Roma, 19 Marzo 1933
Il Segretario del PNF[1], Achille STARACE[2], durante
la sua visita a Littoria[3] per l’inaugurazione
della Casa dell’Opera Nazionale Dopolavoro, as=
siste alla finale di un torneo di bocce organiz=
zato tra i rurali dell’Agro Pontino.
alla sua sinistra è l’on. Valentino ORSOLINI
CENCELLI[4], presidente dell’Opera Nazionale Combat=
tenti[5] e commissario per il risanamento delle Pa=
ludi Pontine.
FARABOLAFOTO S.r.l.[6]
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a lato ripetuto
Farabola
MILANO
DATA 1933
SOGGETTO Littoria
B/N COLORE Bianco e nero
DIMENSIONI 24×18cm
MATERIA E TECNICA Agfa Lupex gelatina bromuro d’argento / carta
© Archivio Sacchini
Note
[1] (PNF) Partito politico italiano fondato l’8 novembre 1921 al teatro Augusteo di Roma durante il 3° Congresso nazionale dei Fasci italiani di combattimento fondati da Benito Mussolini a Milano il 23 marzo 1919. Inizialmente a carattere rivoluzionario e con vocazione antipartitica, il movimento fascista aveva da tempo cominciato a mutare pelle con l’immissione di elementi che guardavano a esso come a uno strumento utilizzabile in chiave antisocialista e antipopolare. Da fenomeno prevalentemente «urbano» il fascismo era diventato un fenomeno «rurale» e si era rapidamente espanso sull’intero territorio nazionale, caratterizzandosi, attraverso lo «squadrismo», come una forza che raccoglieva ormai anche settori della piccola e media borghesia intellettuale e impiegatizia e che era divenuta funzionale agli interessi sia degli agrari e degli industriali zuccherieri preoccupati di ristabilire l’ordine nelle campagne sia dei nuovi proprietari, già affittuari e mezzadri, che avevano acquistato terre svendute per paura. La trasformazione in un vero e proprio partito, il PNF, comportò la creazione di una struttura organizzativa definita nello Statuto-Regolamento generale approvato dal congresso. Il documento disegnava un modello di partito, per un verso simile a quelli operanti in Parlamento (organi dirigenti ne erano il Consiglio nazionale, il Comitato centrale, la Direzione, la Segreteria generale) e per altro verso con una impronta militare evidente negli articoli che definivano le modalità di costituzione dei fasci (le sezioni locali del PNF) dotati di un proprio «gagliardetto di combattimento» e di «squadre di combattimento» e raggruppati in Federazioni provinciali. In seguito lo statuto del PNF sarebbe stato rivisto più volte, nel 1926, nel 1929, nel 1932, nel 1938. Primo segretario generale del PNF fu eletto M. Bianchi , che rimase in carica per un anno fino al momento in cui entrò a far parte del governo Mussolini costituito dopo la marcia su Roma. Gli successero prima N. Sansanelli (nov. 1922-ott. 1923) e F. Giunta (ott. 1923-apr. 1924) poi un quadrumvirato composto da R. Forges Davanzati, C. Rossi, A. Melchiori, G. Marinelli (apr. 1924-febbr. 1925). Dopo il delitto Matteotti e la svolta autoritaria annunciata con il discorso del 3 genn. 1925, Mussolini decise di mettere ordine nel partito, dove si erano manifestate forze centrifughe e dissidenze, e chiamò a reggerne la segreteria R. Farinacci (febbr. 1925-marzo 1926). Questi, convinto che al partito dovesse spettare un ruolo prioritario nella vita del Paese anche nei confronti delle istituzioni, riportò in esso disciplina e compattezza potenziandone le strutture. L’idea che Farinacci aveva del partito era opposta a quella di Mussolini che riservava allo Stato una funzione di supremazia sul partito. Per questa ragione, una volta riconquistato il controllo del partito grazie al suo potenziamento, Mussolini provvide alla sostituzione di Farinacci con A. Turati (marzo 1926-ott. 1930) e fece approvare un nuovo statuto del partito (ott. 1926) che, tra l’altro, ne limitava l’autonomia e aboliva ogni forma di elezionismo. La segreteria di Turati fu caratterizzata, anche attraverso l’epurazione dei suoi quadri, dalla trasformazione del PNF in un corpo sempre più burocratico e sempre più inquadrato nel regime. Pur cercando di eliminare il dualismo partito-Stato a favore di quest’ultimo, Turati si batté per la valorizzazione del partito concepito come fucina di elementi destinati a costituire il nucleo di una nuova classe dirigente di uno Stato sempre più presente nella vita del Paese. Sotto la sua guida fu ampliata, nel quadro del più generale progetto di fascistizzazione della società italiana, la sfera delle iniziative e delle attribuzioni del partito in molti campi, da quello assistenziale a quello sportivo, da quello scolastico a quello sindacale. A succedere a Turati fu chiamato G. Giuriati (ott. 1930-dic. 1931), il quale proseguì l’opera di epurazione (furono espulsi dal partito circa 120.000 iscritti) e potenziò il ruolo del partito in settori della società (mondo giovanile, universitario, femminile e via dicendo) meno curati dal predecessore. La segreteria successiva, affidata ad A. Starace (dic.1931-ott. 1939), fu la più lunga dell’intera storia del PNF. Starace portò avanti la devitalizzazione politica del partito anche attraverso l’esasperazione di aspetti coreografici e militareschi e attraverso l’accentuazione del culto del duce. Al tempo stesso, nelle sue intenzioni e dello stesso Mussolini col quale egli lavorò all’unisono, il partito, soggetto alla piena subordinazione politica del duce, doveva diventare centro propulsore di larghi settori della vita nazionale: di qui una serie di provvedimenti come la riapertura delle iscrizioni al PNF in occasione del decennale e l’adozione di regolamenti rigidi per le organizzazioni (giovanili, femminili, scolastiche, di lavoratori ecc.) dipendenti dal partito. In questa stessa ottica si inserisce la concessione, nel 1937, del rango di ministro al segretario del PNF. Dopo Starace si susseguirono alla segreteria del partito E. Muti (nov. 1939-ott. 1940), A. Serena (nov. 1940-dic. 1941), A. Vidussoni (dic. 1941-apr. 1943), C. Scorsa (apr. 1943, luglio 1943), senza alcun sostanziale mutamento dalla linea seguita da Starace. Dopo la caduta del fascismo, Badoglio decretò lo scioglimento del PNF il 27 luglio 1943. Il 13 settembre Mussolini costituì un nuovo Partito fascista repubblicano, che cessò la sua esistenza il 28 aprile 1945.(fonte)
[2] Achille Starace. Nacque a Sannicola (allora frazione di Gallipoli), in provincia di Lecce, il 18 agosto 1889, da Luigi, affermato commerciante di oli e di vini, e dalla nobildonna Francesca Vetromile dei baroni di Palmireto, una facoltosa famiglia del Salento. Achille aveva due fratelli più grandi, e quattro sorelle di lui più giovani.
