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Alberto Lumbroso. 1930

    Alberto Lumbroso, 1930

    14 dicembre 1930

    Carissimo Viola[1],
    Avrei un bellissimo tema da trattare, che Mussolini ha reso
    di somma attualità col suo discorso del 12 dicembre. Le ricordo questo brano:
    “Non ho bisogno di ricordare che quantunque l’impero di Napoleone III fosse
    caduto, il 4 settembre , la Repubblica francese che ne seguì tenne ancora per
    quattro anni consecutivi a Civitavecchia una nave quasi a dire che nella po=
    litica di difesa della Chiesa, nella figlia primogenita della medesima non vi
    era differenza di regimi”.[2] – Mi trovo a possedere preziosissimi documenti ine=
    diti diplomatici francesi riguardanti l’episodio riassunto in quella frase
    del Capo del Governo. Sono lettere di Pio IX, del Presidente della Repubblica
    Thiers, dei due Ambasciatori francesi a Roma, quello presso il Vaticano (Ba=
    rone de Bourgoing) e quello presso il Quirinale (Fournier). Ella deve sapere
    che per quella nave francese che stava a Civitavecchia a disposizione del Pon=
    tefice, poco mancò che i due Ambasciatori francesi si sfidassero a duello e che
    uno dei due dovette partire da Roma prima ancora che il suo Governo avesse ac=
    cettate le sue dimissioni. Sono documenti di una rara importanza.
    Naturalmente bisognerebbe che l’articolo uscisse al più presto af=
    finchè non perda il merito dell’attualità, conferitogli dal discorso di Mus=
    solini sull’abolizione della festa del XX settembre. Siccome i documenti so=
    no già tutti raccolti, e ho già in testa il necessario commento, mi sento in
    grado di spedirLe le cartelle entro tre giorni dopo ricevuta la Sua accet=
    tazione, anche telegrafica. Mi dica se preferisce che dia in francese i do=
    cumenti francesi, e in latino la lettera di Pio IX, come preferirei, o se Le
    sembri meglio che io traduca tutto ciò in italiano. Le faccio questa domanda
    perché mi ricordo di avere molte altre volte, per esempio in ardicoli di Ales=
    sandro D’Ancona, trovati nella “Nuova Antologia” documenti francesi riprodot=
    ti nel loro testo originale.
    Profitto dell’occasione che oggi Le scrivo per chiederLe di ave=
    re la cortesia di mandarmi raccomandate le cartelle dattilografate di una mia
    Prefazione allora inedia, che Le offrii nell’ottobre scorso , ma che Ella
    non ha creduto di dover pubblicare nel periodico da Lei diretto. Ora che il
    libro con la sua Prefazione è uscito a Milano, la riproduzione di quelle mie
    pagine non avrebbe più ragion d’essere. Gliele ridomando perchè esse sono per
    me un prezioso ricordo, essendo quelle cartelle state dattilografate da dolce
    mano amica, e le voglio donare con tutte le altre del medesimo libro alla mia
    ultimogenita. Voglia non scordare questa mia preghiera che non troverà indi=
    screta.
    In attesa di Suoi cortesi ordini, e inviandoLe il mio miglior salu=
    to di buon Natale ( che vuol dire fraterno augurio che nel 1931 la Direzione
    della “Nuova Antologia” Le arrechi le più meritate soddisfazioni ) Le strin=
    go cordialissimamente la destra[3].


    Note

    [1] Cesare Giulio Viola. Nacque a Taranto il 26 novembre 1886 da Caterina Cacace, figlia di un ricchissimo banchiere di origini napoletane, e da Luigi, di Galatina nel Leccese, professore di greco e latino, poi fondatore del Museo archeologico di Taranto (con regio decreto del 1887) e ispettore archeologico con importanti scoperte all’attivo.

    Lo stesso Luigi, che ebbe sei, tra fratelli e sorelle, fra cui Ettore, padre di Sandro, giornalista e tra i fondatori di Repubblica, entrò spesso nell’opera del figlio, anche per l’instabilità drammatica della sua posizione sociale: sindaco di Taranto nel 1890-91, dopo sfortunate iniziative economiche, morì infatti da solo e in miseria nel 1924 a 73 anni.

    All’anagrafe, in omaggio al grande condottiero romano, il nome del futuro scrittore recitava Giulio Cesare: appena possibile si affrettò a invertirne l’ordine per alleggerirlo, anche se poi, divenuto ormai famoso negli ambienti teatrali, si fece chiamare Cecé. Di stazza minuta, con il colletto della camicia inamidato alto almeno otto centimetri, a sentire i ricordi di Lucio Ridenti (Il dramma, 1958, p. 4), tenne sempre all’estrema eleganza del vestiario, segno di appartenenza a una provincia colta. E gli occhi scuri nel volto bruno ne confermavano la geografia originaria. Da adolescente seguì il padre impegnato nelle visite e negli studi presso i musei siciliani e napoletani. Si trasferì a Roma, dove nel 1904 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, dalla quale però, senza avere completato il corso di studi, chiese quindici anni più tardi il trasferimento all’Ateneo di Napoli.

