Istituto Interuniversitario Italiano
Eretto in Ente Morale con R. Decreto 27 Luglio 1928, N. 1892
Via di Monte Tarpea 28 – ROMA (18) – Telefono 65-404
RACCOMANDATA
Roma, 2 Aprile 1931 – IX.[1]
Prot. N. 9792/210
Eccellenza,
prego vivamente l’E. V. di intervenire
di persona, o di farsi eventualmente rappresentare, alla
cerimonia di inaugurazione dei Corsi di cultura per stra-
nieri e connazionali di questo Istituto, di cui nell’ac-
cluso invito.
Con anticipati ringraziamenti e i sensi della più
alta considerazione.
IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DIRETTIVO
(F.to Giovanni Gentile)
Gentile[2]
a lato a matita
Conferenza inaugurale
di S. E. Scialoia[3]
8 aprile –
Note
[1] Il giuramento del 1931
La legge Casati del 1859 non prescriveva alcun giuramento speciale per i professori universitari, equiparati a tutti gli altri impiegati dello stato. Nel processo che portò alla costituzione dell’Italia unita, man mano che i vari stati preunitari venivano annessi, nelle università veniva richiesto soltanto un giuramento politico di fedeltà al re, allo statuto e alle leggi dello stato. La stessa riforma Gentile del 1923 prevedeva che i professori di ruolo, prima di assumere l’ufficio, dovessero, pena decadenza, prestare giuramento secondo la formula: «Giuro di essere fedele al Re ed ai suoi Reali successori, di osservare lealmente lo statuto e le altre leggi dello stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria». Vuoi perché questa riguardava solo i professori di prima nomina, vuoi perché nel clima del primo dopoguerra la fedeltà alla monarchia era fuori discussione, non risulta che qualcuno abbia rifiutato il giuramento.
Il quadro cambia con il processo di fascistizzazione dello stato, successivo alle leggi eccezionali del 1925. Scuola, università e accademie diventano per il regime un terreno di missione in cui dispiegare tutte le capacità propagandistiche, mescolando forza e consenso, intimidazioni e lusinghe, bastone e carota. Il dissenso va represso, ma anche controllato e svuotato attraverso un’articolata rete di collaborazioni chiamata a invischiare la vasta fetta di società che si situa tra la piccola intellettualità e gli esponenti dell’alta cultura.
L’episodio del giuramento del 1931 si ispira a questa logica. Nelle file del regime, c’è chi preme per una soluzione drastica del problema degli intellettuali e per l’allontanamento dall’insegnamento di tutti i docenti politicamente non affidabili. Chi è tra i primi a professarsi in totale disaccordo con questa linea oltranzista è un matematico come Francesco Severi. In un promemoria del 1929, diretto personalmente a Benito Mussolini, scrive che l’allontanamento di professori «che compirono in passato qualche manifestazione politica, non ortodossa, ma ai quali non si può oggi nulla rimproverare, sarebbe esiziale alla cultura e alla scienza italiana, e si rifletterebbe in un danno morale e materiale per la nazione, con gravi ripercussioni vicine e remote». Fra gli intellettuali è cambiato il comune sentire politico: «Vi sono state grandi incertezze dal principio, dipendenti da quello spirito critico, che non può scompaginarsi dall’abitudine alla ricerca scientifica, e che impedisce di regola di aderire subitamente a un nuovo ordine di idee. Ma le incertezze sono ormai superate dalla enorme maggioranza». Il promemoria a Mussolini del 1929 è seguito da una lettera che pochi giorni dopo Severi indirizza da Barcellona a Giovanni Gentile e in cui esplicita le sue idee per risolvere una volta per tutte la questione degli intellettuali sulla base di quanto scritto al duce. Pensa in particolare a un giuramento di fedeltà al fascismo cui dovrebbero sottoporsi tutti i professori universitari. La sua impostazione non sarebbe solo un atto repressivo e intimidatorio, ma sancirebbe la pacificazione nazionale con il riconoscimento che ormai fascismo e nazione coincidono. Siamo tutti italiani, quindi tutti fascisti, e non c’è più ragione di dividerci. Il giuramento servirebbe comunque a individuare e a isolare quei pochi irriducibili che verrebbero immediatamente eliminati.
A queste finalità provvede il giuramento del 1931. Il suggerimento di Severi, fatto proprio da Gentile, è accolto: «Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo statuto e le altre leggi dello stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere a tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria ed al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti la cui attività non si concili coi doveri del mio ufficio».
L’imposizione del giuramento semina dubbi e divisioni tra i professori universitari. Nei docenti antifascisti prevalgono le preoccupazioni per le conseguenze personali e professionali cui andrebbero incontro: il licenziamento, l’impossibilità di continuare a sviluppare la propria scuola e assicurare un futuro agli allievi, l’amara previsione che lascerebbero libero il campo a colleghi peggiori (almeno dal punto di vista etico e dell’assunzione delle responsabilità civili). Si diffonde poi il calcolo che, se il giuramento diventasse un fatto plebiscitario, la sua importanza politica a fini discriminatori verrebbe fortemente ridimensionata. A questo realismo si adeguano i professori legati in qualche modo ai partiti di sinistra che suggeriscono un low profile per rimanere all’interno dell’istituzione universitaria e presidiare i pochi spazi ancora liberi a disposizione delle voci democratiche. Anche i docenti cattolici sono molto combattuti sull’atteggiamento da assumere. Il consiglio che viene dalle gerarchie ecclesiastiche è di aderire al giuramento, pur conservando in coscienza tutte le riserve mentali del caso e sapendo che tale atto è troppo condizionato dall’esterno per essere sincero. «L’Osservatore Romano» troverà nella precisa formulazione del giuramento un’ulteriore giustificazione: «Il contesto medesimo della formula del giuramento, mettendo sullo stesso piano il Re, i suoi Reali successori e Regime Fascista, mostra con sufficiente chiarezza che l’espressione “Regime Fascista” può e deve nel caso presente aversi per equivalente all’espressione “Governo dello Stato”. Ora al Governo dello Stato si deve secondo i principi cattolici fedeltà e obbedienza, salvi, s’intende, come in qualunque giuramento richiesto ai cattolici, i diritti di Dio e della Chiesa».
Non mancano tentennamenti ed esitazioni. Giuseppe Levi (1872-1965) è un istologo di fama internazionale, alla cui scuola di Torino si formeranno i futuri Premi Nobel Salvatore Luria (1912-1991), Renato Dulbecco (1914-2012) e Rita Levi Montalcini (1909-2012). Socialista e antifascista, nasconderà nella propria casa Filippo Turati e altri oppositori del regime. Inizialmente non ha alcuna intenzione di giurare, malgrado qualche tentativo dei suoi allievi che cercano di indurlo a un atteggiamento più possibilista. Dopo un denso scambio epistolare con il giurista Alessandro Levi (1881-1953) di Parma e con il matematico T. Levi-Civita, i tre docenti concordano una lettera da presentare ai rispettivi rettori nella quale si impegnano a firmare a patto che le autorità accademiche attestino che la sottoscrizione non implica alcuna limitazione alla loro libertà di pensiero. In realtà, Levi si accontenta di un’assicurazione verbale del ministro dell’Educazione nazionale e cede alle diverse pressioni.
Chi non ha esitazioni è Vito Volterra. Come gli altri professori dell’università di Roma, riceve l’invito a presentarsi dal rettore il 18 novembre 1931. Lo stesso giorno gli esprime, con poche e ferme parole, la sua opposizione al giuramento: «Sono note le mie idee politiche per quanto esse risultino esclusivamente dalla mia condotta nell’ambito parlamentare, la quale è tuttavia insindacabile in forza dell’Art.51 dello Statuto fondamentale del Regno. La S. V. Ill.ma comprenderà quindi come io non possa in coscienza aderire all’invito da Lei rivoltomi con lettera 18 corrente relativa al giuramento dei professori». La risposta del regime non si fa attendere e il 12 dicembre «all’onorevole prof. Vito Volterra, senatore del regno, ordinario di fisica matematica nella R. Università di Roma» viene comunicato che il rifiuto a prestare giuramento l’ha posto «in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo», rendendo inevitabile la sanzione della dispensa dal servizio. Il 29 dicembre il provvedimento è reso operativo «su conforme deliberazione del Consiglio dei Ministri».