Trasferitosi a Venezia nel 1905, s’iscrisse a una scuola tecnica, conseguendo il diploma di ragioniere. Nel 1909 si sposò con la triestina Ines Massari, da cui avrebbe avuto due figli, Francesca, detta Fanny, e Luigi (un terzo figlio, Vincenzo, morì alla nascita). Nello stesso 1909 fu richiamato alle armi come ufficiale nel corpo dei bersaglieri, e, terminato il periodo di leva, firmò per trattenersi in servizio.
Nell’agosto del 1914 si fece notare a Milano, in Galleria, per l’aggressione ai danni di un gruppo di manifestanti pacifisti. Partecipò alla prima guerra mondiale comportandosi valorosamente e guadagnandosi una medaglia d’argento, quattro di bronzo, due croci di guerra e la promozione a capitano.
Nel dopoguerra aderì tra i primi al movimento dei fasci, e nel 1920 fu inviato da Benito Mussolini a fare il segretario del fascio a Trento, dove si distinse per la ferocia con cui condusse alcune azioni squadristiche. Nel congresso di fondazione del Partito nazionale fascista (PNF) del novembre 1921, fu nominato vicesegretario (insieme a Giuseppe Bastianini e Attilio Teruzzi).
Nell’ottobre del 1922 partecipò alla marcia su Roma al comando delle squadre della Venezia Tridentina, di Verona, Vicenza e Padova. In quanto vicesegretario, entrò a far parte di diritto del Gran consiglio del fascismo, il massimo organo direttivo del partito. Nel 1923 venne incaricato di seguire la pubblicazione del nuovo settimanale dei giovani fascisti, Il giornale dei Balilla. Lasciò la carica di vicesegretario nell’ottobre 1923, quando venne inviato a Trieste a ricoprire il ruolo di comandante della sede locale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN). Venne eletto deputato nelle elezioni politiche dell’aprile 1924. Dal 1926 fu di nuovo vicesegretario del partito.
Nel 1931 venne scelto per succedere a Giovanni Battista Giuriati nella carica di segretario del partito, che avrebbe ricoperto ininterrottamente fino all’ottobre del 1939, quando sarebbe stato sostituito da Ettore Muti.
Dopo la ‘cura dimagrante’ nel numero degli iscritti portata a termine dai due precedenti segretari, Augusto Turati e Giuriati, e nella prospettiva delle imminenti celebrazioni del decennale del regime (1932), Starace riaprì le iscrizioni, e l’afflusso dei giovani – quelli che, come disse Mussolini, non avevano fatto né la guerra del 1915-18 né la ‘rivoluzione’ fascista – fu imponente: il partito passò in un anno da 1 milione circa di iscritti a 1 milione e 415.000.
Il nuovo statuto del PNF, fatto approvare da Starace, formalizzava la più stretta dipendenza del partito da Mussolini e lo svuotamento dell’autorità del Gran consiglio. Limitando i propri compiti essenzialmente agli aspetti organizzativi e propagandistici, Starace annesse al partito alcune organizzazioni che fino ad allora erano riuscite a garantirsi un minimo di autonomia, tra cui l’Opera nazionale dopolavoro (OND). Dette inoltre un forte impulso all’Opera nazionale Balilla (ONB) e a tutto il movimento giovanile fascista, un impulso che raggiunse il suo culmine nella costituzione, nel 1937, di un’unica organizzazione, la Gioventù italiana del Littorio (GIL), che raccoglieva l’eredità sia dell’ONB sia dei Fasci giovanili e delle Giovani fasciste, inquadrando di fatto nelle proprie file tutti i giovani di ambo i sessi dai sei ai ventun anni. Anche i giovani universitari furono oggetto del ‘furore organizzativo’ di Starace, che avviò, con la costituzione dei Littoriali dello sport, la valorizzazione delle attività sportive e agonistiche, alle quali attribuiva importanza fondamentale per legare i giovani universitari al regime. Anche le iniziative culturali dei Gruppi universitari fascisti (GUF) ebbero un notevole impulso. Si cercò nel contempo di rafforzarne i processi di penetrazione a carattere politico-ideologico attraverso una presenza ossessiva del partito sulla stampa universitaria, nel teatro sperimentale, nei Cine-GUF e nei Littoriali della cultura, e con l’affidamento ai giovani universitari di corsi di preparazione politica da condurre presso le federazioni.