    Durante la prima guerra mondiale, fu aviatore nelle neonate squadriglie del Mediterraneo, piazzato in un idrovolante armato di radio e di mitragliatrici. Guidare velivoli anche in tempo di pace fu il suo passatempo, assieme alla pittura amatoriale.

    Dopo la guerra, Viola conobbe a Roma Vittoria, della famiglia dei principi Pignatelli della Leonessa, e la sposò il 26 novembre del 1920, nonostante l’esplicita avversione della famiglia di lei. Il matrimonio si rivelò tanto solido da resistere al momento in cui il commediografo confessò alla moglie di attendere un figlio dall’attrice Elsa Merlini.

    La nobildonna, condannata fisicamente alla sterilità, permise che lui lo riconoscesse, a condizione che il bimbo restasse lontano da loro. Il piccolo Luigi venne di fatto allevato dalla zia paterna Livia, sposata a Vincenzo Coppola, e con i due si trasferì in Brasile, mantenendo con il padre contatti solo epistolari.

    Critico teatrale in varie testate romane, tra cui la terza pagina della Tribuna, Viola divenne nel 1926 redattore capo della Nuova Antologia, incarico che conservò sino al 1931. Esordì con un fugace assaggio poetico, L’altro volto che ride (Napoli 1909): serie di dieci poemetti articolati in stanze, impregnati di spiritualismo e di romanticismo tardoottocentesco alla Arturo Graf da un lato e di simbolismo dannunziano, persino con qualche timida assonanza criptofuturista, dall’altro. In seguito, si cimentò nella narrativa con un volume di novelle, Capitoli (Milano 1922), agile e spigliato in situazioni differenziate e caratteri tratteggiati di scorcio (poi in parte ripreso nei racconti di Perché?, Roma 1946), e soprattutto con un romanzo che lo lanciò sulla ribalta nazionale, Pricò (Milano-Roma 1924). Tradotto pure in molte lingue, narra una storia depressiva: il dissidio coniugale con tradimento di lei e suicidio di lui, visto dagli occhi del figlio, che cresce (il titolo significa in effetti «precoce» nel dialetto salentino) attraverso lutti e traumi. Fu la volta quindi, con minore risonanza, e molto spostati in avanti, di Quinta classe (Milano 1953), sulla sua esperienza scolastica al liceo tarantino Archita, e di Pater: il romanzo del lume a petrolio, dalla lunga e tormentata stesura (Milano 1958), uscito nell’anno della morte, biografia devota centrata appunto sul genitore, e messo in relazione con sessant’anni di storia nazionale.

    Ma fu la drammaturgia il territorio privilegiato di Viola, con almeno una trentina di testi, di larga circolazione, richiesti dalle ditte primarie più garantite dal box office. Venne inserito nel gruppo dei crepuscolari e intimisti, ovvero Fausto Maria Martini, Guglielmo Zorzi, Guido Cantini e Cesare Vico Lodovici, per intenderci, ma si distinse con una sua cifra personale.

    Il vero debutto teatrale avvenne nel 1907 allorché all’Argentina di Roma Edvige Reinach e Amedeo Chiantoni portarono Mattutino, delicato atto unico scritto con Martini e centrato su due vecchi nonni visitati e scandalizzati dalla nipote che ripete alla fine gli atteggiamenti trasgressivi della madre. Nel 1915 seguì L’ombra, cofirmata assieme a Luigi Antonelli e affidata alla compagnia Reiter-Carini, cupa vicenda di un avvocato che sposa – dopo averla fatta assolvere – una donna accusata di aver ucciso il marito, per poi perdersi in una gelosia retroattiva e in dubbi devastanti.

    In generale, Viola si vuole partecipe del proprio tempo, calato a osservare il reale, metodo da lui definito «presentismo» (Scorrano, 1996, p. 209), in cui collocava del resto anche Luigi Pirandello, ai suoi occhi autentico sismografo della società italiana di quegli anni e stimato soprattutto per i legami con la sua terra.

