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Emilio Arlotti, 1903

    Emilio Arlotti, 1903
    Emilio Arlotti, 1903 a
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    CAMERA DEI DEPUTATI
    GIUNTA GENERALE DEL BILANCIO

    Napoli 27 Gennaio 1903

    Carissimo Giulio,
    Sono debitore di riscontro ad una
    Sua amabile ed affettuosa lettera
    d’auguri, inviatami da te
    per l’anno nuovo. Gli auguri
    te li ho ricambiati dal primo
    momento col cuore: a scriverte=
    li attendevo che mi giungesse
    la buona nuova del tuo colloca=
    mento presso una di codeste
    Ditte torinesi _ Ora che la tua
    ottima Mamma m’ha fatto
    cortesemente sapere che
    hai consegnato l’intento,
    a traverso le inevitabili e

    imprevedute contrarietà, ti
    mando con maggior piacere non
    solo gli auguri, ma ancora le
    mie felicitazioni.
    Gli ostacoli superati ti
    renderanno certamente più caro
    il successo e ti faranno sopporta=
    re anche qualche nuova diffi=
    coltà, che non suole mai mancare
    nei primi passi in una carrie=
    ra.
    In quanto a me sono
    felice dia ver potuto contribuire,
    anche in parte piccolissima, a
    spianarti la via.
    Come avrai certamente sapu=
    to Mario ci tornò felicemente

    dalla Cina[1], nei primi giorni
    di questo mese, e noi gli andavamo
    incontro fino a Messina. Ora si
    gode qui una ben meritata licen=
    za d’un paio di mesi.
    Addio, caro Giulio, fa buone
    cose e gradisci i saluti cordiali
    di noi tutti

    Sempre tuo aff mo
    E Arlotti[2]