Ma dove Starace lavorò con più costanza fu nell’introduzione nella vita del regime di usi e rituali, imposti tramite i cosiddetti Fogli di disposizioni, che avrebbero dovuto forgiare lo ‘stile fascista’, preludio alla formazione dell’uomo nuovo del regime. A questa stagione appartennero l’introduzione del saluto romano, l’uso del voi al posto del lei e di Duce al posto di Capo, il ricorso massiccio all’esibizione pubblica di divise e medaglie, l’iscrizione sui muri delle città delle frasi celebri di Mussolini, il divieto tassativo di termini e nomi di origine straniera, i giochi ginnici, i raduni oceanici, l’istituzione del ‘sabato fascista’, con le prestazioni di ciascuno dei partecipanti annotate su un «libretto personale di valutazione dello stato fisico e della preparazione del cittadino» (Nolte 1963; trad. it. 1971, p. 380). Starace dette vita, insomma, a quella che un altro dirigente del partito, Giuseppe Bottai (1982, 1989), chiamò una «dittatura formalistica e cancelleresca» (p. 489).
Nei grandi eventi Starace cercò sempre di garantire a Mussolini il concorso delle folle, che egli radunava attivando in modo capillare le strutture periferiche e territoriali del partito.
Starace si mostrò un fedele esecutore delle direttive di Mussolini anche quando si trattava di liberare il capo del fascismo da dirigenti locali del PNF divenuti politicamente ‘ingombranti’.
Nella veste di vicesegretario, già tra la fine del 1928 e i primi mesi del 1929, incaricato da Mussolini di risolvere la spinosa questione della liquidazione politica di Mario Giampaoli, segretario della federazione di Milano, si era distinto per determinazione e assenza di scrupoli nel liberarsi di quest’ultimo – ormai inviso a Mussolini perché fautore di un fascismo ‘di sinistra’ – e nell’avviare un’ampia epurazione tra le file dei suoi seguaci.
Nella veste di segretario si trovò subito, tra la fine del 1931 e gli inizi del 1932, ad affrontare il caso di Carlo Scorza, segretario della federazione di Lucca, che, su richiesta di Mussolini, fu allontanato dal Direttorio nazionale del PNF, inseguito da accuse infamanti, fatte circolare ad arte da Starace, che riguardavano anche voci su uno sfrenato affarismo di Scorza e di alcuni membri della sua famiglia. In realtà Scorza dava fastidio a Mussolini poiché si era esposto troppo nella polemica con il Vaticano sulla questione dell’Azione cattolica, sviluppatasi nel corso della primavera-estate del 1931. Una volta raggiunto l’accordo con la S. Sede (2 settembre 1931), Mussolini aveva deciso di sacrificare sull’altare della ritrovata sintonia l’uomo più inviso alle gerarchie d’oltretevere. Starace fu in quell’occasione l’esecutore della sentenza.
Stesso ruolo giocò qualche anno dopo nella liquidazione di Leandro Arpinati, segretario della federazione di Bologna, che non solo venne cacciato dal partito ma addirittura subì il confino. Arpinati aveva sempre manifestato insofferenza per l’ala intransigente del fascismo e verso i tentativi di Starace di militarizzare il partito e il Paese. Nella primavera del 1933 espresse, per di più, critiche verso la politica economica del regime, incentrata sul progetto corporativo. Il vago liberismo di Arpinati in materia economica, espresso anche in pubblico, dette fastidio a Mussolini, che trovò di nuovo in Starace il fido esecutore delle sue direttive. Arpinati, defenestrato, venne in seguito, come detto, spedito al confino, e, come aveva fatto con Giampaoli e i suoi seguaci, Starace iniziò una vasta epurazione nel partito bolognese, con la cacciata di tutti i fedeli di Arpinati.
In occasione della guerra d’Etiopia (ottobre 1934-maggio 1935) volle dare l’esempio dello spirito guerriero che avrebbe dovuto animare l’uomo fascista: partecipò così all’ultima fase del conflitto, nel corso della quale si fece notare per la sua crudeltà verso i prigionieri etiopi. Partito dalla capitale dell’Eritrea, Asmara, a metà di marzo del 1935, alla testa di una colonna celere di bersaglieri, entrò a Gondar il 1° aprile, raggiungendo successivamente il lago Tana. Si trattò di una marcia senza battaglie, con un nemico ormai sconfitto e in fuga. Starace pubblicò sulla sua ‘impresa’ africana un libro di memorie, La marcia su Gondar (1936), infarcito di una retorica fastidiosa per i toni epici con cui egli esaltava l’evento, nel patetico tentativo di celare l’assenza di una sia pur minima scaramuccia con il nemico. Ma le stesse relazioni della polizia segreta (l’Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo, OVRA) descrivono l’avanzata della sua colonna nell’Etiopia occidentale come «una marcia automobilistica priva di reali incognite» (cit. in Festorazzi, 2002, p. 149).