Gli altri professori universitari giurano tutti, o quasi. La strategia di Severi e Gentile nell’immediato si rivela vincente. Quelli che non si piegano all’imposizione e non accettano di essere considerati italiani solo in quanto fascisti sono solo dodici. Ecco i loro nomi: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vita, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi (e appunto Vito Volterra). Le loro sono storie diverse, solo parzialmente intrecciate. Il rifiuto che li accomuna non è una cospirazione. Non sperano affatto che il loro gesto possa essere la scintilla in grado di far scoppiare la rivoluzione o, comunque, di portare alla caduta del fascismo. A tutto pensano fuorché a far precipitare la situazione politica. Verranno licenziati dall’università ed emarginati, additati come antitaliani. In prospettiva, invece, saranno loro a dare un insegnamento alla società italiana: si può anche dire di no. I dodici non ce la fanno a ingoiare l’amaro boccone del giuramento. C’è un livello al di sotto del quale tutti gli inviti alla prudenza e a un sano realismo politico divengono perdita della propria dignità.(fonte)
[2] Gentile organizzatore di cultura.
di Albertina Vittoria. Croce e Gentile (2016)
Politica e cultura
Il 26 novembre 1911, nel discorso che inaugurava un ciclo di conferenze alla Biblioteca filosofica di Palermo (Il programma della Biblioteca filosofica di Palermo, «Annuario della Biblioteca filosofica», 1912, 1, pp. 7-12), Gentile evidenziava come l’attività di questo circolo – e di altri, sorti in diverse parti d’Italia – fosse espressione di un nuovo modo di porsi della filosofia e testimonianza della «grande trasformazione» che essa aveva subito nell’ultimo decennio. Uscita «dalla umbratile erudizione delle scuole semideserte, dall’ozio muto delle accademie, dall’irto tecnicismo dei contributi scientifici», la filosofia si era mescolata «alla vita, alle passioni, alle discussioni, alle lotte di tutti gli spiriti colti» e i filosofi, a loro volta, erano andati «in mezzo al pubblico», avevano creato società filosofiche che non erano «segreti cenacoli, ma focolari di cultura e centri di coordinazione spirituale» (in Frammenti di filosofia, a cura di H.A. Cavallera, 1994, pp. 29 e 31).
Una concezione, la sua, che già da ora lo contrapponeva al «filosofo amico». Proprio su queste parole, infatti, Croce ebbe l’anno dopo a polemizzare esplicitamente, non ritenendo che fosse utile chiamare a discutere di filosofia «gl’incompetenti e i dilettanti», «gli estranei svogliati e malamente curiosi», coinvolgendoli in «società, circoli, conferenze, discussioni, congressi», essendo egli convinto che il «risvegliamento di coscienza» si sarebbe potuto realizzare solo attraverso «un processo interiore» (Circoli, convegni e discussioni filosofiche, «La Voce», 19 dicembre 1912, poi in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 1914, 19553, rist. 1993 a cura di M.A. Frangipani, p. 132).
A differenza di Croce, il filosofo siciliano riteneva che la filosofia non dovesse rimanere «nelle nuvole e nell’astratto» e individuava nelle istituzioni universitarie extra-accademiche lo strumento perché essa divenisse «una causa comune e un comune interesse per tutti gli uomini» (Il programma della Biblioteca filosofica di Palermo, in Frammenti, cit., pp. 30 e 31). Con l’avvento della guerra, Gentile potenziava la sua polemica contro il «saggio lucreziano lieto di potersi godere dalla spiaggia sicura lo spettacolo della tempesta» (La filosofia della guerra: conferenza tenuta alla Biblioteca filosofica in Palermo l’11 ottobre 1914, 1914, in Guerra e fede, 1919, 3a ed. riv. e ampliata a cura di H.A. Cavallera, 1989, p. 10) e ancor più nel dopoguerra e con l’avvento del fascismo al potere, quando l’unità tra attività teoretica e attività pratica si definiva come unità fra politica e cultura. A quel punto la battaglia – che era una battaglia del fascismo, come affermava il 30 marzo 1925 a Bologna in Il fascismo nella cultura, discorso di chiusura al I Convegno per la cultura fascista (meglio noto come I Convegno degli intellettuali aderenti al fascismo) – era esplicitamente rivolta contro l’«intellettualismo», «malattia dello spirito»,
per cui l’uomo a poco per volta si dimentica di partecipare anche lui, sempre e in tutti i modi, alla vita, con le sue gioie, co’ suoi dolori e con tutte le sue responsabilità, e finisce col credere di esserne un semplice spettatore, e collocato perciò al di là del bene e del male (in Che cosa è il fascismo. Discorsi e polemiche, 1925, poi in Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 1° vol., 1990, p. 91).
Esempio primo di quegli «intellettuali italiani vecchio stile alla finestra» (L’Istituto nazionale fascista di cultura. Discorso inaugurale letto in Campidoglio il 19 dicembre 1925 dal presidente, «Educazione politica», 1925, 10, poi in Politica e cultura, 1° vol., cit., p. 266) era per Gentile proprio Croce, particolarmente dopo la pubblicazione («Il Mondo», 1° maggio 1925) di uno scritto intitolato Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani al manifesto degli intellettuali fascisti (ma meglio noto come Manifesto degli intellettuali antifascisti), che segnò la definitiva rottura tra loro. Croce vi aveva, infatti, ribadito che il dovere dei «cultori della scienza e dell’arte», in quanto intellettuali, era quello di «attendere, con l’opera dell’indagine e della critica e le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale» e aveva definito un «errore» «varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza» (cit. in Papa 1974, p. 212). Per Gentile, invece, nel momento dell’adesione a un partito e a un regime politico, motivato all’interno di una precisa rilettura della storia d’Italia («Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana», era infatti l’incipit del Manifesto degli intellettuali italiani fascisti agli intellettuali di tutte le Nazioni, «Il Popolo d’Italia», 21 aprile 1925, poi in Politica e cultura, 2° vol., 1991, p. 5), ancor più diveniva inaccettabile la divisione fra l’essere e l’agire e si imponeva una netta scelta di campo.
Il già citato discorso pronunciato da Gentile (alla presenza di Benito Mussolini) in occasione dell’inaugurazione dell’Istituto nazionale fascista di cultura (INFC), di cui era presidente, costituisce una summa del suo pensiero in merito all’organizzazione della cultura, ora che c’era un regime politico intenzionato a costituire strutture finalizzate al consenso degli intellettuali e a porre la loro attività al servizio della nazione. Infatti il nuovo Istituto, sottolineava Gentile, nasceva proprio grazie al Partito nazionale fascista (PNF), che affidava agli uomini di cultura il compito di contribuire alla grandezza della nuova Italia fascista. Questo Istituto, come «le accademie tradizionali», doveva infatti coordinare «dal punto di vista fascista» i più eminenti studiosi, ma, a differenza di quelle, doveva stimolare le energie intellettuali «a non rinchiudersi in astratte speculazioni remote da ogni azione sulla vita nazionale economica, morale e politica» e, in positivo, a «illuminare e formare la coscienza della nuova Italia». L’Istituto era quindi «battezzato fascista» proprio per distinguersi da quelle vecchie accademie italiane «umbratili, apolitiche, agnostiche, intellettualistiche», già denigrate nel citato discorso del 1911 alla Biblioteca filosofica, e perché costituiva il luogo nel quale gli studiosi, gli artisti, gli scrittori, assieme alle associazioni che vi aderivano, potevano «contribuire al progresso intellettuale, morale ed economico del popolo italiano» e compiere «un’opera nazionale di solidarietà fascista: opera illuminatrice dei maggiori problemi nazionali presenti, formatrice della nuova coscienza politica italiana» (L’Istituto nazionale fascista di cultura, cit., pp. 257 e 271). Era l’organismo a essere definito dall’aggettivo fascista, non la cultura, per le convinzioni gentiliane che si distaccavano considerevolmente dal fascismo intransigente. Il fascismo, uscito «vittorioso» dalla battaglia, doveva far propria la cultura che l’aveva preceduto, non farne tabula rasa: «A quelle pietre – perché non dirlo? – non possiamo, non vogliamo rinunciare», quando quella cultura poteva essere adoperata «come valido strumento alla grande opera di costruzione, che è la missione del fascismo» (pp. 267-68).
