Regia Nave “Regina Margherita”[1]
Avanti, Savoia ! non anche
tutta désti la bandiera al vento
G. CARDUCCI[2]
Retro
Terni 13 Marzo 1915
Ricambio sa-
luti affettuo-
samente
Sofia Spadoni
Gentile Signora
Ada Scialoja[3]
Via Cola di Rienzo 68
Roma
Testo cancellato
(Albergo Vittoria Anzio)
STA
5285
Affrancatura
POSTE ITALIANE
5 CENTESIMI 5
a
Data: 3 – 3 – 1915
Autore: STA
Soggetto: immagine nave da battaglia Regina Margherita.
B/N Colore: colori
Dimensioni: 14 x 9 cm (supporto primario)
Materiale: cartoncino
Tecnica: serigrafia
© Archivio Sacchini
Note
[1] La nave da battaglia Regina Margherita costituiva con la gemella Benedetto Brin la classe Regina Margherita. A lungo nave ammiraglia della flotta italiana, partecipò alla guerra italo-turca (1911-1912). Nel 1914, dopo l’inizio della Prima guerra mondiale, prestò servizio come nave scuola, e all’atto dell’entrata in guerra contro l’Impero austro-ungarico, nel maggio 1915, fu di base a Taranto passando l’anno successivo in servizio presso il Gruppo Navale C con compiti di protezione del campo trincerato di Valona, in Albania. Affondò nella notte tra l’11 e il 12 dicembre 1916, mentre stava ritornando in Italia, dopo aver colpito due mine. Gravi furono le perdite umane tra l’equipaggio, con 675 morti, tra cui il comandante della nave, capitano di vascello Giovanbattista Bozzo Gravina (Palermo, 21 settembre 1868-Saseno, 11 dicembre 1916), e il comandante del corpo di spedizione italiano in Albania, tenente generale Oreste Bandini, che si trovava a bordo.
Storia
Progettazione ed entrata in servizio
La nave da battaglia Regina Margherita in una foto del 1908
Dopo aver realizzato le due unità classe Emanuele Filiberto la Regia Marina ordinò la costruzione di due nuove navi da battaglia più potenti, da 14 574 tonnellate, che andarono a costituire la classe Benedetto Brin. La prima unità di questa classe venne intitolata, con decreto reale emesso da Re Umberto I il 24 settembre 1898, alla sua consorte la Regina Margherita di Savoia. Costruita nell’Arsenale militare marittimo della Spezia, su progetto originario dell’ingegnere del genio navale Benedetto Brin, rivisto dal ingegnere navale Ruggero Alfredo Micheli dopo la morte del suo predecessore, il suo scafo venne impostato il 20 novembre 1898. L’unità venne varata il 30 maggio 1901 alla presenza di re Vittorio Emanuele III di Savoia, e consegnata alla Regia Marina il 14 aprile 1904. L’11 maggio dello stesso anno, a La Spezia, la nave ricevette la propria bandiera di combattimento consegnata in una apposita cerimonia. Il Regina Margherita fu ininterrottamente nave ammiraglia della flotta, salvo due brevi periodi in cui tale ruolo fu assunto dalla gemella Benedetto Brin, sino al 15 dicembre 1910. Nel luglio 1904 la nave effettuò le prove di velocità nel golfo di Genova. Al termine delle prove fu assegnata alla Squadra del Mediterraneo, che nel 1907, formata dal Regina Margherita, dal Benedetto Brin e da tre navi da battaglia della classe Regina Elena, sotto il comando del viceammiraglio Alfonso di Brocchetti, partecipò alle manovre annuali di fine settembre e inizio ottobre.
Tecnica
Il suo dislocamento normale era di 13 427 tonnellate, quello a pieno carico di 14 574 tonnellate. La nave era lunga 138,6 metri, larga 23,8 e aveva un pescaggio di 8,9 metri. L’apparato motore era composto da 28 caldaie Niclausse che alimentavano due motrici alternative che sviluppavano una potenza di 20.000 CV. La velocità massima raggiungibile era di 20 nodi. Il combustibile era rappresentato da circa 1 000 tonnellate di carbone. I locali carbonili erano sistemati in modo tale da offrire una ulteriore protezione in caso di attacco portato dalle artiglierie. La prora era armata con un rostro per un eventuale speronamento delle navi nemiche. L’armamento principale era costituito da 4 cannoni da 305/40 mm posti in due torri binate, una a poppa ed una a prora; mentre quello secondario da 4 cannoni da 203/45 Mod. 1897 sistemati in casematte in coperta e da 12 cannoni da 152/40 mm, sei per lato nel ridotto. Quello antisilurante era costituito da 20 cannoni da 76/40 mm, 2 pezzi da 47 mm, 2 pezzi da 37 mm e 2 mitragliere. L’armamento subacqueo era costituito da 4 tubi lanciasiluri, sistemati due al di sotto della linea di galleggiamento e due al di sopra di essa. La protezione passiva era assicurata da una corazzatura Harvey in acciaio prodotta a Terni. Lo spessore alla cintura corazzata era 150 mm, quello orizzontale di 80 mm, mentre la protezione delle torri di grosso calibro era di 220 mm e della torre di comando di 150 mm.