La segreteria staraciana del partito è stata oggetto di analisi storiografiche controverse, ma riteniamo che sia stato Renzo De Felice (1974, 1996) a metterne meglio a fuoco i caratteri (pp. 216-220). Dopo avere definito Starace un «uomo di scarsa intelligenza, animato da una mentalità grettamente militaresca e niente affatto politica», lo storico restringeva a tre i riflessi negativi che lo staracismo ebbe sulla vita del partito fascista e più in generale sul regime: la «depoliticizzazione e la burocratizzazione del PNF e la sua trasformazione in una super organizzazione di massa in funzione del consenso»; il progressivo venir meno del partito «come effettivo strumento politico», con la conseguente trasformazione del gruppo dirigente fascista «in tanti notabili senza reale potere proprio»; infine, la mancata formazione di una nuova classe dirigente fascista, che lo storico indicava come l’unico modo «per cercare di scongiurare i pericoli insiti nella nuova realtà del regime e per poter pensare ad una sopravvivenza del fascismo o, meglio, ad una nuova ‘civiltà fascista’ dopo Mussolini». De Felice considerava quindi una prova della poca intelligenza politica di Starace la soddisfazione che questi non nascondeva di fronte agli apparenti successi della sua azione nell’inquadramento delle masse, organizzate «con criteri essenzialmente burocratici», e nella loro partecipazione alla vita del regime «solo su basi emotive e coreografiche (in parte coattive)». Concludeva come la segreteria di Starace avesse finito per incidere alla lunga «su tutto il tessuto morale del regime ed ebbe su di esso una influenza indubbiamente negativa».
Tuttavia, considerata la totale dipendenza di Starace dalle direttive che Mussolini di volta in volta gli imponeva, e l’assenza, per tutti gli anni della sua lunga segreteria, di un vero contrasto tra i due sul modo di concepire la funzione del partito, si può concludere che la funzione subalterna a cui venne ridotto il PNF dallo staracismo non fu altro che il risultato della volontà di Mussolini. Si chiedeva ironicamente Bottai, dopo la defenestrazione di Starace, se la sua lunga segreteria, con i suoi problemi di ‘stile’, non fosse altro che «il paradigma ideale del metodo educativo di Mussolini» (Bottai, 1982, 1989, p. 357).
Negli anni 1938-39 Starace fu protagonista di momenti significativi della vita del regime, dalla partecipazione ai lavori preparatori per l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, al deciso sostegno della politica razziale e antisemita, in cui si mostrò fautore della linea ‘dura’ da adottarsi nei confronti della comunità ebraica italiana. Si schierò inoltre per l’alleanza con la Germania e per l’ingresso dell’Italia in guerra, fino a giungere, nel settembre del 1939, quasi alle mani, nell’anticamera dell’ufficio di Mussolini, con il capo della polizia, Arturo Bocchini, che poco prima aveva illustrato al capo del fascismo l’impreparazione militare e psicologica del Paese. Come avrebbe in seguito raccontato nelle sue memorie l’allora capo dell’OVRA Guido Leto (1951), mancò poco che la discussione degenerasse «in una colluttazione», e Bocchini tornò al suo posto di lavoro «rosso come un gambero ed ancora, visibilmente, assai agitato» (p. 205). Si trattava del culmine di un conflitto tra i due che era latente da anni, e il cui motivo era da ricercarsi nella forte resistenza che Bocchini aveva sempre opposto ai continui tentativi da parte di Starace di assoggettare lo strumento poliziesco alle direttive del partito.
Forse quest’ultimo episodio – insieme all’ostilità che il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano da tempo riservava al suo filogermanesimo e filointerventismo – può essere stato all’origine della caduta in disgrazia di Starace, il quale tuttavia si era già ampiamente screditato agli occhi di molti potenti gerarchi per la sua assoluta ottusità politica e per l’irritante e stolido zelo con cui eseguiva le direttive mussoliniane. Il generale Emilio De Bono, uno dei massimi esponenti del regime, giunse – secondo quanto scrisse Ciano nel suo diario (1963, 1980) – a definirlo un «sinistro buffone» (p. 345), e Ciano stesso scrisse il 23 settembre che «tutto il risentimento nazionale è diretto contro la persona di Starace» (p. 351). Il 4 ottobre Mussolini confidò a Ciano la sua volontà di liberarsi di Starace, «odiato e spregiato dagli italiani» (p. 356). E il 29 di quel mese, infine, Starace venne informato da Mussolini del proprio siluramento.
Essendo ormai Starace screditato alla corte sabauda nonché coperto di ridicolo e oggetto di barzellette e lazzi in ogni ambiente (da quelli più popolari sino a quelli alti del potere politico), Mussolini se ne liberò perché temeva che il diffuso discredito di cui ormai godeva il suo servitore potesse estendersi fino a lui. Bottai (1982, 1989) testimonia che a gioire in modo particolare della liquidazione di Starace fu Ciano, il quale si abbandonò davanti a lui a «una gioia smodata, senza neppure l’ombra d’una responsabilità, che si rinnova e s’accentua» (p. 167).
Starace venne nominato capo di Stato maggiore della Milizia. Ricoprì questo incarico per circa un anno e mezzo; nel maggio del 1941, richiamato in patria dopo un soggiorno di alcuni mesi sul fronte albanese, fu bruscamente licenziato e sostituito da Enzo Emilio Galbiati.
Nella ‘notte del Gran consiglio’ (quella del 25 luglio 1943, che portò a un voto di sfiducia nei confronti di Mussolini), Dino Grandi, allora presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, condusse un attacco feroce al partito così com’era stato forgiato da Starace, e accusando di fatto Mussolini di essere stato l’ispiratore dello ‘staracismo’, si rivolse a lui con enfasi, scandendo che «il nostro Capo non è quello di Achille Starace» (Bottai, 1982, 1989, p. 414).