Lo stesso discorso era all’origine dell’impianto dell’Enciclopedia Italiana, che, grazie alla collaborazione dei maggiori esperti nei diversi campi del sapere, indipendentemente se fossero iscritti o meno al PNF, sarebbe stata «una delle opere più splendide della nuova Italia: dell’Italia fascista» (L’Enciclopedia Italiana e il fascismo, «La Tribuna», 28 aprile 1926, in Politica e cultura, 1° vol., cit., p. 300). Così scriveva Gentile al direttore del quotidiano romano «La Tribuna», Roberto Forges Davanzati, il quale aveva riprodotto un brano dell’attacco sferrato da Telesio Interlandi sul quotidiano fascista «Il Tevere» (Considerazioni sopra un elenco di Enciclopedici, 25 aprile), dopo che, in marzo, l’Istituto della Enciclopedia Italiana aveva pubblicato un Primo elenco dei collaboratori, tra i cui 1410 nomi si trovavano quelli di circa novanta firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti. Nella distinzione della «politica dalla tecnica» – ribadiva Gentile – era la premessa per la realizzazione di un’opera che aveva l’ambizione di essere un «gran monumento nazionale» e che, una volta finita, avrebbe ricordato,
come nessun’opera mai fece per l’innanzi, che cosa il mondo civile in ogni campo del pensiero, in ogni arte, in ogni specie di lavoro, in ogni forma di umanità deve al popolo italiano,
e «di che vasta e salda organizzazione scientifica, ossia di quanta forza di disciplina superiore sia oggi capace questo popolo rianimato dal Fascismo» (L’Enciclopedia, cit., p. 300). Questo era il fascismo per Gentile:
quel fascismo che può affermare con giusto orgoglio: io non sono Partito, ma sono l’Italia. È il fascismo che può e deve chiamare a raccolta per ogni impresa nazionale tutti gl’Italiani, anche quelli dell’antimanifesto. I quali, se risponderanno all’appello, non verranno (stia pur tranquillo Interlandi) per fare dell’antifascismo: verranno, almeno nell’Enciclopedia, a portare il contributo della loro competenza (p. 301).
Un’opera culturale, quindi, che non si basava sulle tessere, ma che poteva essere realizzata grazie al «nuovo spirito esploso con l’avvento del Fascismo», come scriveva nella prefazione al primo volume, uscito nel 1929 (p. XII, poi in Politica e cultura, 2° vol., cit., p. 356).
In termini simili Gentile si era espresso nella lettera inviata l’8 aprile 1925 agli studiosi, per invitarli a collaborare a
un’opera di carattere nazionale che intende a raccogliere, al di sopra di tutti i partiti politici o indirizzi scientifici, tutte le energie intellettuali del paese, in una costruzione che onori gli studi italiani e degnamente li rappresenti nel mondo, mentre le rivolga all’incremento della stessa cultura nazionale (cit. in Belardelli, in 1925-1995. La Treccani compie 70 anni, 1995, p. 81).
Molti risposero all’invito e tra essi, come accennato, non pochi dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti – tra essi non vi fu Croce, che a Gioacchino Volpe il 7 aprile 1925 scriveva: «come volete che io collabori a un’Enciclopedia diretta da chi ha pur testé, a Bologna, osato proclamare che la cultura deve essere fascista?» (p. 92) – così come vi collaborarono molti altri antifascisti e, anche dopo le leggi razziali, numerosi studiosi ebrei. L’opera, seppure di alta cultura, rimaneva un’opera del regime, e lo stesso Gentile era il garante delle tendenze politiche dei collaboratori, come rassicurava Mussolini in una lettera dell’8 luglio 1933, scrivendo che sarebbero stati «scarta[ti] tutti gli antifascisti» e che tutti gli articoli sarebbero stati da lui sottoposti a «rigorosa revisione» (cit. in Turi 2002, p. 78).
La nascita degli Istituti di cultura fascista
Si trattava di due istituzioni molto lontane tra loro, accomunate dalle finalità che Gentile attribuiva alle funzioni degli intellettuali e dall’impegno concreto che essi dovevano avere nella vita politica e culturale della nazione, un impegno che non doveva consistere in riduttive azioni di propaganda politica.
Nel caso dell’INFC, la collaborazione degli studiosi – e dei protagonisti della politica – per il rafforzamento culturale del regime, si attuava attraverso conferenze, corsi di lezioni, volumi pubblicati nelle sue collane, articoli sulla rivista che vi faceva capo («Educazione politica», dal 1927 «Educazione fascista» e dal 1934 «Civiltà fascista»), nonché attraverso la partecipazione all’attività dei numerosi Istituti fascisti di cultura sorti a livello locale. In undici anni, come ricordava Gentile a Mussolini in un’udienza del 20 agosto 1936, gli istituti erano divenuti 147 – per un totale di oltre 105.000 soci, di cui 12.500 per il solo Istituto nazionale – e avevano promosso più di 20.000 manifestazioni culturali e pubblicato 220 volumi (cfr. Le direttive del Duce per l’attività degli Istituti Fascisti di Cultura, «Civiltà fascista», 1936, 9, p. 545). Al tempo stesso, l’INFC aveva svolto un’opera di accentramento di istituzioni preesistenti, che erano state inglobate al suo interno (nel 1925 la Fondazione Leonardo per la cultura italiana e nel 1930 l’Ente nazionale “L’Italica”, che divenne la sezione per i rapporti con l’estero) o che, nei primi anni Trenta, erano state poste sotto il suo controllo (l’Istituto nazionale del dramma antico, l’Istituto italiano di studi germanici, il Centro italiano di studi per le scienze amministrative, lo Studio di diritto e politica internazionale); operazione che fu ripetuta a livello locale dagli Istituti fascisti di cultura (Vittoria 1985, pp. 127-28).
L’espansione e il controllo attuati dall’Istituto centrale e da quelli periferici nei confronti di altri organismi si fecero più marcati nel corso degli anni Trenta, finendo per snaturare il carattere elitario che Gentile intendeva attribuirgli. Contemporaneamente al venir meno dell’egemonia filosofica gentiliana all’indomani del Concordato (1929), e nel contesto di accelerazione del processo di totalitarizzazione della società a opera del PNF negli anni della segreteria di Achille Starace (1931-39), anche l’INFC divenne soprattutto un organismo di propaganda, limitando sempre più i temi della sua attività a quelli politici, corporativi e della conquista coloniale.
Le trasformazioni furono sancite nel 1937, quando l’Istituto prese la denominazione di Istituto nazionale di cultura fascista (INCF) – respinta invece fin dalle origini da Gentile – e fu sottomesso al PNF. Gentile, che pure negli anni precedenti aveva tentato un rinnovamento dell’Istituto per evitare il sopravvento di Starace, si dimise, come scrisse a Mussolini il 7 marzo, avendo appreso dai giornali i nomi dei componenti del nuovo Consiglio direttivo, che invece dovevano esser formulati su sua proposta (Vittoria 1985, pp. 193-94). Presidente divenne Pietro De Francisci, al quale nel 1940 successe Camillo Pellizzi. Secondo il nuovo statuto, l’INCF era sottoposto «all’alta vigilanza del Duce» (come già era nello statuto del 1926) ed era «alle dirette dipendenze del Direttorio Nazionale del P.N.F.» (formula invece prima inesistente); gli si attribuivano inoltre gli obiettivi di «promuovere e coordinare gli studi sul Fascismo», di «tutelare e diffondere all’interno e all’estero, le idealità, la dottrina del Fascismo e la cultura nazionale», e di «promuovere e disciplinare la cultura corporativa» (Vita dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, «Civiltà fascista», 1937, 1-2, pp. 102-04).