    Di fatto, puntò alla rappresentazione della vita borghese quotidiana tra le due guerre, di là dai trionfalismi di facciata del fascismo. E osò mostrare, pur con inevitabile prudenza, un destino di mediocrità senza via di uscita, con una verbosità dialogica avvocatesca, non sempre trattenuta. E non mancavano mai colpi di scena, con adulteri e pentimenti, vedi La donna dello scandalo del 1927, dove l’amante si rivela uno squallido ladro. Altre volte, invece, la figura femminile si erge ad angelo domestico, votato al sacrificio di cui solo gli spettatori erano consapevoli, come in Quella del 1933, in cui Emma Gramatica recitò la parte di una madre sofferta, nonché vedova, costretta dal suocero altolocato, contrario alle nozze del figlio con una ex canzonettista, a lasciargli i figli pur di vederli crescere nel benessere. Una versione televisiva del testo venne diretta nel 1957 in Rai da Guglielmo Morandi, con una magnetica Lilla Brignone. Lo scrittore avrebbe voluto antologizzare in una raccolta dal titolo Commedie dell’istinto quest’ultimo dramma, assieme ad altri: Il giro del mondo del 1931, affidato all’estro misurato sempre di Gramatica, genitrice mal maritata costretta a vendersi al direttore della banca in cui il figlio impiegato ha rubato, con tanto di scena straziante per la relativa confessione, prelevata allo stile Niccodemi; Stratosfera, del 1935dove un anziano scrittore, affidato a Luigi Carini, rinuncia nobilmente alla sua giovane amante (Maria Melato), lasciandola al passionale poeta (Febo Mari) che s’è messo in casa; La ronda di notte del 1932, con Tatiana Pavlova e diretta da Anton Giulio Bragaglia, ambientata in un lupanare con brigadieri corrotti ed etere che muoiono, salvo poi comunicare dall’aldilà, spettacolo interrotto dalla questura e dagli schiamazzi irritati in sala dopo poche repliche; infine, L’Inferno del 1937, in cui Gramatica e Memo Benassi sono rispettivamente la consorte vittima e il marito usuraio acceso nei sensi per la serva al punto da mandare la moglie in manicomio, per poi pentirsi in un finale edulcorato. L’autore avrebbe avuto buon diritto, in un simile progetto, dal momento che l’intera sua drammaturgia appariva tesa a far salire la tensione tra i suoi personaggi, evitando però l’esplosione.

    Il nucleo familiare poteva ospitare varianti virtuosistiche sul triangolo, come in Vivere insieme del 1939 con la ditta Ricci-Adani, dove una donna inquieta, dopo la sbandata, si macera tra marito e amante che la sorprendono di continuo tra gesti egoisti e generose offerte d’amore. Si arriva anche a orrori e oscure pulsioni incestuose. Ad esempio, in Canadà del 1933, l’amante di una signora corrotta si incapriccia della figlia di quest’ultima, il tutto rivelato dai due innamorati alla moglie e insieme madre disperata in una sequenza di forte impatto nel secondo atto. Oppure può essere un figlio illegittimo nato fuori casa, con qualche rimando alla pirandelliana La ragione degli altri, ma dal sapore altresì autobiografico, a corrodere il fragile equilibrio del nucleo coniugale, come in E lui gioca! del 1936, con un bimbo che seguita a giocare mentre intorno a lui tre adulti si tormentano.

    Trionfale fu l’esito, a partire dal 1925, di Il cuore in due, portato in giro per anni dalla russa italianizzata Pavlova anche in America. Qui, due fratelli scrittori vedono il loro rapporto artistico incrinarsi all’arrivo di un’ammiratrice, di cui entrambi si innamorano, finché il più giovane si sacrifica per l’altro. Renato Simoni annotò a tale proposito che l’autore sapeva portare in scena «uomini quasi impeccabili e passioni temperate» (Trent’anni di cronaca drammatica, 1951-1958, II, 1954, p. 381). Successo non ripetuto l’anno successivo con il citato La donna dello scandalo, ancora con Pavlova. Tra le tante star del tempo che si contendevano i suoi titoli, emerse Ruggero Ruggeri quale suo interprete fedele, raggiungendo forse gli esiti più convincenti nel tardivo In nome del padre (1952), febbrile nei panni insoliti di un monsignore, dal torbido passato di marito fedifrago, che cerca di convincere la figlia a non divorziare. Dispiegò pure una capacità indubbia nel contrasto tra tipologie umane opposte, come in Gavino e Sigismondo del 1940, con la compagnia Maltagliati-Cimara-Ninchi. Qui, un timido intellettuale porta via la donna, una comparsa cinematografica, a un rozzo e sensuale pugile. Mostrava altresì sensibilità sociali in Poveri davanti a Dio del 1947, con uno sguardo coraggioso sui disastri provocati dalla seconda guerra mondiale. Sorprese per doti insospettate di comicità, sia pure in tematiche sofferte, come in Salviamo la giovane del 1951, compagnia Bagni-Cimara, con un professore universitario epurato, il figlio reduce dai campi di concentramento e la moglie del primo che si finge benefattrice per risollevare invano il rango della famiglia.