Il 28 luglio (tre giorni dopo la caduta di Mussolini) Starace fu arrestato e tradotto al carcere di Regina Coeli. Ma venne rilasciato, arrestato di nuovo e di nuovo rilasciato nel giro di pochi giorni. Trasferitosi al Nord dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si rifugiò a Vimercate presso alcuni amici. In novembre venne arrestato, su ordine di Mussolini, dalle autorità della Repubblica sociale italiana, che lo accusavano di contatti epistolari con il governo Badoglio. Venne recluso nel carcere di Verona fino all’aprile 1944; liberato, fu di nuovo fermato due mesi dopo e internato nel campo di Lumezzane, da dove uscì in settembre. Durante i giorni dell’insurrezione (aprile 1945) fu riconosciuto a Milano da alcuni partigiani: arrestato il 27, fu processato sommariamente e condannato a morte; venne fucilato il 29 in piazzale Loreto di fronte al cadavere di Mussolini.(fonte)
[3] Littoria. Negli iniziali progetti di bonifica il fascismo aveva previsto per l’Agro Pontino uno sviluppo esclusivamente rurale, senza la nascita di nuovi centri urbani di notevoli dimensioni. Presto però il commissario governativo per la bonifica, Valentino Orsolini Cencelli, si rese conto che i preesistenti comuni di Cisterna e Terracina erano insufficienti a coprire le esigenze dei pionieri. Il progetto di un nuovo centro amministrativo puntò quindi sulla località del “Cancello del Quadrato”, dove sorgevano già piccoli insediamenti. La prima pietra della nuova città, il cui progetto era curato secondo i canoni dell’architettura razionalista da Oriolo Frezzotti, venne posta il 30 giugno del 1932, nel totale silenzio dei giornali italiani come aveva disposto lo stesso Mussolini, fortemente contrario al progetto.
La stampa estera, al contrario, esaltò la costruzione di Littoria dedicando ad essa ampi articoli. Mussolini cambiò idea e il 18 dicembre dello stesso anno partecipò alla solenne cerimonia d’inaugurazione. La nascita della nuova città fece il giro del mondo.
Il territorio comunale fu creato ricavandolo in larga parte da quello dell’attuale Cisterna di Latina (all’epoca “Cisterna di Roma” e dal 1935 “Cisterna di Littoria”), ma anche dai comuni di Nettuno e Sezze. Littoria fu eretta a capoluogo della neonata provincia nel 1934.
La propaganda fascista sfruttò l’opera della bonifica e la inserì all’interno della “battaglia del grano” per combattere la crisi economica successiva all’autarchia. Mussolini si recava spesso nelle ex paludi e sono note le immagini propagandistiche di Mussolini che si mostra intento a lavorare il grano a torso nudo, insieme ai coloni. Con la Battaglia del Grano si iniziava l’attuazione di un vasto piano di bonifica integrale. Questa azione del governo veniva sul piano culturale sostenuta ed incoraggiata in modo particolare dagli scrittori di “strapaese” raccolti attorno alla rivista di Nino Maccari “Il Selvaggio” (Malaparte, Longanesi, Soffici, Berto Ricci, Ottone Rosai ed altri). Alla città massificata e consumistica in cui l’uomo si isola dalla natura abbruttendosi e che negli anni trenta trova le manifestazioni più aberranti in certe città americane ove gangsterismo e alcolismo sono le espressioni più tipiche, si contrapponeva il Comune Rurale. Non solo in Italia ma anche all’estero. Si ipotizzavano nuovi tipi di agglomerati urbani. Wright, ad esempio, ipotizzava cittadine di modeste entità demografica con case a dimensioni autenticamente umane circondate almeno da acro di terreno. Spengler affermava “che le antichissime radici dell’essere si disseccano tra le masse di pietra delle città”. La “Cosmopoli” disgrega la società e l’urbanesimo ne è la manifestazione più evidente con tutte le implicazioni e complicazioni. Civiltà rurali quindi da contrapporre alla cosmopoli. Da questo contesto, dicevamo, scaturisce il mito di Littoria, simbolo della civiltà rurale.
Il comune di Littoria fu popolato con l’immigrazione massiccia di coloni soprattutto veneti, friulani, emiliani e romagnoli, oggi denominati nell’insieme comunità veneto-pontine, ai quali furono consegnati i poderi edificati dall’Opera Nazionale Combattenti, similmente a quanto operato nei limitrofi comuni della pianura.(fonte)
[4] Valentino Orsolini Cencelli. – Nacque a Magliano Sabina il 7 febbraio 1898, da Alberto dei conti Cencelli Perti e da Vittoria Orsolini Marescotti, entrambi appartenenti a famiglie di grandi proprietari terrieri e di uomini politici. Era l’ultimo di quattro figli (dopo Vladimiro, Ferdinando e Maria). Per non far estinguere il nome della casata materna, con regio decreto del 17 maggio 1906, Valentino fu «autorizzato ad aggiungere ed anteporre al proprio cognome quello di Orsolini e ad usare per l’avvenire in tutti gli atti ed in ogni circostanza il cognome Orsolini Cencelli» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei ministri, Consulta araldica).
Il nonno paterno, Giuseppe, era stato aiutante di campo di Massimo d’Azeglio e senatore del Regno dal 1879 al 1899, carica, quest’ultima, ricoperta anche dal padre dal 1909.
Studiò giurisprudenza, come il nonno e il padre e nel 1921 si laureò all’Università di Roma con una tesi sulla legge elettorale proporzionale. L’anno dopo sposò Giovanna dei conti di Arroni, dalla quale ebbe quattro figli: Eliana (1923-1991), Alberto (1926-1997), Maria Giacinta (1929-1940) e Stefano (1934). Nonostante la laurea, scelse di dedicarsi alla cura delle aziende agrarie di famiglia, a Fabrica di Roma e a Magliano, e in particolare al miglioramento delle razze bovine.
