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Pellegrino Rossi, 1840 c.a

    Pellegrino Rossi, 1840 c.a

    Je prie Monsieur Pingard[1]
    de vouloir bien faire mettre une place
    au nom de Madame La Comtesse
    d’Haussonville[2] qui a egare le
    billet que M. de Barante[3]
    lui avait donnè

    Rossi de l’institut[4]


    Note

    “Prego il signor Pingard
    vorrei che fosse intestato un posto
    a nome della Signora la contessa
    d’Haussonville che ha smarrito il
    biglietto che il signor de Barante
    gli aveva dato

    Rossi dell’istituto”

    [1] Su Monsieur Pingard.

    Nell’Accademia francese Antonius Pingard, primo usciere dell’Istituto.(fonte)

    Il secolo XIX nella vita e nella cultura dei popoli
    di Cavagna Sangiuliani di Gualdana, Antonio, conte, 1843-1913:
    La seduta nelle quali è ricevuto un nuovo accademico sono una festa mondana per eccellenza; la caccia ai biglietti è immensa. Il segretario dall’ Accademia che si usa chiamare in ogni occasione l’amabile Pingard è messo a tutta la prova. L’aristocrazia sopratutto predilige gli Accademici. È un vanto di poterne di tanto in tanto avere uno a pranzo. Un Accademico gode di un’indennità di soli 1500 franchi all’anno. Eugenio Labiche poteva dire colle sue abituali malizia : « Che importa la scarsezza dell’ indennità dal momento che si è nutriti ? »(fonte)

    Su Figaro del 5 febbraio 1886 (Numero 36) viene citato il figlio che prosegue l’attività paterna.
    “È stato un evento quello di Ludovic Halévy, uno dei più parigini, che difficilmente si vede dall’altra parte del Pont des Arts. Inoltre, nelle ultime due settimane, i biglietti sono andati a ruba; e l’eccellente signor Pingard junior, che sembra aver ereditato la gentilezza e la gentilezza di suo padre, non sapeva come comportarsi per non rendere le persone infelici, o soprattutto infelici.
    E non si tratta solo di avere un biglietto; devi ancora conquistare l’angolo di panchina che ti spetta. Dopo la tortura dell’adescamento, la tortura della coda, l’attesa prolungata davanti a una porta chiusa, per avere la soddisfazione, non di essere a buon punto, ma di essere collocati.” (fonte)

    [2] Louise de Broglie
    Louise-Albertine de Brogliecontessa d’Haussonville (Coppet, 25 marzo 1818 – Parigi, 21 aprile 1882), è stata una biografa e scrittrice francese, esponente della casata di Broglie, una celebre famiglia francese.
    Era la nipote della scrittrice Germaine de Staël ed era considerata indipendente, liberale e schietta. Il suo ritratto del 1845 realizzato da Jean-Auguste-Dominique Ingres, per il quale ci vollero tre anni per completarlo, è esposto nella sede della collezione Frick, a New York, dagli anni Trenta.

    Biografia

    Intitolata dalla nascita come Louise-Albertine, principessa di Broglie (come era consuetudine nella famiglia aristocratica del padre), ella era la figlia dello statista e diplomatico Victor de Broglie, terzo duca di Broglie e Albertine, baronessa Staël von Holstein. Ella fu la più grande dei tre figli che sopravvissero fino all’età adulta; suo fratello Albert avrebbe ereditato il titolo ducale di Broglie e avrebbe acquisito fama politica e letteraria, mentre il fratello minore Auguste, il futuro “abate di Broglie”, avrebbe intrapreso la carriera ecclesiastica. Louise era la nipote della celebre salottista e scrittrice Germaine de Staël, più nota come Madame de Staël, che morì un anno prima della sua nascita. Louise nacque nel castello della nonna a Coppet, in Svizzera, una residenza resa famosa dagli scritti di Staël e dalla notorietà culturale. Nel 1878 avrebbe ereditato la residenza a Coppet, dove sarebbe stata sepolta; la proprietà, che è stata aperta al pubblico fin dal 1924–1925, è ancora posseduta dai discendenti della viscontessa d’Haussonville.

    Louise scrisse un’autobiografia inedita nella quale raccontava della sua educazione molto acculturata. Fin dalla tenera età, ella era entusiasta della letteratura e della musica, in particolare l’opera (Ingres in seguito incluse degli occhiali da opera nel suo ritratto). Particolarmente intellettuale, si diceva che ella leggesse ogni nuovo libro che usciva. All’età di undici anni, assistette alla prima dell’opera teatrale Hernani di Victor Hugo, celebre per le proteste che causò; da giovane era anche una pianista e conobbe personalmente Frédéric François Chopin. Era anche considerata un’acquerellista di talento, capace di dipingere delle scene sensazionali e convincenti. Tuttavia, prendeva a cuore le critiche personali, rammentando che durante l’infanzia sua madre la paragonava a “un bel vaso senza manici”; un altro critico le disse, all’età di nove anni, che il suo personaggio “non aveva abbastanza nutrimento per tener vivo un cane” e la comparò a “un topo campestre, un topazio, un capriolo, una fata blu e una scintilla”. Secondo la stessa persona, il suo emblema araldico avrebbe dovuto essere un cavallo che fuggiva.