    Note

    [1] Il corpo di spedizione italiano in Cina venne inviato dal Regno d’Italia nella primavera del 1900 nel paese asiatico, per assistere le grandi potenze internazionali nel contrasto alla rivolta dei Boxer. La partecipazione consentì al Regno di ottenere la concessione italiana di Tientsin.
    Responsabile del trasferimento di truppe italiane in Cina tra 1900 e 1901 fu la “Forza Navale Oceanica” della Regia Marina, affidata al contrammiraglio Camillo Candiani, da cui si poteva attingere la fanteria di marina.
    Dopo le prime violenze a Pechino contro gli occidentali, 1º giugno 1900 il primo contingente di 436 marinai della “Alleanza delle otto nazioni” (75 russi, 75 inglesi, 75 francesi, 60 statunitensi, 50 tedeschi, 41 italiani, 30 giapponesi e 30 austriaci) sbarcò da navi europee e si recò in treno a proteggere le legazioni occidentali, poste sotto assedio dai Boxer. Dal 15 giugno una parte degli italiani e francesi difendevano la cattedrale cattolica di Pechino.
    Un reparto di Fucilieri di marina italiani in divisa coloniale marcia a Tientsin
    Il 10 giugno giunse una seconda missione delle otto nazioni in Cina, con il fine di rompere l’assedio, la spedizione Seymour (914 britannici, 540 tedeschi, 312 russi, 158 francesi, 112 americani, 54 giapponesi, 41 italiani, 25 austriaci). Essa comprendeva fanti di marina della Divisione Navale italiana sbarcati dalla Regia Nave Calabria al comando del tenente di vascello Sirianni. La spedizione Seymour provò anch’essa a dirigersi da Tientsin verso Pechino, mentre plotoni da sbarco alleati (per l’Italia ve ne era uno al comando del tenente di vascello Giambattista Tanca) attaccavano e prendevano i forti di Ta Ku sulla costa (causando l’intervento aperto dell’Impero Qing a favore dei Boxer). Tuttavia la spedizione Seymour fu respinta con perdite e costretta a tornare al punto di partenza il 26 giugno. Un gruppo di 20 marinai comandato dal sottotenente di vascello Ermanno Carlotto – medaglia d’oro alla memoria – si distinse nella difesa di Tientsin. Negli scontri con gli insorti caddero 10 marinai italiani, tra cui lo stesso Carlotto il 27 giugno.
    La successiva spedizione Gaselee (2000 americani, 10000 giapponesi, 4000 russi, 3000 britannici, 800 francesi, 200 tedeschi, 100 austriaci, 100 italiani), iniziata il 4 agosto, riuscì a conquistare Pechino entro il 28 agosto, quando le forze delle otto nazioni sfilarono attraverso la Città Proibita.
    Nel frattempo, il Parlamento italiano aveva deciso, il 5 luglio, un intervento militare più massiccio con l’invio di un corpo di spedizione di più di 2.000 uomini. Tra il 16 e il 19 luglio 1900 furono completate a Napoli le operazioni di imbarco del Corpo di Spedizione sui piroscafi Minghetti, Giava e Singapore, messi a disposizione dalla Compagnia di Navigazione Italiana. Alla mattina del 19, il re Umberto I e il ministro della Guerra Coriolano Ponza di San Martino passarono in rassegna i reparti. I tre piroscafi furono scortati dalla Regia Nave Stromboli. Al seguito del Corpo di Spedizione vi furono numerosi giornalisti e altri, come Luigi Barzini, che raggiunsero il contingente nel 1901. Il Corpo di Spedizione partì la sera del 19 luglio 1900 e, dopo aver sostato a Porto Said (il 23 luglio), ad Aden (il 29) e a Singapore (dal 12 al 14 agosto), giunse a Taku il 29 agosto 1900. Nel periodo in cui si approntava il Corpo, erano state spedite in avanscoperta delle unità navali (l’incrociatore Fieramosca e le R.N. Vesuvio e Vettor Pisani), cariche di quattro compagnie di fanteria di marina, il tutto al comando dell’ammiraglio Risolia: questi reparti avevano partecipato agli scontri con i cinesi. Una volta sbarcato, il personale percorse in treno i 150 chilometri che lo separavano da Pechino, dove prese parte all’occupazione della città per poi essere anche adibito alle successive operazioni militari in Cina (coinvolti furono 50000 uomini di cui 2500 italiani).
    Il contingente internazionale nominò il 26 settembre quale comandante generale il Feldmaresciallo tedesco Alfred von Waldersee. Tale nomina incontrò le forti resistenze di Francia e Gran Bretagna, meno dal Regno d’Italia. Al contingente militare italiano fu affidato il presidio di un quartiere nei dintorni della caserma Huang Tsun. A detta delle cronache gli scontri, i saccheggi e le repressioni in tale zona furono minori che in altri quartieri. Della permanenza in Cina del Corpo di spedizione rimane la ricca testimonianza di due ufficiali “fotografi”: il tenente medico Giuseppe Messerotti Benvenuti di Modena armato di una Kodak e il tenente Luigi Paolo Piovano di Chieri con una Goertz. Entrambi non mancheranno di fotografare anche gli orrori della repressione, ovvero le fucilazioni, le decapitazioni, le gogne e le macerie. Al contingente militare italiano fu inoltre affidato il compito di contrastare le ultime resistenze all’interno della Cina. Il 2 settembre furono conquistati i forti di Chan-hai-tuan con 470 uomini su tre compagnie, due di bersaglieri e una di fanti di marina. In un’altra occasione il contingente militare francese occupò il villaggio di Paoting-fu, in contrasto con gli ordini di von Waldersee che prevedevano l’affidamento dei luoghi a un contingente misto tedesco e italiano. Garioni anticipò il contingente militare francese riuscendo, alla guida di 330 uomini, ad anticipare l’occupazione della cittadina Cunansien originariamente affidata ai francesi.
    Il rientro in Italia del Contingente ebbe inizio nell’agosto 1901. Due compagnie di bersaglieri fecero ritorno nel 1902, mentre le restanti compagnie, unite in un battaglione misto, rimasero in Cina sino al 1905 e fecero ritorno con la Perseo della Compagnia Florio Rubattino nell’agosto 1905.
    Con il Trattato di Pace del 7 settembre 1901, fu ottenuta la Concessione italiana di Tientsin, una zona di 450.000 m², costituita da un terreno lungo il fiume ricco di saline, un villaggio e un’ampia area paludosa adibita a cimitero. Dopo un periodo di disinteresse, fu avviata una bonifica. La presenza italiana perdurò sino al 10 settembre 1943, quando le truppe giapponesi occuparono Tientsin e fecero prigionieri civili e militari italiani.(fonte)