Aderì al movimento dei Fasci di combattimento fondato da Benito Mussolini a Milano nel 1919 e, benché nel 1914 avesse perso una gamba in un incidente, si distinse in Sabina e in Umbria, organizzando e guidando le azioni squadristiche contro le rivendicazioni contadine e operaie. Alle elezioni amministrative del 17 ottobre 1921 fu eletto consigliere provinciale dell’Umbria per il circondario di Rieti nel mandamento di Magliano, nelle liste del Partito nazionale fascista. Primo consigliere provinciale fascista d’Italia, nel 1922 partecipò alla marcia su Roma al comando della centuria degli squadristi della Sabina, avanguardia della colonna umbro-marchigiana comandata da Ulisse Igliori (D’Erme, I, 1996, pp. 83 s.). Alle elezioni del 1924 fu eletto deputato al Parlamento (XXVII legislatura) per la circoscrizione Lazio-Umbria e confermato nel 1929 e nel 1934. Nel 1939 fu nominato consigliere nazionale nella Camera dei fasci e delle corporazioni, partecipando attivamente alla vita politica e amministrativa.
Fu commissario governativo dell’Associazione nazionale famiglie dei caduti in guerra (1926-34), presidente dell’Ospedale oftalmico per i poveri della provincia di Roma (1927-29), presidente della Federazione degli enti autarchici della provincia di Rieti (1927-29), membro del consiglio di amministrazione dell’Istituto Luce (1930-35), commissario straordinario della Cassa di risparmio di Rieti (1936-40), membro del Consiglio nazionale dell’educazione, delle scienze e delle arti, presso il ministero dell’Educazione nazionale (1939-43). Ricoprì altre cariche, a carattere consultivo o direttivo, nel settore agrario: presidente della sezione agricolo-forestale del Consiglio provinciale dell’economia di Rieti (1927-43), promotore e primo presidente del Consorzio d’irrigazione della media valle del Tevere (1928-44), presidente della Cattedra ambulante di agricoltura di Rieti (1929-37), membro della Commissione per lo studio della carta della mezzadria italiana, costituita presso la Confederazione nazionale sindacati fascisti dell’agricoltura (1931).
Ebbe l’incarico più importante nel settore della bonifica con la nomina, il 15 settembre 1929, a commissario del governo all’Opera nazionale per i combattenti (ONC), ente sino ad allora guidato da Angelo Manaresi; lo mantenne fino al marzo 1935, quando – ripristinata la carica di presidente – questa fu affidata ad Araldo di Crollalanza, già ministro dei Lavori pubblici.
Ente pubblico a regime interno privatistico come l’Istituto nazionale delle assicurazioni dal quale era finanziato, l’ONC era stata costituita nel 1917 da Francesco Saverio Nitti, ministro del Tesoro, e dal suo collaboratore Alberto Beneduce. All’ente – uno strumento di intervento statale nell’economia, «un modo non semplicemente passivo per lo Stato di venire incontro ai contadini che dopo la guerra sarebbero tornati ai loro paesi in cerca di lavoro e di terra» (Monticone, 1961, p. 154) – era stato affidato il compito di provvedere all’assistenza economica, finanziaria, tecnica e morale dei combattenti reduci. Con l’avvento del fascismo subì profonde modifiche istituzionali: la riforma del 1923 attuò il ricambio dei vertici, modificò i regolamenti per l’ordinamento e le funzioni e pose l’ONC sotto il controllo totale del governo; poi, con la riforma del 1926, fu sciolto il consiglio di amministrazione (mai più ricostituito, neanche nell’Italia repubblicana) e sostituito da un consiglio consultivo; il presidente, designato dal capo del governo, acquisì tutti i poteri amministrativi e di rappresentanza; infine, con l’approvazione dei nuovi regolamenti fu trasformata in maniera radicale la finalità istituzionale.
Incaricata dell’attuazione della politica agraria fascista per la trasformazione fondiaria, l’ONC divenne protagonista dello sviluppo economico e sociale del paese. Grazie alle potenzialità tecnico-professionali e alla dotazione finanziaria poté realizzare il suo maggior compito istituzionale con il piano nazionale di bonifica integrale delle paludi pontine e ridisegnare la fisionomia di quel territorio. La politica agraria fascista, impersonata da Arrigo Serpieri, teorico della bonifica integrale, si richiamava al progetto tecnocratico di ispirazione nittiana che univa il carattere innovativo dei provvedimenti legislativi (legge sul latifondo del 1924 e leggi 1928-33 sulla bonifica integrale), all’immissione di capitali pubblici in agricoltura e alla direzione ‘tecnica’ della bonifica. Solo per l’area pontina furono approntati circa 200 progetti di bonifica su un territorio di circa 60.000 ettari, realizzando oltre 3000 poderi assegnati ad altrettante famiglie coloniche. Per stabilizzare i coloni nelle terre ‘redente’ e assicurare vita duratura e prosperità alle aree bonificate, furono realizzati non solo canali, strade, approvvigionamento di acqua potabile, fabbricati, ma anche 14 borgate rurali e cinque centri urbani (quattro comuni e un capoluogo di provincia).
Durante la gestione di Orsolini Cencelli l’ONC lavorò per «trasformare il bracciante da lavoratore avventizio a diretto coltivatore dei beni in concessione» (Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio ordinario, f. 509.742), e sorsero le prime tre ‘città nuove’ dell’Agro Pontino, simboli dell’ideologia antiurbana del fascismo, non in contrapposizione alla campagna ma aperte a essa.