Il segretario del PNF aveva quindi vinto la sua battaglia nei confronti di Gentile, ed era riuscito a fare dell’Istituto, come scriveva il filosofo al suo ex allievo Vito Fazio-Allmayer il 17 marzo 1937,
uno strumento del Partito stesso, spogliandolo di quel po’ d’autonomia che io ne avevo sempre difeso per conservare un qualche valore a quel tanto di apporto ideale che esso dà al Partito» (cit. in Longo 2000, p. 162).
Questa amara conclusione, tuttavia, non modificava – proseguiva – «menomamente il mio modo di pensare sul fascismo» (p. 163).
L’Enciclopedia
Diversa la vicenda dell’Enciclopedia, la cui nascita testimoniava quanto si stesse allargando la presenza di Gentile nell’editoria e negli organismi culturali fin dall’inizio degli anni Venti.
La prima idea di una Grande enciclopedia italica era stata formulata nel 1919 dall’ex ministro della Pubblica Istruzione Ferdinando Martini e dallo storico Mario Menghini, e la sua realizzazione, attraverso un consorzio di editori e librai, era stata affidata nel 1922 alla già citata Fondazione Leonardo, nata a Roma nel 1921 a opera dell’editore modenese Angelo Fortunato Formiggini, che ne era presidente. Nel febbraio del 1923 intervenne Gentile, allora ministro della Pubblica Istruzione, che, manipolando l’assemblea dei soci della Fondazione – come accusò Formiggini nel suo pamphlet La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo: libro edificante e sollazzevole (1923) –, rovesciò il consiglio direttivo, che venne ristrutturato sotto la sua presidenza. Mentre l’ente culturale fu, come si è detto, assorbito dall’INFC (rimase solo la rivista fondata da Gentile, «Leonardo», che sarà poi diretta dal figlio Federico), il progetto enciclopedico di Martini fu ripreso dal filosofo siciliano, che lo realizzò grazie all’aiuto economico dell’imprenditore tessile e senatore Giovanni Treccani. Nel febbraio del 1925 fu quindi costituito l’Istituto Giovanni Treccani, ente privato, per la pubblicazione di un’opera enciclopedica e di eventuali integrazioni.
Nell’atto di costituzione dell’Istituto erano ribaditi gli stessi intenti culturali che Gentile attribuiva all’impresa: a questa, infatti, il senatore Treccani si accingeva
nel desiderio di servire la Patria procurando alla cultura italiana uno strumento di cui essa da lungo tempo aveva bisogno per il suo stesso incremento e per la diffusione di una esatta nozione e di un giusto giudizio del contributo che l’Italia ha in ogni tempo arrecato ed arreca al patrimonio spirituale dell’umanità (Atto costitutivo ente privato Istituto Giovanni Treccani, cit. in Crasta, in 1925-1995, 1995, p. 60).
Dopo una serie di passaggi editoriali, con il d.l. 24 giugno 1933 nr. 669 (convertito nella l. 11 gennaio 1934 nr. 68), fu costituito un nuovo organismo a carattere pubblico, l’Istituto della Enciclopedia Italiana fondato da Giovanni Treccani, che fu finanziato da cinque enti parastatali (Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Monte dei Paschi di Siena, Istituto nazionale delle assicurazioni e Istituto poligrafico dello Stato). Treccani lasciò la carica di presidente a Guglielmo Marconi e divenne vicepresidente, assieme a Gentile.
Tra il 1929 e il 1937 uscirono, sotto la direzione scientifica di Gentile, 35 volumi dell’Enciclopedia Italiana e, nel 1938, la prima Appendice, cui seguì il lavoro redazionale finalizzato al progetto di un Dizionario biografico degli Italiani e di un’Enciclopedia minore. Per disposizione di Starace, l’Istituto stampò il Dizionario di politica, uscito nel 1940 a cura del PNF, che riusciva anche in questo caso a penetrare in un’organizzazione culturale.
Più del condizionamento politico sull’opera – che anzi poté contare sul sostegno di Mussolini, autore, all’interno della voce collettiva Fascismo (14° vol., 1932), di La dottrina politica e sociale, seconda parte della sezione Dottrina, la cui prima parte, Le idee fondamentali, affidò a Gentile – si fece sempre più pressante quello ecclesiastico. Nel febbraio del 1925 fu lo stesso Gentile a incontrare il preposito generale della Compagnia di Gesù, il polacco Włodzimierz Ledóchowski, che autorizzò i membri della Compagnia a collaborare all’opera per quanto riguardava la storia dell’Ordine. Pochi mesi dopo, alla prima riunione dell’Istituto, Treccani, sottolineando che l’Enciclopedia doveva «corrispondere ai sentimenti tradizionali degli Italiani» e quindi «essere non solo patriottica, ma anche bene accetta dalla Chiesa», comunicò che a questo fine c’era stato «un accordo» in base al quale padre Pietro Tacchi Venturi della Compagnia di Gesù avrebbe diretto la sezione dedicata alle materie ecclesiastiche (cit. in G. Treccani, Enciclopedia Italiana Treccani: come e da chi è stata fatta, 1947, pp. 46-47), anche se la chiamata ufficiale avverrà solo nell’aprile 1926 (Nisticò 1991, p. 121).
La presenza cattolica nell’opera (anche padre Agostino Gemelli aveva offerto la propria collaborazione) cominciò a farsi sentire in maniera sempre più significativa, particolarmente dopo il Concordato.
Gentile presidente
Il ruolo di Gentile nel campo dell’organizzazione culturale e dell’editoria, nonostante la perdita di egemonia all’interno del regime fascista negli anni Trenta, rimase tuttavia molto rilevante, con numerose cariche accumulate a partire al decennio precedente, tanto che ci furono frequenti segnalazioni anonime nei suoi confronti a Mussolini.
Gentile fu, infatti, presidente di centri finalizzati alla valorizzazione del patrimonio culturale italiano (già esistenti, come la Commissione vinciana, o creati dal fascismo, come il Centro nazionale di studi manzoniani e la Domus galileiana), di organismi quali l’Istituto interuniversitario italiano, fondato nel 1923 per la diffusione della cultura italiana fra gli stranieri venuti nel Paese, e di istituzioni nate nel contesto dei mutamenti che si stavano avviando a livello internazionale e dei rapporti dell’Italia con altri Paesi. Tra queste istituzioni, l’Istituto italiano di studi germanici di Roma, dipendente dall’INFC e il cui presidente doveva essere il medesimo di quello, mentre ne era direttore il titolare della cattedra di letteratura tedesca all’Università di Roma, Giuseppe Gabetti. Collegato a un analogo organismo tedesco a Colonia, nasceva con l’obiettivo di far conoscere la cultura tedesca in Italia; così affermava Gentile all’inaugurazione dell’Istituto, il 3 aprile 1932:
Oggi è la volta dei popoli germanici, dei quali la lingua, la poesia, il pensiero già sempre studiammo; ma vogliamo conoscerne compiutamente ogni scienza ed arte, e la storia e gli uomini che oggi onorano questi popoli (L’Istituto italiano di studi germanici, «Educazione fascista», 1932, 4, poi in Politica e cultura, 2° vol., cit., p. 417).
Un altro importante istituto da lui presieduto – che come quello per gli studi germanici avrebbe proseguito la propria attività negli anni del dopoguerra – fu l’Istituto italiano per il Medio e l’Estremo Oriente, nato a Roma nel 1933 per promuovere i rapporti culturali con i Paesi asiatici.
Un settore dove il ruolo di Gentile si manifestò attivamente fu quello della riorganizzazione degli istituti di studi storici. Nel marzo 1932 fu nominato presidente del Comitato nazionale per la storia del Risorgimento, le cui funzioni furono in parte trasferite alla Società nazionale per la storia del Risorgimento, che aveva subito un processo di fascistizzazione con l’espulsione degli esponenti liberali e la presidenza di Cesare Maria De Vecchi. Il Comitato nazionale, al quale era annessa dal 1925 la Scuola di storia moderna e contemporanea diretta da Volpe, fu trasformato in Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, di cui Gentile divenne commissario nell’ottobre 1934. Anche in questo caso si trattò, come affermò nel febbraio 1935 in una relazione indirizzata al ministro dell’Educazione nazionale, De Vecchi, di trasformare una vecchia istituzione in
un Istituto vivo, che, oltre custodire, ravvivasse la storia recente di questa nostra Italia risorta col Fascismo a più alta coscienza di sé e del suo passato; e per ravvivarla studiasse metodicamente, scientificamente, nell’ampio quadro dell’età moderna la storia del Risorgimento (Dal Comitato Nazionale per la storia del Risorgimento al R. Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea, relazione a S.E. il Ministro della Educazione Nazionale, poi in Politica e cultura, 2° vol., cit., p. 424).