    Nell’ottobre del 1836, all’età di diciotto anni, sposò Joseph d’Haussonville, un futuro storico e membro dell’Assemblea Nazionale Francese (1809–1884). Louise poi scrisse: “Ero destinata ad abbindolare, ad attrarre, a sedurre, e, nella resa dei conti finale, a far soffrire tutti quelli che cercavano la loro felicità in me. Volevo sposarmi giovane e avere una posizione brillante nella società. E quella, in fondo, fu l’unica ragione per la quale volli sposarlo.” Con il matrimonio divenne Louise de Cléron, viscontessa d’Haussonville (poi contessa dopo la morte del suocero nel 1846). Quali che fossero le sue intenzioni iniziali, il matrimonio sembrò evolversi felicemente; la coppia visse presso l’Hôtel de Broglie, 35 di rue Saint-Dominique, una residenza ristrutturata per loro dall’architetto elegante Hippolyte Destailleur. Essi ebbero tre bambini: Victor-Bernard (1837–1838), che morì durante l’infanzia, Mathilde (1839–1898), che non si sposò mai e Gabriel Paul Othenin Bernard, noto come Paul-Gabriel d’Haussonville (1843–1924), un politico e saggista rinomato, dal quale avrebbero avuto molti discendenti.

    Louise è unica nel suo genere in quanto fu la figlia, la sorella, la moglie e la madre di quattro membri dell’Accademia francese: il padre Victor, il fratello Albert, il marito Joseph e il figlio Paul-Gabriel (quest’ultimo eletto nel 1888, sei anni dopo la sua morte). Louise era la prozia di Louis de Broglie, che avrebbe vinto il premio Nobel per la Fisica nel 1929 grazie al suo lavoro fondamentale sulla teoria quantistica. Ella era inoltre la bisnonna della filologa Béatrix d’Andlau (1893–1989) e di suo fratello Jean Le Marois (1895–1978), poeta e drammaturgo, che erano entrambi dei membri della famiglia Andlau.

    Carriera letteraria

    Louise de Broglie era considerata liberale e schietta sia per l’epoca, sia per le circostanze della sua condizione sociale elevata. Nel 1858 ella pubblicò un saggio biografico esteso sul nazionalista irlandese Robert Emmet, nel 1861 una biografia su Maria Adelaide di Savoia (Souvenirs d’une demoiselle d’honneur de Mme la duchesse de Bourgogne) e nel 1870 una biografia su Margherita di Valois (Marguerite de Valois, reine de Navarre). Nel 1872 e nel 1874, ella pubblicò una biografia in due volumi su Lord Byron (La Jeunesse de Lord Byron and Les Dernières Années de Lord Byron: Les rives du Lac de Genève, l’Italie, la Grece), che trasse dalle osservazioni e le interazioni della nonna Madame de Staël con il poeta inglese. Nel 1875, pubblicò una biografia e una critica delle opere di Charles Augustin Sainte-Beuve (C.-A. Sainte-Beuve: sa vie et ses oeuvres).(fonte)

    [3] Prosper Brugière de Barante
    Nacque a Riom da una famiglia di nobiltà di toga, il 10 giugno 1782. Nominato da Napoleone I nel 1809 prefetto della Vandea, nel 1813 fu trasferito alla prefettura della Loira inferiore, carica in cui fu mantenuto dalla prima Restaurazione. Al ritorno di Napoleone dall’isola d’Elba, il B., che anche durante l’Impero aveva conservato relazioni con gli oppositori, si dimise. La seconda Restaurazione lo nominò consigliere di stato e segretario generale del Ministero degl’interni. Fece parte della minoranza della cosiddetta chambre introuvable e fu uno dei più attivi collaboratori del Decazes nella politica di resistenza alle violenze dell’estrema destra. Il 6 marzo 1819, Luigi XVIII lo nominò pari di Francia; e nella camera alta il B. si segnalò per una ferma e misurata opposizione ai ministeri di destra, specialmente alla politica ecclesiastica del Villèle. Vide pertanto con favore l’avvento della monarchia di luglio e nell’ottobre del 1830 ebbe dal re Luigi Filippo la nomina di ambasciatore a Torino. Ma qui egli dovette fronteggiare una situazione difficilissima, poiché non solo Carlo Felice, ma lo stesso suo successore Carlo Alberto conservavano tutte le loro simpatie per il ramo primogenito della casa di Francia e favorivano i tentativi d’insurrezione organizzati dalla duchessa di Berry. In Piemonte, il B. incoraggiò le aspirazioni dei liberali moderati, che accolse volentieri alla sede dell’ambasciata. Fra questi era il conte Camillo di Cavour. Nel 1835 fu trasferito a Pietroburgo, ove la corte imperiale era ancor meno incline di quella del re di Sardegna a riconoscere la casa d’Orléans, e tendeva a negare alla nuova monarchia francese la posizione alla quale essa credeva d’aver diritto fra le grandi potenze d’Europa. Il dissenso manifestatosi fra il gabinetto di Parigi e le altre grandi potenze nei negoziati per la mediazione tra il sultano di Turchia e il viceré d’Egitto ebbe inoltre una ripercussione assai grave a Pietroburgo. Il B. diede prova di grande abilità nell’attenuare la tensione fra il suo governo e quello russo.