Littoria (dal 1945 Latina) fu annunciata dal duce il 7 aprile 1932 all’inizio dei lavori di dissodamento e inaugurata il 18 dicembre dello stesso anno; costituita in comune il 27 dicembre fu elevata a provincia due anni dopo, il 18 dicembre 1934. Orsolini Cencelli ne fu il primo podestà dal 7 novembre 1932 al 26 novembre 1933. La fondazione di Sabaudia fu annunciata durante il discorso per l’inaugurazione di Littoria: il 5 agosto 1933 ci fu la posa della prima pietra e il 15 aprile 1934 l’inaugurazione di Vittorio Emanuele III. Il 19 dicembre del 1934 fu fondata Pontinia: all’inaugurazione, avvenuta a distanza di un anno esatto, non partecipò Orsolini Cencelli, già uscito dai ruoli dell’ente, analogamente a Serpieri, destituito dal suo incarico di sottosegretario di Stato per l’applicazione delle leggi sulla bonifica integrale.
Escluso dalle cariche esecutive, ancorché sempre deputato (lo rimase fino all’agosto 1943) tornò a dedicarsi a tempo pieno all’azienda di famiglia. Con la caduta del fascismo e la costituzione della Repubblica sociale, fu arrestato con l’accusa di aver appoggiato il governo Badoglio (Roma, Archivio centrale dello Stato, Archivio Valentino Orsolini Cencelli, scatola 21, f. 166), e di aver organizzato una ‘guardia’ in Sabina al di fuori del Partito fascista repubblicano e subì due brevi periodi di detenzione nelle carceri romane di Regina Coeli (29 ottobre-2 novembre 1943) e di S. Gregorio al Celio (23 novembre – 4 dicembre 1943).
Per sfuggire ai repubblichini visse nella casa madre dei gesuiti fino alla liberazione di Roma, quando fu arrestato dalla polizia militare alleata l’8 luglio 1944 e ricondotto a Regina Coeli da dove il 12 luglio fu trasferito nel campo d’internamento alleato di Padula. Il 13 agosto 1944 la procura del Regno presso il Tribunale di Rieti iniziò in contumacia il procedimento penale nei suoi confronti per gli atti di violenza commessi negli anni 1921-22 e per aver costituito, dopo l’8 settembre, un corpo armato alle dipendenze dei tedeschi. Il 14 settembre 1944 il Tribunale provinciale straordinario di Genova della Repubblica sociale lo condannò a morte in contumacia.
Dopo un anno d’internamento a Padula, il 23 luglio 1945 fu condotto nel carcere giudiziario di Rieti dove rimase fino all’amnistia del 22 giugno 1946. Il procedimento presso il tribunale di Rieti fu riunito al processo pendente presso la sezione istruttoria di Roma il 20 marzo 1946. Il 12 novembre 1946 la Corte d’appello di Roma – nel procedimento penale per l’imputazione dei delitti di squadrismo e di collaborazionismo con i tedeschi invasori dopo l’8 settembre 1943 – lo dichiarò prosciolto dalle imputazioni; ugualmente prosciolto fu il fratello Ferdinando. Nel 1949 fu chiusa anche la pratica relativa all’avocazione dei profitti di regime.
Nel dopoguerra ricoprì solo alcuni incarichi nell’ambito delle competenze maturate nel settore agricolo: vicepresidente dell’Associazione produttori tabacchi italiani, vicepresidente di Confagricoltura, presidente dell’Ente nazionale addestramento e perfezionamento del personale agricolo e consigliere del Consorzio della media valle del Tevere. Alle elezioni politiche del 1963 si candidò al Senato nelle file del Movimento sociale italiano ma non fu eletto.
Morì a Roma il 22 maggio 1971.(fonte)
[5] Opera Nazionale Combattenti (ONC) Ente morale e assistenziale, attivo in Italia dal 1917 al 1977. Dopo che la Prima guerra mondiale e la sconfitta di Caporetto avevano evidenziato lo scarto drammatico tra le condizioni delle truppe e quelle delle classi dirigenti italiane, queste ultime, sotto la spinta di F.S. Nitti e A. Beneduce, decisero di istituire, nel dic. 1917, l’ONC, volta a provvedere all’assistenza dei reduci. Nel 1919 l’ONC fu suddivisa in tre sezioni: mentre quella sociale proseguiva l’attività assistenziale e quella finanziaria garantiva l’accesso al credito degli ex combattenti, la sezione agraria assumeva l’importante funzione di coordinare un’attività di esproprio di terre e di loro colonizzazione da parte degli ex combattenti. Tuttavia i contrasti in seno al Collegio arbitrale tra l’Associazione nazionale combattenti (ANC) e la Lega proletaria tra mutilati, invalidi, feriti e reduci di guerra, ostacolarono seriamente l’operazione. Durante il fascismo, il regime si servì dell’ONC sia in occasione della cd. battaglia del grano (1926) sia nella bonifica dell’Agro pontino avviata nel 1928. Nel secondo dopoguerra, l’ONC beneficiò della gestione di due vasti comprensori agricoli grazie alla riforma agraria del 1950.(fonte)
[6] Tullio Farabola. Figlio di Alessandro, detto Giuseppe, e di Ambrogina Zanardi, nacque a Milano il 12 ott. 1920.