Con lo stesso spirito Gentile assumeva la presidenza o la direzione di organismi che avevano lo scopo di rivalutare la tradizione italiana, portata nuovamente in primo piano grazie al regime fascista e al sostegno nei confronti di organismi e iniziative culturali. Oltre a essere direttore di edizioni nazionali (epistolario di Vincenzo Gioberti, scritti di Giuseppe Mazzini, opere di Ruggiero Bonghi e di Francesco Petrarca), assunse la direzione di numerose riviste (da quella dell’INFC agli «Annali della Regia Scuola Normale Superiore di Pisa»), che riteneva anch’esse strumento fondamentale per la politica culturale del fascismo e della battaglia sul piano filosofico sua e dei suoi allievi, come fu in particolare il «Giornale critico della filosofia italiana», di cui era redattore Ugo Spirito. In precedenza, aveva collaborato con Croce alla direzione della «Critica», dal 1903 – quando era stata fondata – fino al 1923.
Gentile e l’editoria
La presenza di Gentile nel campo editoriale risaliva alla prima fase della sua attività e della stretta collaborazione con Croce. In primo luogo nella casa editrice Laterza di Bari, per la quale diresse, con Croce, le collane Classici della filosofia moderna e Scrittori d’Italia, e, da solo, Filosofi antichi e medievali. Nel 1920, presso l’editore barese fu avviata la stampa della collana Scritti filosofici di Giovanni Gentile. Gentile e i suoi allievi furono legati anche ad altre case editrici, in particolare alla Sandron di Palermo, che pubblicò diversi testi del filosofo siciliano relativi alle questioni pedagogiche e alle polemiche sulla scuola di inizio secolo e del periodo in cui sarà ministro della Pubblica Istruzione.
Nel dopoguerra, i rapporti di Gentile con la Laterza si logorarono progressivamente, a causa delle divergenti posizioni politiche con Croce di fronte al fascismo, tanto che nel 1923 venne interrotta la pubblicazione della citata collana sui suoi Scritti filosofici. L’occasione della rottura definitiva fu causata, nel 1928, dalla pubblicazione della Storia d’Italia dal 1871 al 1915: Gentile non accettò che in quest’opera Croce affermasse che «il cosiddetto idealismo attuale» si era svelato sempre più apertamente «come un complesso di equivoche generalità e un non limpido consigliere pratico» (2004, a cura di G. Talamo, A. Scotti, p. 244). La giudicò «una frase equivoca, che è una vera insinuazione maligna e spregevole contro di me», e che non poteva esser lasciata passare «sotto silenzio» (lettera a Giovanni Laterza, 27 gennaio 1928, in Laterza: un secolo di libri, 1885-1985, 1989, p. 28); pose quindi il problema all’editore, che tentò una mediazione con Croce perché modificasse la frase incriminata in una ristampa, ma senza successo. Il 30 gennaio Gentile rispose allora a Laterza di non poter
ammetter che un editore mio amico pubblichi un libro in cui si fa strazio del mio onore insinuandosi che la mia dottrina non è limpida consigliera pratica, come se io avessi commesso scorrettezze fuorviato dalla mia falsa filosofia (p. 28).
Il filosofo mise fine così alla propria collaborazione con la casa editrice.
Nel corso del ventennio fascista, Gentile non solo ebbe rapporti con numerosi editori, ma acquisì anche proprietà e controlli finanziari. Nel mondo editoriale fiorentino, sul quale – come scrisse Adolfo Omodeo a Ernesto Codignola il 6 marzo 1932 – estese «il suo trust» «come una piovra da romanzo salgariano» (cit. in Turi 1995, p. 452), fu protagonista di un complesso movimento economico-finanziario, che lo portò a essere presente nel 1934-36 contemporaneamente nei consigli di amministrazione delle case editrici Sansoni, Bemporad e Le Monnier, fin quando, nel 1937, con la sua famiglia acquisì la totalità delle azioni della Sansoni. Qui un ruolo significativo lo ebbero i figli Federico e Fortunato, quest’ultimo responsabile della filiale aperta a Roma.
Nel corso degli anni Trenta la casa editrice Sansoni – pur mantenendo la sua fisionomia – divenne uno dei settori cardine dell’attività di Gentile, uno strumento per la diffusione del pensiero filosofico della sua scuola e per la trasmissione della sua interpretazione della cultura e della storia d’Italia. Al tempo stesso fu sostenuta una politica editoriale atta a garantire la casa editrice dal punto di vista commerciale. Oltre al mercato dei libri scolastici, dove già la Sansoni era presente, furono avviate numerose pubblicazioni promosse in collaborazione con enti e istituti che le avrebbero sovvenzionate, o che avrebbero potuto ottenere finanziamenti ministeriali. La Sansoni divenne la casa editrice delle istituzioni dirette o presiedute da Gentile, di istituti di carattere politico o universitario di vecchia data o di nuova formazione, come l’Istituto superiore di scienze sociali e politiche Cesare Alfieri di Firenze e la Scuola di scienze corporative dell’Università di Pisa. Differentemente dal passato, nel catalogo apparvero testi e collane a carattere divulgativo e legati a questioni politiche attuali.
Gentile aumentò il numero dei testi di filosofia, anche con l’acquisizione del «Giornale critico della filosofia», e varò la nuova collana Civiltà europea che, sulla base di un modello enciclopedico, prevedeva la pubblicazione in 30 volumi di «una storia della civiltà europea scritta in Italia da italiani»:
La storia patria – scriveva – se vuole aggiornarsi, deve ormai salire a più alto punto di vista, e senza cessare di essere italiana, anzi, per essere più veramente italiana, deve diventare storia europea (Catalogo del 1932 postillato da Giovanni Gentile, in Testimonianze per un centenario, 1° vol., Contributi a una storia della cultura italiana 1873-1973, 1974, p. 254).
La casa editrice infine prese in carico l’edizione delle sue Opere complete.
La cultura per unire gli italiani
Il ruolo di Gentile nelle istituzioni culturali e nel settore editoriale sarebbe, dunque, rimasto significativo nonostante le profonde differenziazioni con alcuni settori del PNF. La sua posizione di fedeltà al regime e a Mussolini, costruttore dello Stato totalitario, peraltro non venne mai meno. Come ebbe a scrivere:
Lo Stato di Mussolini è forza; ma è forza perché è idea. È concetto dell’uomo e del mondo, e quindi programma totalitario di vita, così pel singolo come per la nazione (Parole preliminari, «Civiltà fascista», 1934, 1, poi in Politica e cultura, 2° vol., cit., p. 288).
La sua adesione convinta non venne meno neppure dopo l’entrata dell’Italia in guerra, né quando per le potenze dell’Asse cominciò a profilarsi sempre più netta la sconfitta. Anzi, sarà proprio la drammatica situazione del Paese a spingerlo a esigere che la popolazione si stringesse nuovamente attorno al regime e ai suoi alleati: nel Discorso agli italiani, tenuto in Campidoglio il 24 giugno 1943, Gentile, nel nome della «fede nella Patria immortale», rivolse un appello a tutti gli italiani perché fossero
fedeli alla madre antica; disciplinati, concordi, memori della responsabilità che viene a voi dall’onore di essere Italiani; risoluti di resistere, di combattere, di non smobilitare gli animi finché il nemico vi minacci, e dubiti della vostra fede e del vostro carattere (p. 208).