Impiego operativo
In occasione del terremoto di Messina del 28 dicembre 1908, e di quello del gennaio 1909, la nave prestò opera di soccorso alle popolazioni colpite, venendo per questo decorata con la Medaglia di benemerenza. Lo scoppio di alcuni tubi delle caldaie durante lavori di manutenzione nel 1911 fecero sì che la nave non potesse partecipare alle operazioni navali all’inizio della guerra italo-turca rientrando in linea nei primi mesi del 1912. Nel corso di quell’anno partecipò alle operazioni nell’Egeo affiancando la gemella Benedetto Brin durante l’occupazione delle isole del Dodecaneso. Nei primi mesi del 1913 fu assegnata alle Forze Navali Riunite con compiti di sorveglianza nel Mediterraneo orientale a protezione delle isole conquistate. Raggiunta la nuova destinazione il 13 luglio, ancorandosi nell’isola di Scarpanto, il giorno 16 mentre cercava di ancorarsi nella baia di Pegadia la catena dell’ancora andò in eccessiva tensione prima di toccare il fondo e il contraccolpo sganciò il maniglione di tenuta facendola precipitare sul fondale. L’intervento di un pescatore di spugne locali, Gheorghios Haggi Statti, consentì di recuperarla dopo quattro giorni e 21 immersioni a 84 metri di profondità.
Dopo l’entrata in guerra del Regno d’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915, il Regina Margherita fu di base a Taranto, e dopo un anno venne assegnata al Gruppo Navale C con compiti di protezione del campo trincerato di Valona, in Albania, e a missioni nel basso Adriatico. Tra il dicembre 1915 e il febbraio 1916 partecipò alle operazioni di evacuazione dell’Esercito serbo. Nell’aprile del 1916 la corazzata, al comando del capitano di vascello Giovanbattista Bozzo Gravina, e su cui alzava la sua insegna il contrammiraglio Lorenzo Cusani Visconti, entrò nella rada di Valona per un normale ciclo di operazioni che terminò nel mese di dicembre. In quel mese, su decisione dell’ammiraglio Enrico Millo, il Regina Margherita ricevette l’ordine di ritornare a Taranto. Millo lasciò libero il comandante Bozzo Gravina di decidere a che ora salpare in quanto sulla zona stava imperversando una bufera. Alle 21 dell’11 dicembre la nave, visto le migliorate condizioni atmosferiche, nonostante sulla zona vi fossero forti piovaschi e una fitta nebbia, salpò con a bordo il comandante del corpo di spedizione italiano in Albania, generale Oreste Bandini. La nave da battaglia era scortata dai cacciatorpediniere Indomito e Ardente. Alle 21:34 il Regina Margherita stava transitando nel varco del campo minato steso tra l’isola di Saseno e Punta Linguetta quando colpì due mine. Le due esplosioni colpirono la santabarbara di prua e il centro della nave provocando la detonazione dell’esplosivo e lo scoppio delle caldaie. La nave, per abbrivio, proseguì nella rotta consentendo a molti dei superstiti di riunirsi a poppa. Essa si inabissò di prua in cinque minuti, trascinando con sé 674 uomini, tra cui il comandante e il generale Bandini. Nonostante le pessime condizioni del mare vennero tratti in salvo 18 ufficiali e 257 marinai. La commissione d’inchiesta successivamente istituita rilevò come il comandante Bozzo Gravina doppiato capo Gallovecit aveva fatto proseguire, per cause mai accertate, la nave sulla rotta per 289° più di quanto stabilito dalla procedura allora in uso, virando poi per 238° per entrare nel canale di sicurezza del campo minato. Questo fatto, secondo il rapporto redatto dopo l’affondamento, aveva portato la nave da battaglia appena oltre il margine del campo minato. I vertici della marina supposero un urto accidentale contro ordigni dello sbarramento difensivo, mentre la k.u.k. Kriegsmarine accreditò l’affondamento al sommergibile posamine UC-14, che apparteneva alla Kaiserliche Marine.