    Viola fu abile nel rifacimento di storie antiche, firma di altri autori, specie classici, come nell’apprezzata Nora seconda del 1955 con Lida Ferro, tre mesi in cartellone, dove l’eroina ibseniana si mostra vent’anni dopo pentita delle proprie scelte e nostalgica del ruolo di moglie/madre ricusato in gioventù.

    Nel 1938 Viola scrisse inoltre i dialoghi per il film Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini, e soggetti e sceneggiature cinematografiche, tra cui il coevo Napoli d’altri tempi di Amleto Palermi, e Turbine di Camillo Mastrocinque. Di gran risalto quella nel 1943 per I bambini ci guardano di Vittorio De Sica, tratto dallo stesso Pricò. Nel 1946, collaborò a Sciuscià di Cesare Zavattini e De Sica, che concorse nel 1948 all’Oscar quale migliore sceneggiatura originale. Da sottolineare come per lo schermo, almeno nei casi migliori, la lingua si snellisse rispetto alla già vista tendenza ad allungarsi della battuta teatrale.

    Tuttavia, nel secondo dopoguerra, Viola patì come gli altri autori italiani un drastico ridimensionamento di attenzione, nella decisa sprovincializzazione dei repertori, oltre alla nuova presenza di registi ostili ad autori nostrani. Pagò anche in parte il fatto di avere avuto un ruolo di spicco nel sindacato fascista scrittori e autori. Nel 1928 si era affiliato al gruppo letterario dei Dieci, sotto l’egida di Filippo Tommaso Marinetti e benedetto dal duce. Ma nel 1937 la censura del regime vietò l’uscita alla ribalta del suo copione Giappone, mentre nel 1940 il suo Re Tabor, interpretato da Renzo Ricci, mostrò ambiguamente le ragioni della pace oltre che quelle della guerra.

    Nel 1952 si candidò per il Partito liberale italiano (PLI), senza venire eletto. Nel 1955 il suo Venerdì santo fu insignito con il premio Napoli (nel 1950 aveva conseguito anche l’IDI-Saint Vincent, premio assegnato dall’Istituto del dramma italiano).

    Scritto per Gramatica che lo volle portare in scena all’indomani della morte dell’autore, il dramma mette in bella mostra, durante la processione della festa locale, la ferocia e l’ipocrisia della famiglia borghese perbenista contro una parente caduta nella prostituzione, cui si riserva solo il foglio di via.

    Morì il 3 ottobre del 1958, in una delle sue ville a Positano, residenza estiva, per un incidente, cadendo dalla seggiola sulla terrazza e sbattendo la testa.

    Stava lavorando alla revisione dell’ultima sua opera, Candido, che riprendeva il motivo ossessivo del figlio nato fuori da una coppia sterile. Venne sepolto nella cappella di famiglia Pignatelli nel cimitero del Verano a Roma. Nel 2008, un suo nipote, figlio della sorella Bianca, Cosimo Cinieri, autorevole attore teatrale sperimentale, anche lui tarantino (morto nel 2019), tenne un recital nella città natale Ciao, Cecè… dalla penna di Cesare Giulio Violarapsodia per Taranto con fisarmonica, tammorra e banda, drammaturgia e regia di Irma Immacolata Palazzo.

    Opere. Per la produzione narrativa: L’altro volto che ride, Napoli 1909; Capitoli, Milano 1922; Pricò, Milano-Roma 1924; Perché?, Roma 1946; Quinta classe, Milano 1953; Pater. Il romanzo del lume a petrolio, Milano 1958. Le commedie furono per lo più ospitate in riviste: in particolare in Comoedia e quindi ne Il Dramma (che gli dedicò il n. 266 nel 1958 per la morte); altre apparvero separatamente in volume e nella Biblioteca teatrale moderna della Mondadori.(fonte)

    [2] Dal discorso di Benito Mussolini Per la Festa del Patto Lateranense (12 dicembre 1930)

          Il 12 dicembre, discutendosi alla Camera il progetto di legge per la modificazione di alcune feste nazionali, comprendente l’abolizione della festa nazionale al XX settembre da sostituire con quella dell’XI febbraio (Patto del Laterano) alle obiezioni dell’On, Ezio Garibaldi, il Capo del Governo rispose col seguente discorso:

          Non sono affatto sorpreso che l’on. Ezio Garibaldi abbia parlato: sarei invece rimasto sorpreso se l’on. Garibaldi avesse taciuto. E quantunque io abbia preparato questo discorso per l’altro ramo del Parlamento, dove talune sensibilità sono più raffinate, lo anticiperò. Bisogna subito sbarazzare il terreno dal raffronto stabilito dal camerata Garibaldi fra il 20 Settembre e l’11 Febbraio e il 24 Maggio e il 4 Novembre.