Per tali motivi dopo l’8 settembre aderì alla Repubblica di Salò, accettando la nomina, propostagli da Mussolini, a presidente dell’Accademia d’Italia, «uno dei premi più ambiti che potessero toccare alla mia vita scientifica e politica tutta dedicata al bene della Patria», come gli scriveva il 26 novembre 1943 (cit. in Turi 1995, p. 509). Commemorando il bicentenario vichiano, il 19 marzo 1944, Gentile rivendicò la «resurrezione di Mussolini», grazie alla quale era «risorta l’Italia di Vittorio Veneto» e indicò l’Accademia d’Italia come esempio di un’istituzione che intendeva «sopravvivere all’onta dell’8 settembre» (L’Accademia d’Italia e l’Italia di Mussolini, poi in Politica e cultura, 2° vol., cit., pp. 478-79). Il filosofo ebbe l’incarico di riordinare l’Accademia della Crusca, per l’Accademia d’Italia approntò una riforma, approvata dal governo nel marzo 1944, con la quale fu ripristinata l’Accademia dei Lincei, soppressa nel 1939.
Fu con lo stesso desiderio che ci si raccogliesse attorno alla patria «smarrita» che accettò la direzione della «Nuova Antologia», che, come l’Accademia d’Italia, fu trasferita a Firenze. La cultura e gli strumenti culturali, ancor più in quella fase di guerra e di sconfitta, dovevano svolgere la loro funzione: di fronte alla «discordia che ci dilania» – scriveva nell’articolo inaugurale della nuova fase della rivista – era alla cultura che toccava il compito di divenire lo «strumento di fusione degli spiriti» (Ripresa, 1° genn. 1944, poi in Politica e cultura, 2° vol., cit., pp. 474-75).
In una lettera scritta il 27 novembre 1943 alla figlia Teresa, così aveva motivato le scelte compiute e la presidenza dell’Accademia d’Italia, coerentemente con il proprio passato, nel quale aveva sostenuto il fascismo e al tempo stesso protetto e aiutato gli studiosi e gli allievi antifascisti:
Non accettarla sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita […]. E poi io profondamente desidero che si vinca; che l’Italia risorga col suo onore; che la mia Sicilia sia alla mia morte la Sicilia italianissima in cui nacqui e in cui sono seppelliti i miei genitori. Aspettare, tappato in casa, che maturino gli eventi è il solo modo che ci sia di compromettersi gravemente. Bisogna marciare come vuole la coscienza. Questo ho predicato tutta la vita. Non posso smentirmi ora che sto per finire (cit. in Turi 1995, p. 511).(fonte)
[3] Vittorio Scialoja. Nacque a Torino il 24 aprile 1856 da Antonio e da Giulia Achard, figlia di un facoltoso commerciante francese.
La famiglia paterna, originaria di Procida, era di consolidata tradizione liberale sin dai tempi della Repubblica partenopea, per l’adesione alla quale il prozio Antonio fu impiccato e vari suoi congiunti esiliati. La figura del padre, noto economista e senatore – così come la vicinanza di questi con Giuseppe Pisanelli, Pasquale Stanislao Mancini e Silvio Spaventa – ebbe un peso rilevantissimo nella formazione culturale di Vittorio, nelle sue inclinazioni ideologiche e nella sua propensione per gli studi giuridici.
Dopo il periodo torinese, Scialoja compì gli studi ginnasiali a Firenze e quelli liceali e universitari a Roma, dove si laureò nel 1877 con una tesi (Sopra il precarium nel diritto romano, stampata l’anno seguente) discussa con Nicola De Crescenzio. Più che il magistero di quest’ultimo – che peraltro Scialoja ricordò sempre con devozione, segnalando in particolare che aveva contribuito «al progresso della scienza […] con l’insegnamento» (Nicola De Crescenzio, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano «Vittorio Scialoja», VII (1894), p. 303) ancor più che con gli scritti – furono decisivi, nel giovane laureato, lo spiccatissimo senso giuridico e le rare capacità di autodidatta, tanto che non trascorse neppure periodi di perfezionamento in Germania, come era invece costume per i giuristi della sua generazione, specialmente per gli studiosi di diritto romano, e contribuendo tuttavia in modo decisivo alla recezione, e a una peculiare rivisitazione, dei modelli tedeschi.
Indirizzato, soprattutto da Mancini, verso l’insegnamento dopo essersi inizialmente orientato alla magistratura, ad appena ventitré anni (nel 1879) Scialoja fu chiamato come professore straordinario di diritto romano e civile nella libera Università di Camerino. Vi rimase un solo anno, ma inaugurando il proprio corso con una prolusione dalla vasta eco: Del diritto positivo e dell’equità.
Già la scelta di dedicarsi a un tema non strettamente inerente alla sola storia giuridica antica, ma di ampio respiro e dalle molteplici implicazioni sul piano della teoria e della politica del diritto, illustra precocemente alcuni tratti della sua personalità scientifica, rivolta alla dimensione giuridica nel suo complesso, senza appagarsi di specialismi disciplinari, e anzi tesa a misurarsi con gli snodi più delicati che la scienza del diritto era chiamata allora ad affrontare. Particolarmente significativa è anche la posizione che Scialoja assunse in quell’occasione, respingendo ogni reale contrapposizione tra equità e diritto positivo, nel senso che per il giurista la prima riuscirà rilevante solo in quanto tradotta nelle disposizioni dell’ordinamento, non certo come dettame etico, in ciascuno diversamente declinabile, così da revocare la cogenza delle medesime disposizioni.
Un simile atteggiamento, ampiamente seguito nei decenni successivi, è stato letto nei termini di un rigoroso e unilaterale ‘legalismo’; ma la preoccupazione di salvaguardare la precaria coesione del neonato Stato italiano, e quindi anche della codificazione civile da esso raggiunta (1865), a fronte di ogni forza disgregante (compresa appunto l’equità, se percepita quale «un sentimento o un concetto […] individuale», Studi giuridici, III, Roma 1933, p. 14), è solo uno dei motivi rintracciabili in quell’intervento. Ed era proprio (e solo) contro quella configurazione parcellizzata e nebulosa dell’equità, con gli esiti eversivi che rischiava di innescare rispetto a un ordine giuridico unitario, che si levava la voce di Scialoja: non contro l’«equità comune», espressiva di «un’aspirazione di un popolo ad un certo diritto» e di una «volontà […] che giunge ad un certo grado d’intensità riconoscibile dalla forma esterna» (p. 14), per poi riversarsi nelle previsioni del legislatore ancor piú che nelle scelte del giudice, giacché veniva ribaltato un noto adagio, per affermare che «aequitas legislatori, jus judici magis convenit» (p. 15). Si voleva unica e mai disattesa la legge dello Stato, ma – si potrebbe dire anticipando alcuni fili conduttori dell’intera riflessione di Scialoja – la si sapeva anche altra dal diritto di un popolo, nutrito dai principi della tradizione, forte di apporti scientifici non appiattiti sul nudo impegno esegetico.
Nel 1880 giunse la chiamata come incaricato di diritto romano a Siena, dove rimase quattro anni nonostante la vittoria nel concorso per la cattedra di straordinario a Catania, nel 1881. Gli esordi non furono semplici: i metodi d’insegnamento, innovativi quanto rigorosi – ricalcati, nella sequenza della trattazione, sull’impianto sistematico ormai prevalente, ma per dare largo spazio all’analisi delle fonti e ai collegamenti con altre materie – suscitarono malumori negli studenti, e forse anche in alcuni colleghi, sino a sfociare in un’autentica sollevazione (maggio 1881), con conseguente sospensione delle lezioni disposta dal Consiglio accademico (salvo la loro ripresa per diretto intervento del ministro Guido Baccelli). Negli anni senesi non mancarono tuttavia, per Scialoja, risultati rilevanti: dalla promozione a ordinario (nel 1883-84) alla formazione dei primi dei suoi innumerevoli allievi (il romanista Carlo Manenti e il civilista Dante Caporali), sino al ruolo assunto nelle attività seminariali ed esegetiche del neonato Circolo giuridico della facoltà giuridica toscana e poi nella fondazione della connessa rivista Studi senesi (il cui principale impulso si dovette al penalista Enrico Ferri). Del 1881 è anche una ‘lettera aperta’ destinata a Filippo Serafini e pubblicata nella rivista da questi diretta, Archivio giuridico (Sul metodo dell’insegnamento del diritto romano nelle Università italiane).