    Rientrato nella vita privata dopo la rivoluziope del 1848, il B. si consacrò esclusivamente agli studî storici e letterarî: frutto massimo della sua operosità fu l’Histoire des ducs de Bourgogne, dal 1364 al 1483 (1ª ed., Parigi 1824-26, 8ª ed., 1858, in 12 voll.), la quale è uno dei prodotti tipici della storiografia romantica nella sua forma più facile e più superficiale. Narratore piacevole, assai letto ed apprezzato, il B. difettò tuttavia troppo del senso dei problemi storici perché la sua opera possa avere grande valore nella storia della storiografia. La famiglia del B. ha pubblicato poi i suoi carteggi e frammenti di sue memorie (Parigi 1890). Egli morì a Dorat nell’Alvernia il 21 novembre 1866.(fonte)

    [4] Pellegrino Rossi

    Nelle sue memorie Albert de Broglie (1821-1901), diplomatico, presidente del Consiglio e liberale francese, dice di aver avuto la fortuna, nella sua carriera, di osservare da vicino uomini eminenti come François-Pierre-Guillaume Guizot, Marie-Joseph-Louis-Adolphe Thiers, Charles de Montalembert, Frédéric-Alfred-Pierre de Falloux, e, al di fuori del suo Paese, William Ewart Gladstone e Benjamin Disraëli. Eppure, senza far torto a questi nomi illustri, nota come Pellegrino Rossi sia stato il solo ad avergli lasciato l’impressione di ciò che poteva essere un grande uomo, ovvero la perfetta combinazione di intelligenza e di volontà. Per tre volte Rossi ha infatti dovuto costruire il suo destino «partendo dal gradino più basso per arrivare alla sommità» (J.V.A. de Broglie, Mémoires du duc de Broglie, 1° vol., 1938, p. 118).

    La vita

    Pellegrino Luigi Edoardo Rossi nasce a Carrara, nei Ducati estensi, il 3 luglio 1787. Nel 1820 lo ritroviamo cittadino del cantone di Ginevra, nel 1834 diventa suddito francese, il 15 novembre 1848 viene assassinato a Roma mentre ricopre la carica di ministro del governo costituzionale del papa. Dentro queste coordinate europee si snodano le ῾vite᾿ di un italiano che ha saputo essere uno studioso polivalente e poligrafo, giurista di vaglia, economista, uomo politico, parlamentare e ministro, diplomatico.

    Proveniente da una famiglia di proprietari terrieri, studia dapprima al Collegio civico di Correggio, intraprende successivamente gli studi giuridici a Pisa (1803-04) e si laurea a Bologna (1806) dove, dal 1811, esercita l’avvocatura con ottimi risultati. Insegna istituzioni civili presso il liceo S. Lucia, poi tra il 1814 e l’aprile 1815 è professore di procedura civile e diritto e procedura penale nell’Alma Mater. Il 3 aprile 1815 viene nominato dal re di Napoli Gioacchino Murat commissario generale civile per il Dipartimento del Reno, Rubicone, Basso Po e Pineta.

    L’esito sfortunato della campagna murattiana spingerà Rossi prima a Napoli e poi verso la Francia meridionale e, infine, a Ginevra. La scelta di stabilirsi nella città-Stato non è casuale, poiché il giovane avvocato aveva già stretto relazioni con alcune famiglie ginevrine, dopo una visita compiuta nel 1813. Nel luglio del 1815 diffonde a Ginevra un’Autodifesa nella quale ricostruisce le fasi del suo coinvolgimento nell’impresa dell’ex generale napoleonico, volendo mostrare la sua assoluta buona fede e il carattere moderato delle sue idee politiche (Autodifesa. Risposta alle imputazioni diffuse contro di lui dopo la fuga da Bologna, scritta a Genthod in data del 14 luglio 1815, Ginevra, Bibliothèque Publique Universitaire, Gh 977 Réserve).