          Siccome sono stato io a volere che fosse messo fra le solennità civili il 24 maggio, dirò subito perché. Il 24 maggio è importante, perché segna la data della nostra dichiarazione di guerra all’impero Absburgico; ma è importantissimo, perché segna il trionfo di quelle radiose giornate di maggio, che furono il primo atto della Rivoluzione fascista.

          Non bisogna quindi svalutare la importanza del 24 maggio dal punto di vista interno nostro, perché sarebbe un errore. Non voglio, in questo momento, farvi l’oltraggio di una rievocazione storica del settembre del 1870. È mia profonda convinzione che, se a Roma vi fosse stato un solo plotone di soldati francesi regolari, molto probabilmente Cadorna non avrebbe dato l’11 settembre da Terni l’ordine di marciare su Roma. Non ho bisogno di ricordare che, quantunque l’impero di Napoleone III fosse caduto, il 4 settembre, la Repubblica francese, che ne seguì, tenne ancora per 4 anni consecutivi, a Civitavecchia, una nave, quasi a dire che nella politica di difesa della Chiesa, nella figlia primogenita della medesima non vi era differenza di regime. Ed è positivo che quegli stessi «chassepots» che fecero meraviglie a Mentana nel 1867, il 3 novembre, le avrebbero fatte, dopo, lo stesso.

      Fummo fortunati: ed il merito grandissimo della destra fu quello di avere colto al balzo la fortuna, la quale fortuna una volta sola viene nella vita degli individui e nella vita dei popoli. E giungemmo a Roma la mattina del 20 Settembre. Le truppe piemontesi si fermarono» sulla riva sinistra del Tevere e non andarono al di là, perché al di là v’era la Città leonina, che aveva una popolazione di dieci o dodici mila abitanti.
          Fin dal 29 agosto, con una circolare del Ministro degli Esteri Visconti Venosta, la Città leonina era stata assegnata alla Santa Sede, che avrebbe dovuto costituire il territorio lasciato al Pontefice. Soltanto, essendo avvenuti dei disordini al di là del vecchio borgo, furono gli stessi pontifici che chiamarono Cadorna ad occupare anche il Trastevere. Però il Sovrano non fu scacciato; così come avvenne di tutti gli altri Sovrani, che noi dovemmo allontanare fin dall’ultimo loro palazzo, per rendere libera la Patria.
          Il Pontefice fu lasciato in un territorio infinitamente più ristretto, sul quale, durante 60 anni, lo Stato italiano non ha mai fatto un atto di potestà. Il Sovrano spodestato non aveva più territorio. Però s’ebbe questa singolare anomalia: che le rappresentanze diplomatiche, gli ambasciatori ed i ministri, che prima erano rappresentati presso il Papa, continuarono a rappresentare i loro Stati anche dopo, quando egli non aveva più territorio. Cosa significa questo? Che lo consideravano ancora Sovrano. Perché un elemento specifico individuatore della sovranità dello Stato è il diritto di legazione attiva e passiva, cioè il diritto di mandare e ricevere ambasciatori.
          Il camerata Garibaldi ha ricordato Alfredo Oriani. Se leggessimo le pagine di Alfredo Oriani sul modo con cui venimmo a Roma e leggessimo anche l’invettiva di Giosuè Carducci, rinfrescheremmo le nostre cognizioni letterarie. Finalmente, nel 1871, ci decidemmo a portare a Roma la Capitale. Questo fu compiuto dalla destra. Bisogna levarsi tanto di cappello di fronte a questa destra storica, perché dal 1860 al 1876 è quella che, sia pure pungolata o sospinta dal partito di azione o dividendosi le parti insieme, ha politicamente e praticamente realizzata l’unità della Patria.