Curiosamente nello stesso tratto di mare a poche centinaia di metri dal relitto del Regina Margherita giace il relitto della nave ospedale Po, che venne affondata da parte di aerosiluranti britannici il 14 marzo 1941. La vicenda all’epoca provocò grande emozione ed ebbe grande risonanza anche per la presenza a bordo di Edda Ciano Mussolini in qualità di crocerossina.
Nel 1998 lo storico Andrea Bavecchi aveva già segnalato la zona dove probabilmente si trovava il relitto. A seguito di ricerche documentali e subacquee condotte dall’IANTD Instructor trainer Cesare Balzi, i resti del relitto della nave sono stati localizzati e individuati attraverso la lettura del nome sulla poppa, il 30 luglio 2005 a 9 miglia delle coste albanesi (Valona), tra l’isola di Saseno e Capo Linguetta. I resti del relitto della corazzata Regina Margherita giacciono a 66 metri di profondità.(fonte)
[2] Giosuè Carducci – Odi barbare (1877)
Delle Odi Barbare Libro I
Il liuto e la lira – A Margherita regina d’Italia(fonte)
Giosue Carducci. Poeta italiano (Val di Castello, nella Versilia, 1835 – Bologna 1907). Crebbe “selvatico” nella Maremma toscana, dove il padre, Michele, un liberale già carbonaro, era medico condotto. Andò poi a Firenze e a Pisa, dove si laureò nel 1856. Di questo stesso anno è la polemica antiromantica, d’impostazione moralistico-nazionalistica, degli Amici pedanti; dell’anno seguente l’insegnamento nel ginnasio di San Miniato e la pubblicazione, colà, del primo volumetto di Rime. Oltre che alla poesia, il C. lavorò assiduamente in questi anni a pubblicare testi per la collezione “Diamante” dell’editore G. Barbera, alcuni con bellissime prefazioni. Nel 1859 sposò la parente Elvira Menicucci, da cui ebbe quattro figli: Bice, Laura, Libertà (Titti) e Dante. Nel 1860 il ministro T. Mamiani lo nominò, con felice intuizione, prof. di letteratura italiana all’univ. di Bologna, cattedra che tenne fino al 1903. A Bologna si configura pienamente la personalità del C.: zelantissimo insegnante, dotto erudito, geniale critico e storico e insieme poeta dei maggiori che l’Italia abbia avuto. La sua fama, dapprima alquanto ristretta e collegata anche al suo fiero anticlericalismo e alla sua impetuosa avversione al governo dei moderati, si andò via via consolidando: a partire dai primi anni dopo il 1870, cioè dalle Primavere elleniche e da un volumetto di Nuove poesie (del 1873), cioè da quando raggiunse la maturità dell’arte, la fama diventò gloria, sempre più piena e incontrastata. Senatore nel 1890, socio corrispondente (1887) e poi nazionale (1897) dei Lincei, ebbe nel 1906 il premio Nobel per la letteratura. Nel pubblicare la raccolta delle sue poesie, egli assegnò loro come termini estremi le date 1850-1900, e le ordinò così: Juvenilia (1850-60); Levia Gravia (1861-71); A Satana; Giambi ed epodi (1867-79); Intermezzo; Rime nuove (1861-87); Odi barbare; Rime e ritmi; Della “Canzone di Legnano” parte I. Appare chiaro anche da questo ordinamento il disegno che il C. autocritico faceva della storia della sua poesia: a un periodo di preparazione, in cui, come scrisse egli stesso, fa lo “scudiero dei classici”, cioè fa la mano al mestiere letterario imitando (Juvenilia), o comincia a dar “colpi di lancia” ma ancora “incerti e consuetudinarî” (Levia Gravia), seguirebbero una prima decisa presa di posizione personale, con A Satana, e quindi il periodo in cui il cavaliere-poeta corre “le avventure a suo rischio e pericolo”, nei Giambi ed epodi, poesie di aspre invettive politico-morali contro la “vigliaccheria” dell’Italia nuova, che avrebbe, secondo il C., rinnegato la tradizione eroica del Risorgimento. Poi l’ira si placa a poco a poco, sino al Canto dell’amore per tutte le creature, che il C. pose appunto a conclusione dei Giambi, sebbene composto più tardi. L’Intermezzo segnerebbe il passaggio dalla poesia giambica ad altra e più vera poesia, testimoniata dalle ultime tre raccolte. La costruzione autocritica è divenuta tradizionale e può essere accettata, solo che s’interpreti come storia ideale e non cronologica: A Satana è del 1863, assai anteriore alla fase giambica; questa, in realtà, si restringe agli anni 1867-72 e ha sostanzialmente la sua