    [2] Emilio Arlotti (Ferrara, 13 marzo 1883 – Ferrara, 15 novembre 1943) è stato un politico italiano. Socialista riformista in gioventù, fervente interventista, ha trascorso quasi tutto l’arco della sua vita lavorativa come amministratore e direttore dello zuccherificio Bonora. È stato anche consigliere della Banca d’Italia e presidente della Cassa di Risparmio di Ferrara. Deputato e consigliere nazionale, senatore dal 1939, non ha mai aderito al Partito Nazionale Fascista se non in modo formale, e rifiuta anche l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana. Perseguitato dai repubblichini, muore fucilato nella rappresaglia che il 15 novembre 1943 segue l’assassinio del federale Igino Ghisellini.(fonte)

    Caduto in disgrazia durante gli anni del fascismo, il conte Grosoli alienò la residenza alla moglie del commendator Emilio Arlotti, già affermato industriale, poi Presidente della Cassa di Risparmio ed attivo collezionista di opere d’arte. Molte pitture da egli acquisite, grazie anche all’apertura de “La Cisterna” prima galleria d’arte ferrarese, trovano posto nelle sale dell’antico palazzo di via Santo Spirito, le cui decorazioni pittoriche, risalenti anche al XVI secolo, vennero affidate per un generale restauro al pittore Mario Capuozzo. Oltre al ripristino, quasi un’effettiva ridipintura, della volta a botte e a crociera dell’ampia scalinata cinquecentesca e del soffitto a lacunari del salone principale, l’artista ridecorò, secondo differenti stili, varie parti dell’edificio.(fonte)

    A Ro, mentre si percorre il ponte sul fiume Po per giungere a Occhiobello, in quel Veneto che è ancora uguale alla ferrarese Emilia, si può facilmente vedere, nell’ansa golenale, uno strano manufatto che galleggia vicino alla riva, sembra una casa con il tetto di canne di fiume: è un mulino. Per chi non conoscesse i mulini sul Po, si trattava di vere costruzioni galleggianti che sfruttavano la forza del corso del fiume per imprimere movimento a pale e, con un gioco di ingranaggi e mole, macinare e rendere farina il grano ed il mais prodotti nei terreni agricoli limitrofi. E’ certo che uno di questi mulini, a Zocca di Ro, funzionava ancora durante la seconda guerra mondiale e che furono proprio le truppe di occupazione tedesche, chissà poi la vera ragione di questa azione, ad affondarlo nell’acqua profonda del fiume, volendo privare il nemico di un “facile bersaglio”. Proprio questo mulino è ricco di storia, di eventi voluti, di vissuto, di casualità. I suoi ingranaggi, il fulcro del mulino, si dicono risalenti al XVIII secolo. Il suo ultimo proprietario, il senatore ferrarese Emilio Arlotti, fu trucidato, appoggiato al muretto del fossato del Castello Estense, in quella “lunga notte” del novembre 1943 in cui si spensero illusioni e si iniziarono brutalità inimmaginabili. Walter Matteucci (fonte)