    Erano gli uomini che si chiamavano Minghetti, Sella, Lanza ed altri minori. Tutta gente degna di rispetto, patrioti di sicura tempra, uomini di certissima fede, probi fino allo scrupolo. Ebbene, negli anni che vanno dal 1870 al 1876, non ci fu mai la proposta di festeggiare il 20 Settembre.
          Nel 1876 avvenne quella che fu chiamata erroneamente la rivoluzione delle sinistre. Sulla piattaforma prima erano gli uomini della destra, glabri, segaligni, che avevano qualche cosa dell’inglese nel loro modo di essere; poi, dopo il 1876, abbiamo la barba fluente di Agostino De Pretis, il quale inizia il trasformismo, cioè un regime di compromesso, che non ha dottrina e che praticamente si limita alla ordinaria amministrazione.
          Chi abbia letto la storia politica e diplomatica del Cilibrizzi, si sarà fatta un’idea pietosa di quella che sia stata la politica italiana dal 1876 in poi. Anche allora le sinistre non pensarono, che si potesse festeggiare il 20 Settembre. Finalmente, nel 1895, siamo al venticinquennio; e allora nell’aula, il 6 luglio, il deputato Vischi propone un disegno di legge, con un solo articolo così concepito: «Ai giorni che dalla legge 23 giugno 1874, n. 1968, serie seconda, sono dichiarati festivi per gli effetti civili, è aggiunto il 20 Settembre».
          Devo dire che la discussione della Camera non fu molto interessante. Parlarono Mazza Pilade, grande dignitario di tutte le massonerie del mondo. Colajanni, Andrea Costa. Parlò anche Imbriani e disse testualmente: «Che andiamo facendo? Aumentando feste ogni giorno? Perché non la festa di ogni plebiscito? E perché non la festa dei fatti che hanno preparato la Patria? Ma se una festa nazionale ci deve essere, riserviamola come premio di un dovere compiuto. Quando ai piedi delle Alpi Giulie noi avremo riaffermata veramente l’integrità della Patria, quando avremo conquistate Pola e Trieste, allora, sì, decreteremo la nostra festa nazionale».

    Devo tuttavia convenire col camerata Garibaldi che, in questo atteggiamento di Imbriani, si vede il polemista, l’uomo che, non amando quel governo, prendeva pretesto anche da quella legge, per votargli contro. Ma vediamo quale fu l’atteggiamento di Crispi. Credo che nessuno in questa Camera e nemmeno fuori di questa Camera, possa dubitare del patriottismo di Francesco Crispi. Né si può pensare che Francesco Crispi avesse delle simpatie clericali. Credo di non dire nulla di straordinario se aggiungo che Francesco Crispi appartenne alla massoneria.
          Udite, l’uomo in imbarazzo, Francesco Crispi!
          «Certo, o signori, il 20 Settembre è stato sempre festeggiato dal popolo, ed una prescrizione, un ordine a festeggiarlo, non sarebbero necessari. Parrebbe che noi volessimo imporre quello che è nella coscienza di tutti. Nulla di meno, una volta che la legge fu portata alla Camera, il rifiuto alla medesima sarebbe una offesa alla coscienza nazionale. Vogliate, on. Deputati, rientrare nelle vostre coscienze e comprendere quale triste impressione produrrebbe in Italia e all’estero la notizia che voi avete respinta la legge!»
          E Crispi aveva perfettamente ragione! Evidentemente avrebbe preferito che non se ne fosse fatto nulla; ma dal momento che la legge era avanti alla Camera, la legge doveva essere approvata, perché altrimenti si sarebbe potuto pensare che dopo 25 anni noi non fossimo ancora sicuri di rimanere in Roma e di avere soprattutto la volontà di rimanere a Roma.
          Si fece l’appello nominale, i votanti erano 278, i «sì», cioè per la festa, furono 249; i contrari 26. Si fece poi lo scrutinio segreto: i favorevoli diminuirono, aumentarono i contrari: 204 favorevoli, 62 contrari. Ma ben più importante fu la discussione al Senato, perché al Senato parlarono uomini come Gaetano Negri, Giosuè Carducci, Gaspare Finali, Lampertico, Gabba e Crispi.

    Gaetano Negri, in quell’epoca, apparteneva a quella che si chiamava la consorteria lombarda: erano uomini della vecchia destra, ma rafforzati (allora si chiamavano «forcaioli»!) Però Gaetano Negri era uno spirito di primo ordine, ed un volume lo raccomanda alla posterità: Giuliano l’Apostata, uno dei libri più interessanti che si possano leggere. Si può forse definirlo «il libro classico della materia», perché è il libro nel quale Gaetano Negri, valendosi di un’erudizione fortissima, spiega, dimostra, prospetta la tragedia di questo ultimo Imperatore, che, circa quattro secoli dopo Cristo, credeva ancora di tornare al culto degli antichi Dei della vecchia Grecia. E naturalmente, ad un certo punto, trafitto, dopo avere bruciato i vascelli, dal dubbio, più che dalle frecce nemiche, finiva col proclamare: «Galileo, hai vinto!»
          Ora Gaetano Negri diceva: «Il punto veramente essenziale è di provare l’opportunità di una legge, per la quale dopo 25 anni noi, ad un tratto, ci svegliamo senza nessuna causa impellente, per decretare che il giorno 20 Settembre sia giorno festivo».
          Aggiungeva: «Il diritto nazionale, per il quale l’Italia è venuta a Roma, è un diritto assolutamente indiscutibile, come è indiscutibile il diritto per il quale l’Italia è andata a Napoli o a Firenze. Ma appunto perché questo diritto è indiscutibile, appunto perché noi non dobbiamo ammettere che da nessuno sia stato posto anche lontanamente in dubbio, appunto per questo noi non dobbiamo continuamente illuminarlo coi fuochi artificiali della nostra esultanza, quasi che si trattasse di una cosa anormale, che esce dalla legge comune, la quale fu la norma della costituzione politica del nostro paese».
          La tesi che egli sosteneva era questa: dal momento che l’Italia è una, dalle Alpi alla Sicilia, non può avere che Roma per Capitale. «E siccome — Gaetano Negri aggiungeva — questo è un fatto normale, storicamente provato, è inutile che ne facciamo un avvenimento eccezionale da celebrare ogni anno».