Il padre Alessandro era nato il 12 dic. 1885 a Milano, dove frequentò contemporaneamente i corsi serali dell’accademia di belle arti di Brera e la scuola d’arte applicata del Castello Sforzesco e dove si diplomò come “ritoccatore specializzato”; questa pratica gli risultò utile nel suo lavoro di fotografo, che a quel tempo prevedeva, specialmente nel ritratto, ampi interventi di ritocco manuale, sia nelle lastre sia nei positivi. Nel 1896 iniziò l’attività di fotografo, sempre a Milano, ed aprì nel 1911 uno studio in corso Ticinese 87, con un socio di nome A. Bressani, ma dopo alcuni mesi la società si sciolse ed egli rimase l’unico titolare dello studio. Per molti anni fu il fotografo ufficiale della curia arcivescovile di Milano; si dedicò anche particolarmente alla fotografia di personaggi dello sport, oltre che alle cerimonie, alle foto di gruppo e alle foto-tessera. Si sposò il 22 apr. 1909 con Ambrogina Zanardi; dal matrimonio nacquero Ada nel 1910 e Tullio. Smise l’attività di fotografo nel 1954 e morì a Rapallo (Genova) il 13 apr. 1967, mentre il figlio portava l’agenzia a sempre maggiori successi.
Il F. frequentò, dal 1934, l’istituto “Carlo Cattaneo” di Milano, dove si diplomò in ragioneria nel 1939, iniziando nello stesso anno a collaborare con il padre nello studio fotografico di corso Ticinese a Milano. Fu chiamato alle armi nel 1940 e frequentò a Salerno il corso allievi ufficiali di complemento dell’esercito. Svolse il servizio militare a Tirano nel corpo delle guardie di frontiera, ma venne poi trasferito, come operatore cinematografico, all’Istituto nazionale Luce (L’Unione cinem. educativa), a Roma.
Nel 1943 lo “Studio di Giuseppe e Tullio Farabola” fu distrutto dai bombardamenti, insieme con i negativi e gran parte dell’attrezzatura fotografica. Tra il 1943 e il 1945 il F. collaborò, come fotografo, con le organizzazioni partigiane dell’Alta Italia, ma di questo lavoro non è rimasta traccia. L’attività dello studio riprese solo nel 1945, sempre nella stessa via, ma al n. 60, dove tuttora continua, con una nuova gestione societaria, la ditta “Farabolafoto”, che conserva – oltre alle fotografie scattate dal F. e dai suoi dipendenti, soprattutto dopo il 1945 – anche alcuni fondi fotografici della fine dell’Ottocento e degli inizi del nostro secolo, acquisiti nel dopoguerra.
“Io credo di aver creato uno degli archivi fra i più ricchi e meglio organizzati in Italia” ha scritto il F. nell’introduzione del suo volume F. Un archivio italiano (Milano 1980, p. 9); e precisava di aver completato il materiale prodotto dall’agenzia con l’acquisizione degli archivi di A. Porry Pastorel (in realtà solo parzialmente), della Società di navigazione (si tratta dell’archivio di Mario Agosto, che ne era il fotografo ufficiale), del ritrattista A. Badodi, degli Alinari e di “numerose raccolte provenienti da fonti disparate e da appassionati ricercatori di materiale e di immagini che oggi sono da considerare storiche” (ibid.).
Il 31 ag. 1945 il F. si sposò con Paola Siboni, da cui ebbe un figlio, Marco. Nel dopoguerra si trovò a operare nella fotografia di cronaca, soprattutto a Milano, in anni in cui il fotogiornalismo acquistava sempre più credito e importanza. Esplorando i soggetti più significativi della realtà che lo circondava, gli stessi del coevo cinema neorealista, il F. espresse al meglio la sua capacità di analisi delle vicende cruciali della società.
La sua fotografia perseguì e sublimò gli stilemi del fotocronachismo, caratterizzato dall’uso di strumenti di piccolo e medio formato (Leica e Rolleiflex) e soprattutto dal flash, che liberava da impacci tecnici in ogni situazione di luce, assegnando nel contempo all’immagine una forte drammaticità dovuta al forzato chiaroscuro, che ben s’adattava, inoltre, alle tecniche di riproduzione dei giornali, ancora imprecise e deboli.
Anche il F. aveva considerato, nel primi anni d’attività, come modello di fotogiornalista A. Porry Pastorel (pioniere e fondamentale protagonista nel campo della fotografia giornalistica), conosciuto a Roma nel 1942, mentre si trovava come ufficiale al servizio dell’Istituto Luce, e nelle ore libere frequentava l’agenzia “Vedo”. Fu allora, probabilmente, che nacque in lui l’idea di creare, a fianco del lavoro quotidiano di reporter, un archivio di immagini il più ampio ed esaustivo possibile nei temi, aggiornato continuamente, come esige il fotogiornalismo.
In quegli anni era ascesa l’agenzia “Publifoto”, creata nel 1928 a Milano da V. Carrese, con la collaborazione di F. Toscani; il F. ne seguì l’esempio, con una vivace intraprendenza che lo portò ad essere presente in ogni occasione importante, come “testimone” visivo acuto e sensibile, e con una specifica caratteristica, che lo distingue tra i colleghi di quel tempo: l’ironia del suo sguardo, che tendeva a mettere in evidenza le contraddizioni sociali, le situazioni anomale incontrate nell’itinerario quotidiano che lo conduceva a “caccia di immagini”.
Il F. fu assai influente nel settore dell’informazione, a partire dal dopoguerra; pure la storia della città di Milano degli ultimi cinquant’anni è stata ampiamente testimoniata dalle sue illustrazioni fotografiche.
Alle opere del F. furono destinati ampi spazi e varie rassegne di fotografia nel dopoguerra; nel 1989 nella mostra “SICOF 1989” (Salone internazionale cine ottica fotografia), nella sezione culturale curata da L. Colombo nei padiglioni della Fiera di Milano, gli fu dedicata una importante mostra retrospettiva.
Il F. morì a Milano l’11 dic. 1983(fonte) Gli archivi (link)