fonte psicologica nelle reazioni del C. agli eventi della Questione romana, dalla delusione di Mentana alla non gloriosa occupazione della capitale. D’altra parte, alcune delle Rime nuove, e tra le più belle, sono contemporanee ai più furiosi dei Giambi. Il fatto è che gli anni 1870-72 sono di crisi profonda, dalla quale il C. esce rinnovato. Forse la morte quasi contemporanea (1870) della madre e del figlioletto Dante ammonisce il C. a non sopravvalutare avvenimenti terreni anche grandi, ma di cui la meditazione sulla morte sofferta nel proprio sangue svela la sostanziale meschinità. Probabilmente non causa, ma effetto del mutato stato d’animo del C. è la passione turbinosa per Carolina Cristofori Piva (Lina o Lidia della poesia): cominciata nel 1871, divampata nel 1872, essa continuò veementissima nei due o tre anni successivi, poi declinò sino alla morte di Lina (1881). Il C. aveva eletto il disprezzo per i contemporanei a legge del suo agire e del suo poetare; amava passare per selvaggio e intrattabile, e poi soffriva di tutto ciò. Lina riesce a sciogliere il groppo, a vincere la solitudine; il poeta è tutto preso dalla dolcezza che gli dà la sensazione non solo d’esser amato, ma d’aver conquistato la facoltà d’amare. Le Rime nuove inaugurano la stagione della lirica “greca”: una poesia concreta, quale egli aveva sempre sognato, e in nome della quale aveva combattuto lo sfocato sentimentaleggiare dei romantici, e tuttavia non banale; realista, ma lavorata con la pazienza e la sapienza dei classici e della tradizione rinascimentale italiana, che il Romanticismo sembrava aver interrotto. Ma al di là della sua polemica antiromantica, spesso in verità non bene edotta della reale essenza del Romanticismo, il C. ha alcuni atteggiamenti spirituali schiettamente romantici, e taluno persino decadentistico. Romantica è soprattutto la sua stessa esigenza di concretezza, che trova nella poesia storica la sua conciliazione con l’altra esigenza d’un tono poetico alto e sostenuto, anche per l’impiego della nuova metrica “barbara” da lui stesso elaborata. Si ha così l’epica, insieme solenne e nervosa, che domina Odi barbare (1877-1889) e Rime e ritmi (1898), in quel molto di valido che anche queste raccolte contengono. Le quali poi son anche perfuse di eloquenza, nascente dalla passione, tutta propria del C., di ammonire, educare, elevare: eloquenza intima che è una sola cosa con la poesia. Certo, accanto a essa c’è anche un’eloquenza deteriore, esterna; un indulgere alla rievocazione meramente erudita (la “poesia da professore”), una certa macchinosità scenografica, lontana eredità del Monti. Proprio questi aspetti deteriori del C. finirono col piacere a troppi: donde il distacco, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, dei raffinati, anche per il clima ormai decadentistico. n Della sua operosità di erudito restano, tra le cose più notevoli, le ediz. delle poesie volgari del Poliziano, delle Rime di M. Frescobaldi, delle Cantilene e ballate, strambotti e madrigali dei secc. 13º e 14º, delle Cacce in rima dei secc. 14º e 15º, delle Rime del Petrarca (con commento, in collab. con S. Ferrari, 1899). Come critico, si può dire che non ci sia campo della letteratura italiana che non abbia percorso e talvolta esplorato attentamente: ricordiamo i volumi sul Parini, gli studî sul Leopardi, Ariosto, Tasso, i discorsi su Dante, Petrarca e Boccaccio, e studî e discorsi su minori dei secc. 17º-18º. Anche se difetta di un pensiero organico e coerente, la sua critica è ricca d’intuizioni dell’anima e dei tempi dello scrittore studiato, felicissima nel rappresentare personaggi e ambienti, ricca di notazioni puntuali sulla parola e sulla tecnica letteraria, suggerite al C. dalla sua esperienza e dal suo gusto, le quali approdano alla definizione di valori estetici assai più spesso di quel che il C. stesso non pensasse. Piena di colore (anche al di fuori delle polemiche, ch’ebbe numerose e talvolta intemperanti, come la Rapisardiana) è sempre la prosa del C.: nervosa, tagliente, succosa, mobilissima, sapiente impasto di alta letteratura e di parlata viva.(fonte)
[3] Ada Persico (Scjaloia) madre dell’artista Toti (Antonio) Scjaloia (fonte)