austriaco), non poteva che ritardare l’apparizione di nuovi lavori teatrali. La prima delle nuove opere zandonaiane fu La via della finestra, commedia giocosa in 3 atti, tratta da G. Adami da un lavoro di E. Scribe, che giunse a rappresentazione il 27 luglio 1915 a Pesaro (Teatro Rossini). L’opera, bene accolta, fu nondimeno ripresa in lavoro dall’autore e ridotta a 2 atti; in questa versione fu rappresentata per la prima volta il 18 gennaio 1923 a Trieste (Teatro Verdi). Intanto però lo Z. aveva composto un altro lavoro, di grande mole e d’argomento ben altrimenti impegnativo: Giulietta e Romeo, su libretto adattatogli da A. Rossato. Giulietta e Romeo andava in scena a Roma (Teatro Costanzi) il 14 febbraio 1921 e otteneva un successo che fu poi riconfermato da diversi pubblici italiani e stranieri. Tenne dietro all’opera shakespeariana un ampio lavoro di carattere fantastico: I cavalieri di Ekebù, opera in 4 atti su libretto ricavato da A. Rossato da La leggenda di Gösta Berling di Selma Lagerlöf, che venne rappresentata il 7 marzo 1925 a Milano (Scala), con vivo plauso.
    n lavoro d’indole mistica: Giuliano, leggenda cristiana tratta da A. Rossato dal racconto di G. Flaubert, fu la successiva vittoria dello Z., fin dalla prima rappresentazione, avvenuta a Napoli (San Carlo) il 4 febbraio 1928. Sono seguite a questa, finora, altre due opere: di carattere fortemente tragico la prima: Una partita; di carattere burlesco la seconda: La farsa amorosa. Delle due, quest’ultima, su un libretto tratto da A. Rossato da una celebre commedia di P. de Alarcón, ha valso allo Z. uno dei suoi maggiori successi.

    Oltre che per il teatro, lo Z. ha molto lavorato anche negli altri campi della composizione: fra tutte queste altre pagine vanno specialmente rammentate: una Messa da Requie n, alcuni inni patriottici, un poema per baritono e orchestra: Vere novo; i quadri sinfonici: Primavera in Val di SolePatria lontanaLeggenda eroicaQuadri di Segantini; il Concerto romantico per violino e orchestra, la Serenata medioevale per violoncello, 2 corni, arpa e archi; un Concerto andaluso per violoncello e orchestra, varie liriche per canto e orchestra e per canto e pianoforte.(fonte)

    [3] Luigi Vaghi (Parma, 1º settembre 1882 – Parma, 2 gennaio 1967) è stato un fotografo italiano, titolare della più prestigiosa azienda fotografica di Parma del Novecento.

    Appena terminate le scuole elementari entrò come garzone nello studio fotografico di Enrico Rastellini, in quegli anni uno dei più affermati a Parma. Nel 1898 diventò primo commesso ma nello stesso anno Ettore Pesci gli offrì una paga più alta e l’incarico di direttore del suo studio. Vaghi accettò e rimase con Pesci fino al 1902, quando aprì un proprio studio in via Garibaldi. In ottobre dell’anno successivo aprì con Giuseppe Carra un nuovo studio in via Garibaldi 103, assumendone la direzione tecnica e amministrativa. Arrivarono presto i primi successi: il re Vittorio Emanuele III gli inviò una lettera di ringraziamento e una spilla d’oro per una riproduzione di un busto di suo padre Umberto I, collocato nel palazzo delle Poste di via Melloni.

    Vi furono alcuni dissensi con Giuseppe Carra sul modo di condurre lo studio e nel 1913 Vaghi rilevò l’atelier di Eugenio Fiorentini in via Angelo Mazza; chiamò il nuovo studio “Alla cartolina parigina” e vi sistemò il Carra. Nel 1916 acquistò anche la “Fotografia Moderna” di strada Garibaldi 76, dove chiamò Uberto Branchi come conduttore fotografico. Nel 1917 lo studio «Vaghi & Carra» di via Garibaldi 103 subì un furto e un incendio, con la perdita di 56.000 lire in attrezzature ed arredi. Nel 1917 Carra morì all’età di soli 35 anni nell’ospedale militare ricavato nelle scuole Pietro Cocconi. Vaghi si assunse le spese del funerale e liquidò alla moglie la sua quota societaria, proseguendo da solo l’attività.

    Nel 1919 fu nominato Cavaliere e l’anno successivo, con un prestito concessogli dalla Cassa di Risparmio di Parma, acquistò l’ex chiesa di Santa Maria della Spina in via Cavour, trasformando l’edificio in un moderno atelier fotografico, che divenne il simbolo della sua supremazia in campo fotografico a Parma. Nel 1922, battendo la concorrenza di altri 18 concorrenti, fu nominato fotografo ufficiale della Casa Reale. Nel 1923 fu premiato con medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale di Torino e in aprile riuscì a fotografare Mussolini, ottenendo che la fotografia venisse riprodotta in migliaia di esemplari e acquistata dai comuni di tutta Italia, al costo due lire. Nello stesso anno, dietro interessamento di Emilio De Bono, andò a Berlino per fotografare Hitler, ma vi furono intoppi e dovette tornare a mani vuote. Nel 1925, su deliberazione congiunta di Mussolini e della Casa Reale, fu insignito del titolo di Commendatore. Realizzò con i suoi collaboratori (tra cui Armando Amoretti come ritoccatore e Mario Cattani come stampatore) una famosa gigantografia di Mussolini di 12 metri quadrati, che venne appesa nel cortile del Palazzo della Pilotta. Nel 1932 fotografò in Prefettura il principe di Piemonte Umberto I di Savoia.

    Il suo studio era l’unico a Parma ad avere una struttura aziendale vera e propria, paragonabile a quella dei fratelli Alinari, ma la crisi economica iniziata nel 1929 si fece sentire pesantemente e negli anni trenta cominciò una flessione. La Banca Cattolica e la Banca Agraria, presso le quali aveva i depositi, fallirono e ciò fu un duro colpo, ma in seguito si riprese. Nel 1937, sull’onda dell’espansionismo fascista, tentò l’avventura dell’Africa Orientale Italiana. Si imbarcò a Napoli con diversi collaboratori e sbarcò a Massaua in settembre. A Natale inaugurò ad Asmara la ditta “Foto Film”, divenuta poi “Studio Foto Ottica Comm. Luigi Vaghi”, che vendeva anche apparecchi radio, grammofoni e dischi. Tornò in Italia nel 1952 e in quell’anno abbandonò la professione in favore del figlio Bruno.(fonte)