    La ritorsione alla violenza terroristica dei gappisti ricadeva, tramite la reazione dei fascisti all’oscuro dei retroscena nel fronte opposto, sugli antifascisti non comunisti contrari alla guerra civile e coinvolti loro malgrado nella “politica della strage” voluta e attuata solo dal PCI.
    Oltre all’avvocato Zanatta vennero condannati a morte: il senatore Emilio Arlotti, il dottor Pasquale Colagrande, il commerciante Vittorio Hanau e suo figlio Mario, l’avvocato Giulio Piazzi, l’avvocato Mario Teglie, il commissionario Alberto Vita Pinzi.
    La rappresaglia venne eseguita dalle squadre veronesi e padovane. I condannati ignorarono fino all’ultimo momento la sorte che li attendeva. Verso le quattro del mattino li portarono tutti nel Castello Estense. Nessuno disse loro che stavano per essere fucilati. Poco dopo le cinque gli otto furono invitati a lasciare il Castello: “Dove ci portate?”, domandarono alcuni. “Vi scortiamo fino alla piazza”, fu la risposta “poi vi lasceremo liberi”. Il gruppo, circondato da alcune decine di uomini armati, uscì dal Castello e si incamminò lungo Corso Roma, fiancheggiando il muretto che circonda il fossato, diretto verso la piazza. Dopo alcune decine di metri il gruppo si suddivise: davanti a tutti si trovarono a camminare il senatore Arlotti, i due Hanau e l’avvocato Zanatta; poco più dietro il dottor Colagrande, Piazzi, Teglie e Vita Pinzi. “La città era immersa nella nebbia e nel silenzio più assoluto”, ci ha raccontato un congiunto del senatore Arlotti che riuscì a ricostruire momento per momento la scena dell’uccisione. “Il rumore dei passi di molte persone che si avviavano verso la piazza mise in allarme il custode di una banca che ha la sua sede in Corso Roma, quasi di fronte al luogo dove avvenne l’eccidio. Da lui ho saputo come si svolsero i fatti. Quando il gruppetto di cui faceva parte il senatore Arlotti giunse al termine del muro che circonda il fossato del Castello, vicino alla statua del Savonarola, qualcuno disse: “Adesso potete andare, siete liberi”. Allora risuonò nitida la voce di Arlotti che, rivolto all’avvocato Zanatta, pronunciò in stretto dialetto ferrarese una frase, intraducibile letteralmente, ma che significa: “Togliamoci di mezzo al più presto, che ci è andata ancora bene”. Immediatamente dopo Corso Roma si riempì di raffiche di mitra. La sparatoria durò quasi un minuto. Poi il silenzio scese di nuovo sulla città”.
    Tratto da Sangue chiama sangue. Storie della guerra civile di Giorgio Pisanò(fonte)

    “Quel 15 novembre ero già a letto (avevo 15 anni), quando una scampanellata alla porta mi sveglia di soprassalto. Sento poi qualcuno che sale le nostre scale e poi vedo la mamma affacciarsi sulla porta della mia camera “Corrado alzati, sono arrivati 2 carabinieri e vogliono che tu vada con loro per chiederti qualcosa (…)”. La mamma piangendo mi aiuta a vestirmi, e quando usciamo nella notte fredda e umida io sconvolto e confuso cammino in mezzo a quei due (mi sentivo molto Pinocchio). Arriviamo alla Caserma Littorio e lì mi fanno entrare. In principio non vedo niente: una sala fredda e umida, con il fumo di sigarette accese e tanta gente, uomini e donne, che camminano in tondo per scaldarsi. Poi il padre di un mio compagno di classe mi afferra per un braccio e mi spiega che siamo qui perché hanno ammazzato un fascista, ma certo a mattina ci lasceranno tornare  a casa. Poi mi indica le persone attorno: ci sono molti ebrei che io conosco (compreso un cieco ferito nella grande Guerra al braccio della moglie), in un angolo il mio amico Gigetto il gelataio, noto comunista che veniva arrestato ogni primo maggio e accanto a lui una signora distinta. È la maestra Costa socialista, mi dice il mio protettore: la maestra e il gelataio hanno entrambi in mano una valigetta “Sono certi di andare in prigione e hanno preparato tutto il necessario!”. In un angolo un uomo distinto e impellicciato “Il senatore fascista Arlotti!”. Verso le tre del mattino entra di volata un gruppetto di camicie nere che urlano verso di noi: “Quanta carne da macello”. Escono e poi ritornano e uno di loro legge una lista di 4 nomi, tra cui quello del senatore, e ordinano loro di uscire. “Vedi”, mi dice il mio protettore, “se hanno chiamato il senatore, vuol dire che quelli li mandano a casa (…)”. Invece li portavano al muretto della morte”.
    Giorgio Bassani, Una notte del ’43, 2G editrice, Ferrara, 2001. 
    Riuniti in un ufficio al primo piano della caserma, i fascisti decidono chi passare per le armi per vendicare l’uccisione del Federale Ghisellini(fonte)