Nel tratteggiarvi le modalità didattiche stimate ormai necessarie, Scialoja non esitava a qualificare il diritto romano un «diritto morto», ma la cui analisi, proprio per questo, appariva persino più feconda sul piano scientifico, dal momento che di essa (più che di un «diritto vivente») era consentito l’esame «anatomico» e anche la ricostruzione degli sviluppi diacronici, mettendone a frutto le potenzialità cognitive rispetto agli assetti attuali – tanto che quella lettera può essere intesa quale «manifesto» di una «‘Nuova scuola storica italiana’, in contrapposizione alla Scuola storica tedesca» (Orestano, 1987, p. 507).
Nel 1884 Scialoja passò a La Sapienza di Roma – dove insegnò prima diritto romano e dal 1922 istituzioni di diritto romano – al termine di un concorso che lo vide competere con alcuni allievi del docente di quella materia allora più influente, Serafini, e prevalere solo dopo l’annullamento ministeriale dei lavori di una prima commissione esaminatrice. Questo successo e il prestigio della cattedra romana segnarono l’avvio della sua ascesa nel panorama non solo della romanistica, ma dell’intera scienza giuridica italiana, di cui divenne un incontrastato protagonista, senza rinunciare alla professione di avvocato civilista e amministrativista – esercitata con notevole successo (e non senza eco sugli sviluppi della giustizia amministrativa), per divenire anche presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma (1912) e del Consiglio superiore forense (1926) – e a un impegno politico assiduo, che lo condusse a ricoprire, come vedremo, una molteplicità di incarichi. La sua preminenza scientifica e accademica, dietro alla quale vi era un solido progetto di rifondazione della cultura giuridica del Paese, si affermò attraverso una strategia centrata sulla fondazione di una rivista (dedicata, per la prima volta, esclusivamente al diritto romano e che potesse divenire il luogo privilegiato per diffondere l’impostazione del suo direttore), la creazione di una scuola e la messa a punto di un metodo scientifico al passo con quelli ormai affermati in Europa (in particolare in Germania).
Nella prima prospettiva Scialoja, dopo tre anni dalla chiamata a La Sapienza, dette vita all’istituto di diritto romano, di cui divenne ‘segretario perpetuo’ e al quale furono chiamati a partecipare romanisti, ma anche cultori di archeologia e storia antica, di diritto vigente e di storia del diritto italiano, e che presto assorbì un’analoga istituzione (la Società italiana per l’incremento degli studi romanistici) contestualmente creata da uno dei contendenti al concorso romano, Lando Landucci (1855-1937), allora professore a Padova: si trattò di un ulteriore ‘colpo’ inferto alla scuola di Serafini. E subito dopo, nel 1888, l’istituto fu provvisto di un periodico (il Bullettino dell’Istituto di diritto romano, tuttora edito), la cui vita proseguì poi in sostanziale indipendenza dalle vicende del medesimo ente.
Quanto alla creazione di una scuola, fu questo uno degli ambiti in cui Scialoja mostrò un talento raro, che forse nell’insegnamento e poi nella selezione e formazione di giovani studiosi fu persino superiore a quello riversato nella ricerca scientifica (così si potrebbe dire, adattando il giudizio che egli aveva formulato per De Crescenzio).
Furono suoi allievi in senso stretto, o comunque da lui fortemente influenzati, futuri prestigiosi docenti di diritto romano come Pietro Bonfante (1864-1932), Gino Segrè (1864-1942), Salvatore Riccobono (1864-1958), Carlo Longo (1869-1938), Siro Solazzi (1875-1957) e Vincenzo Arangio-Ruiz (1884-1964); ma anche di diritto civile quali Vincenzo Simoncelli (1860-1917), Alfredo Ascoli (1863-1942), Leonardo Coviello (1869-1939), Roberto de Ruggiero (1875-1934) e Filippo Vassalli (1885-1955), così come di diritto processuale civile, campo in cui eccelse Giuseppe Chiovenda (1872-1937), e di diritto amministrativo, come Antonio Longo (1862-1942) e soprattutto Oreste Ranelletti (1868-1956).
Attraverso le nutrite genealogie accademiche che ne discesero, l’impronta di Scialoja rimase impressa nelle principali correnti della scienza giuridica italiana fra Otto e Novecento. Insistere sulle sue straordinarie capacità nel momento didattico (soprattutto nei corsi e seminari di esegesi delle fonti), come sulla sua abilità nell’indirizzare gli allievi verso le materie per cui intravedeva in loro migliori attitudini, conferma come fra le sue doti spiccassero rapidità e acutezza delle intuizioni giuridiche, che potevano esprimersi nell’immediatezza della lezione ancor più che nell’approfondimento scritto (per il quale egli stesso confessava una certa insofferenza); ma non significa certo oscurare il rilievo della sua produzione scientifica, che continuò copiosa e incessante nel lungo periodo romano, spaziando dal diritto antico al vigente, dalla storiografia giuridica alla teoria generale, dalla ricostruzione esegetica di casi e istituti privatistici all’indagine attorno a problemi di filologia giuridica (così da coinvolgere una pluralità di testimonianze epigrafiche e papiracee e giungere altresì, nel 1931, a una nuova edizione critica del Digesto, realizzata con i più valenti romanisti italiani del tempo).
L’amplissimo spettro dei suoi interessi scientifici è anche testimoniato, ad esempio, dalla partecipazione all’Annuario di diritto comparato (autentica «epifania della cultura giuridica comparatistica», Alpa, 2000, p. 260) e al Foro Italiano, creato nel 1875 dal fratello Enrico (padre a sua volta di Antonio Scialoja jr, fondatore del diritto della navigazione in Italia) e del quale Vittorio Scialoja divenne più tardi direttore; dall’attenzione per l’insegnamento (se non per la codificazione) del diritto agrario, la cui parte più rilevante era colta nelle disposizioni di carattere pubblicistico; dall’ancor più significativa promozione di uno studio volto a fissare regole comuni per le relazioni economiche fra Italia e Francia.
Peculiare del suo metodo di lavoro negli ambiti (in lui fortemente integrati) del diritto romano e di quello civile fu – accanto, ma connessa, a quest’interesse per l’esperienza giuridica nella sua totalità (speculazione teorica e risvolti operativi, profondità storica e dimensione vigente) – una ponderata recezione del modello sistematico desumibile dai maestri della pandettistica tedesca (dal nome di Pandette, o Digesto, ove Giustiniano raccolse i frammenti degli scritti giurisprudenziali antichi, riletti nella Germania dell’Ottocento all’insegna della loro ‘attualizzazione’, assunti a fondamenta di edifici teorici organici e rigorosi, presentati come schemi logici applicabili in ogni tempo), e già da Friedrich Carl von Savigny.
Significativa è, in particolare, la scelta di Scialoja di rivolgersi, nel tradurre un’opera di quest’ultimo, al System des heutigen römischen Recht (gli otto volumi della versione italiana del Sistema del diritto romano attuale apparvero a Torino fra il 1886 e il 1898), ossia il lavoro della maturità savignyana, in cui l’istanza sistematica finiva con il prevalere, in quello che era stato il corifeo della Scuola storica, sulla stessa sensibilità per il divenire del diritto nel tempo.
Vi era, in quella scelta, non solo l’intento di agevolare la diffusione in Italia delle tesi del maestro tedesco (intento cui fece seguito il costante impegno di Scialoja di dar conto dei progressi della scienza giuridica in Germania, tramite recensioni, segnalazioni di volumi, saggi ed edizioni critiche di documenti). Essa era soprattutto funzionale a un disegno di fondo, teso a emancipare la scienza giuridica italiana dal mero lavoro ancillare rispetto al dettato dei codici: la via del sistema – con i suoi principi, astrazioni e ferree deduzioni – era anche la via di una recuperata centralità del giurista, la cui formazione non poteva che basarsi sulle dottrine romane: non più, in quanto ormai espressione di un «diritto morto», oggetto di immediata vigenza e spendibilità processuale (come invece nella Germania del tempo, che giunse a emanare un codice civile solo alla fine del XIX secolo, anche se per Scialoja la stessa «differenza tra lo stato anteriore e posteriore alla codificazione è più di forma che di sostanza», Studi giuridici, IV, Roma 1933, p. 196), ma ineludibili per comprendere genesi e portata delle disposizioni attuali, e già per fornire le categorie indispensabili al cultore e operatore del diritto (soprattutto privato), educarne quel «senso giuridico» che, tutt’altro che rispondente a un comune sentire, poteva raggiungersi solo seguendo sul campo le tecniche di generazioni di esperti.