      Ancora: «Ebbene, o signori, coloro che credono di poter combattere di rappresaglia col Papa, cadono nel medesimo errore in cui sono caduti tutti i nemici del Papato, da Re Desiderio a Bismarck, nell’errore di non riconoscere che il Papa è un nemico diverso da ogni altro nemico, un nemico che si rafforza quanto più si indebolisce».
          Ometto gli altri discorsi favorevoli, come quello del Mariotti, come quello del Delzio, ma si ascolti che cosa disse Giosuè Carducci: «Io non nego che molte delle cose osservate dal senatore Negri sono osservate rettamente e profondamente. Anch’io sono nemico delle feste. Ma se una festa si ha da eliminare, si elimini quella della prima domenica di giugno: nobilissima commemorazione anche quella, ma segna il principio, segna la mossa pratica ed effettiva dell’Italia verso Roma. La prima domenica di giugno porta al 20 Settembre, e questo raccoglie, compie, corona in sé quella. L’acquisto di Roma non è una tendenza, o un’aspirazione di questo partito piuttosto che di quello, è un’idea più antica di Garibaldi e di Mazzini. Lasciamo la storia classica; ma il popolo italiano, appena svegliato ad un crepuscolo di libertà nei comizi cispadani nel dicembre 1796 in Reggio Emilia cantò l’andata a Roma».
          Risparmio il Gadda e cito il Lampertico, che nel suo discorso diede quasi l’impressione che antivedesse gli avvenimenti del febbraio 1929. Ma si veda che cosa disse il relatore Gaspare Finali e si vedrà come il senatore Gaspare Finali volle togliere a questa discussione ogni carattere di misticità. «Che cosa fa la legge?» diceva il senatore Gaspare Finali, relatore al Senato di questo disegno di legge. «Dispone soltanto che quel giorno sarà considerato festivo agli effetti civili. Vuol dire che in quel giorno saranno chiusi i Tribunali e la più gran parte dei pubblici uffici. Vuol dire che, in quel giorno, l’esattore non potrà andare a domandare le tasse al povero, vuol dire che in quel giorno non si potranno fare né citazioni, né atti esecutivi, che nessuno sarà impedito da civili negozi. C’è un rimpicciolimento delle cose.»

      Si veda Crispi. Il Senato sa che questo progetto è d’iniziativa parlamentare. Crispi ci teneva ed insisteva su questo. «Quando l’11 luglio fui chiamato nella Camera dei Deputati ad esprimere la mia opinione sul progetto medesimo, la dissi chiara ed esplicita: dissi ai Deputati che, una volta presentata la legge non si poteva né si doveva votare contro.»
          Ed in seguito: «In tale stato di cose e ricordando che ai miei tempi qualunque siano le condizioni del Vaticano e qualunque siano le ostilità continuamente praticate contro l’unità italiana, qualunque sia il linguaggio dei giornali cattolici, qualunque sia l’opposizione che dal Papa venga alle nostre istituzioni, l’on. senatore Negri non troverà un atto del mio Governo che abbia risposto a queste provocazioni. Ma abbiamo dal tempo quel trionfo a cui miriamo, cioè la pace tra la Chiesa e lo Stato. Questa pace (è sempre Crispi che parla) tra la Chiesa e lo Stato non può venire se non dalla libertà esercitata largamente e senza alcuna difficoltà, senza alcuna imposizione. A questo mira il Governo italiano. Dopo ciò nulla ho da aggiungere, sicuro che il Senato vorrà votare senza obiezioni questa legge che oggi a tutti si impone. Ed è proprio così — continua Francesco Crispi —. Se la legge non fosse stata presentata, le cose sarebbero andate altrimenti; ma una volta presentata nelle condizioni di lotta tra Vaticano e Stato italiano, pel modo come ci trattano i giornali cattolici di tutto il mondo, sapete quale significato avrebbe un voto contrario? Che noi retrocediamo o per lo meno che abbiamo paura di mantenere lo stato attuale delle cose. Ebbene, il Senato, corpo eminentemente conservatore, non potrà essere di questo avviso, e sono sicuro che voterà a favore della legge che gli fu presentata.»
          E fu votata a notevole maggioranza, con ottantasette voti favorevoli, ventotto contrari. Così il 20 Settembre entrò nel novero delle solennità civili. E lo abbiamo festeggiato tutti. Si capisce. Dal 1895 in poi ebbe un valore. Siccome dal Vaticano si protestava contro Colui che detiene, si rinnovava la protesta continua contro il possesso di Roma da parte dell’Italia, era giusto che si facesse la controprotesta, che si dicesse: «voi ritenete che noi siamo qui prò tempore, noi vi diciamo, invece, che ci siamo, perché intendiamo restarvi».