Si realizzò così, in Scialoja, un autentico «adattamento nazionale del paradigma pandettistico» (Schiavone, 1990, p. 284), in cui non andò dissolta quella duplicità di «anime distinte», storica e sistematica, «ma collegate funzionalmente fra di loro» (Talamanca, 1995, p. 162) che caratterizzarono la cultura giuridica tedesca a partire almeno dall’ultimo Savigny (quello appunto del System). La rilettura dei materiali giuridici antichi vi operò come autentico pernio, luogo di costruzione di una coscienza critica rispetto alle soluzioni normative e alle direttive metodologiche di ogni settore giuridico, senza la quale non si potrebbe comprendere la svolta consumata in quei decenni nel rapporto fra codice e scienza del diritto.
La razionalità giuridica così delineata muoveva anche dalla capacità di evitare, da parte di Scialoja, gli eccessi di ogni approccio (quello puramente antiquario o speculativo oppure appiattito sul nudo dato legislativo; la tensione sistematica o il mero esercizio esegetico), ove anche il suo «concettualismo» (Cianferotti, 1988, pp. 725 ss.) veniva ricomposto con la sensibilità per il caso concreto in un equilibrio che aveva radici lontane, muovendo da quei giuristi romani che egli considerava i suoi veri maestri. Era una razionalità giuridica che aspirava inoltre a presentarsi come neutra: un repertorio di categorie e metodi tutti interni alle tecniche del dirittto. Immagine ovviamente artificiosa, dal momento che, sottesa a quell’attrezzatura teorica, non è difficile scorgere la precisa incidenza di motivi ideologici, che si possono sintetizzare nei termini di un «liberalismo conservatore» (Brutti, 2013, p. VII). I cardini dell’ordine giuridico borghese – la libertà del singolo, la proprietà privata quale archetipo di tutti i suoi diritti soggettivi, il ruolo della manifestazione della volontà (colta nella figura unitaria del ‘negozio giuridico’) come idonea a produrre una molteplicità di conseguenze e relazioni nel diritto civile – furono non a caso oggetti privilegiati di prolusioni (soprattutto Responsabilità e volontà nei negozi giuridici, del 1885) e trattazioni didattiche (come il corso dell’anno accademico 1892-93 sui Negozi giuridici, ma anche le lezioni di Teoria della proprietà nel diritto romano curate da Pietro Bonfante ed edite a Roma nel 1928-1933), per ricevervi sempre una ricostruzione fortemente connotata dall’individualismo liberale. Basti ricordare la persuasione, circa il negozio giuridico, della sua rispondenza a una «verità» inscritta nella prassi sociale e in regole di convivenza avvertite come pressoché immutabili, salvo poi una serrata articolazione tecnica attorno alle nozioni di «volontà», «dichiarazione» e «responsabilità» (Brutti, 2013, pp. 65 ss.); oppure lo scetticismo manifestato (sin dal giovanile Degli atti di emulazione nell’esercizio dei diritti (1878), ma destinato a riproporsi nella voce Aemulatio (1892) e in altri contributi del periodo romano) a proposito della possibilità di individuare «un precetto che condanni gli atti rivolti allo scopo di nuocere ad altri senza però lederne alcun diritto» (atti noti ai giuristi come «emulativi», e di cui Scialoja negava potersi trovare un divieto, muovendo, «in ultima analisi, dal riconoscimento della libertà come “regola fondamentale” del diritto privato», Chiodi, 2013, p. 1835).
Questo pur vasto impegno scientifico è lontano dall’esaurire la personalità e il ruolo di Scialoja sulla scena italiana (e per molti versi europea) fra XIX e XX secolo. Accanto ad alcune cariche già ricordate e ad altre prettamente accademiche – come la presidenza della facoltà giuridica romana (1897-1907 e 1915-16) e poi dell’Accademia dei Lincei (dal 1926) – il suo cursus honorum di notabile dell’Italia liberale e poi fascista è, nel corso del Novecento, davvero considerevole. Al 1904 risale la nomina a senatore, cui seguirono responsabilità di governo: il ministero della Giustizia (1909-10), quello senza portafoglio con l’incarico della Propaganda (1916-17), quello degli Affari esteri (1919-20). Fu vicepresidente del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione; ministro di Stato nel 1926; delegato italiano alla Conferenza di pace e primo rappresentante del nostro Paese (1921-32) alla Società delle Nazioni (alla cui costituzione aveva dato un personale contributo); presidente, dal 1924, della sottocommissione per la riforma del codice civile. Di rilievo, in campo politico e legislativo, le proposte di legge, avanzate in veste di guardasigilli, in materia di cittadinanza, indagini sulla paternità e trascrizione; il suo coinvolgimento già negli ultimi mesi del 1917 in merito ai provvedimenti urgenti da adottare per il dopoguerra; l’iniziativa intrapresa al fine di fissare una disciplina unitaria per i rapporti privati fra Italia e Francia – così da giungere, nel 1927, all’approvazione del «Progetto di un codice delle obbligazioni e dei contratti» comune ai due Paesi –; i ripetuti interventi volti a segnalare l’‘arretratezza’ del nostro codice civile, proporne modifiche tramite la redazione (sin dagli anni Dieci) di vari progetti e più tardi guidarne i lavori di riforma.
Dal 1924 fu in effetti chiamato a presiedere la prima delle quattro sottocommissioni in cui era articolata la Commissione reale incaricata di redigere i nuovi codici (quello civile, nel caso di Scialoja, che peraltro non mancò di dare impulso anche al codice di procedura civile). Dal suo lavoro in quella sede non scaturì però molto (se non il progetto del primo libro del codice, presentato nel 1930): l’opportunità di una revisione organica e profonda rispetto al testo previgente non venne da lui colta in pieno – e certo non per carenza di capacità né di rapidità d’azione – per ridursi a una mera, frammentaria revisione formale. Difficile sottrarsi alla sensazione che, benché pienamente disponibile a collaborare con il governo di Benito Mussolini (nei cui confronti svolse pubblici interventi sin troppo concilianti, anche a fronte dell’involuzione autoritaria seguita all’omicidio di Giacomo Matteotti, nel 1924-25), Scialoja cercasse di sottrarsi a una ridefinizione sostanziale della normativa di diritto privato, che in quel momento sarebbe equivalsa a uno stravolgimento del suo assetto di fondo, di stampo liberale, a tutto vantaggio della pervasiva infiltrazione dei principi dello Stato totalitario e corporativo, con il primato che esso riconosceva agli interventi pubblici su un’economia ormai di massa e le sue istanze di solidarismo sociale in chiave autoritaria. Da qui l’«invincibile scetticismo» che a Scialoja fu rimproverato da Dino Grandi, in quanto improntato all’idea (inaccettabile per il guardasigilli di Mussolini) secondo cui politica e diritto sarebbero stati nettamente distinti. Fra le regole giuridiche delle relazioni fra privati e il contributo della vecchia oligarchia liberale, in cui Scialoja rimaneva saldamente inscritto, si levava ora l’ombra dello Stato fascista, e al vecchio notabile non rimaneva che ridisegnare il proprio compito in termini più limitati, tali da non stravolgere l’impianto del codice del 1865, tanto che all’innovativo testo del 1942 si giungerà, sostanzialmente, in virtù dei lavori realizzati a partire solo dal 1939. Lasciato l’insegnamento nel 1931, Scialoja fu al centro di solenni onoranze nazionali, cui seguì la raccolta dei suoi contributi (cinque volumi di Studi giuridici, editi a Roma fra il 1933 e il 1936), dopo che già nel 1905 erano stati.(fonte)