    Aggiungo che la festa a poco a poco era divenuta popolare, perché in essa confluivano due elementi: il primo, l’elemento dirò così nazionale; il secondo, l’elemento anticlericale. Venne la guerra. La guerra finì con la Vittoria: venne il Fascismo, ed è stato il Fascismo che ha cominciato a smobilitare il 20 Settembre. Il 20 Settembre, negli ultimi tempi, era diventato una parata massonica, inutile e malinconica. Certamente qualcuno lo ricorda, come tutti i cortei democratici che si rispettano, con tube, grembiulini ed insegne. I fascisti hanno sentito l’insincerità di questa cerimonia. Tanto è vero che, a poco a poco, essa andò decadendo. Fu prima soppresso, tra questi numeri, il telegramma rituale a S. M. il Re, perché oramai appariva superfluo — dal momento che non solo eravamo a Roma da 60 anni ma eravamo nel frattempo giunti anche sul Brennero e sul Nevoso — che si dicesse, ogni anno, che eravamo a Roma e che a Roma volevamo restare. Poi fu la volta del manifesto del sindaco governatore, che era sempre il medesimo. A un certo punto, anche il corteo non fu più organizzato. Restavano le bandiere sui trams e alle finestre.
          Ma intanto è venuto l’11 Febbraio. Ora io spero, credo, che gli italiani e i fascisti in particolare modo, finiranno per realizzare l’importanza enorme dell’11 Febbraio, quando non solo il Sovrano del ’70 ci riconosce la legittimità del possesso di Roma, ma questo accade per la prima volta nella storia, talché la rinunzia è definitiva, irrevocabile. Potrebbe essere revocata solo in un’ipotesi che non si vuole nemmeno affacciare allo spirito, cioè che l’Italia ritornasse a brandelli, calpestata dallo straniero!
          Ma finché l’Italia resterà un solo popolo e un solo cuore, Roma è dell’Italia, e l’Italia è di Roma! Quindi portiamo l’accento sull’11 Febbraio, cioè sull’avvenimento sull’atto che ci riconosce il legittimo pacifico possesso di Roma, perché questo non era mai accaduto prima. Ora, se si continuasse a festeggiare il 20 Settembre, noi saremmo semplicemente illogici. Noi quindi festeggiamo la Vittoria e la pace, la quale ha già dati i suoi risultati benefici.

      Festeggiando il 20 Settembre, noi potremmo mostrare o far nascere il sospetto che non siamo ancora sicuri di noi stessi, mentre noi invece lo siamo, in doppio modo: primo, per i trattati; secondo, per nostra volontà.
          Allora si dirà: «Dunque il 20 Settembre si cancella?» Niente affatto! Il 20 Settembre è una data; una data che nessuno cancella e nessuno può cancellare, perché nella storia si può discutere sulla interpretazione del fatto, ma il fatto è là, delineato, sagomato, individuato. Il fatto si chiama 20 Settembre, legato ad un evento, ad una cronologia, ad un periodo storico.
          Io credo che dopo queste dichiarazioni la Camera possa, con tranquillità, con italianità, con fascistica coscienza, dare il proprio suffragio all’attuale disegno di legge.(fonte)

    [3] Alberto Emanuele Lumbróso. Pubblicista italiano (Torino 1872 – Santa Margherita Ligure 1942), figlio di Giacomo. Partecipò alla guerra del 1915-18 come volontario, e dal 1916 al 1918 fu addetto militare aggiunto in Grecia. Bibliofilo e letterato, donò alla Biblioteca Nazionale di Torino, dopo l’incendio del 1904, tutta la sua biblioteca, particolarmente cospicua per la parte napoleonica. Diresse dal 1903 la Revue napoléonienne, poi la Rivista di Roma. I suoi studî di storia più noti, oltre quelli relativi alla guerra mondiale, riguardano appunto l’età napoleonica. © Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani – Riproduzione riservata (fonte)