    A Ginevra Rossi non tarda a farsi apprezzare per il suo talento. Primo professore cattolico nell’Accademia di Calvino (1819), nel 1820 diventa citoyen e sposa Jeanne-Charlotte Melly. I suoi corsi universitari suscitano ammirazione e della sua oratoria efficace e lucida potrà ben presto dare saggio come deputato nel Consiglio rappresentativo della città. Diventa così una figura di primo piano della cultura giuridica e politica ginevrina. Inviato, come deputato del cantone di Ginevra, alla Dieta federale del 1832 e del 1833, è autore del Rapporto sul progetto di Atto federale del dicembre 1832. Incaricato di una missione diplomatica a Parigi, lascia infine Ginevra e la Svizzera nel 1833 per andare a risiedere nella capitale francese dove, nel frattempo, è stato chiamato al Collège de France per ricoprire la cattedra di economia politica.

    Sin dal periodo ginevrino Rossi ha modo di frequentare i ‘dottrinari’ francesi, da Guizot (1787-1874) a Victor de Broglie (1785-1870): il suo arrivo in Francia è legato essenzialmente al loro progetto ‘politico’. Altri onori seguiranno: primo titolare della cattedra di diritto costituzionale alla Sorbona (1834), membro dell’Institut (1836, succede a un grande ‘sopravvissuto’, Emmanuel-Joseph Sieyès), naturalizzato nel 1838, conte e pari di Francia (1839), consulente diplomatico, infine ambasciatore a Roma presso la Santa Sede (1845-1848). Dopo la Rivoluzione del 1848, destituito dal nuovo governo, ritorna ῾italiano᾿, suddito di Pio IX. Eletto deputato a Carrara, rifiuta il seggio per diventare nello Stato pontificio, dal 15 settembre, ministro dell’Interno con l’interim alle Finanze nel governo presieduto dal cardinale Giovanni Soglia. Rossi viene assassinato a Roma il 15 novembre 1848, mentre si accinge ad aprire la sessione parlamentare.

    Gli anni Venti a Ginevra: la scienza giuridica e lo studio del diritto

    Nei primi anni Venti comincia a emergere il Rossi giurista, specialmente attento alle questioni metodologiche che animavano in quel frangente la scienza giuridica europea. Quattro profili vanno subito esplicitati. Il primo è che il giurista avrà sempre come naturale terreno di elezione la frontiera politica-diritto, il punto di intersezione tra il giureconsulto espertissimo e brillante e il savant de la politique posto di fronte al governo della società. Il secondo è la costante fedeltà del giurista alla dottrina del liberalismo moderato e realista. Il terzo è che quasi tutte le opere giuridiche di Rossi nascono dall’insegnamento, dalla cattedra: così per i saggi metodologici dei primi anni Venti, per il corso di diritto penale, successivamente per quelli di economia politica e di diritto costituzionale. Il quarto profilo è che sa cogliere molto bene lo Zeitgeist, sa interpretare il ‘momento’.

    Lo dimostra fondando, con Simonde de Sismondi (1773-1842), Étienne Dumont (1759-1829), e l’avvocato Louis Meynier, le «Annales de législation et de jurisprudence». Rivista dalla vita breve (terminerà nel 1823) ma davvero europea. Le «Annales» diedero grande rilievo alla Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter di Friedrich Carl von Savigny, ma non mancarono commenti ai Traités de législation civile et pénale di Jeremy Bentham o interventi di Dumont e di Sismondi.

    Nei densissimi saggi su L’étude du droit e Sur les principes dirigeans, Rossi presenta e sviluppa quella che può essere considerata la più organica e lucida teoria del canone eclettico, alla ricerca di una difficile conciliazione tra lo storicismo romantico, la scuola filosofica o analitica e il pensiero liberal-moderato. La domanda è: quale metodo per fondare una vera giurisprudenza nazionale? La codification del legislatore postilluminista o una scienza fondata su una lingua del diritto, ricca, esatta, popolare? Rossi esclude ogni prospettiva giusnaturalistica che pretenda di ‘separare’ l’uomo dalla società. La risposta è legata alla divisa della rivista: «Nous cultivons la science; nous ne servons aucun parti».

    Occorre allora un metodo scientifico, razionale ma composito. Prese a sé stanti le singole scuole non vanno esenti da limiti ed eccessi, combinate assieme potranno invece offrire le risposte che servono. Il giurista italiano cerca di mostrare come sia possibile utilizzare al meglio, specie nell’insegnamento, la storia (non necessariamente nel senso della scuola storica ma à la manière de Montesquieu), il metodo esegetico combinato a quello dogmatico, l’analisi più che la sintesi, lo studio storico-dogmatico per cogliere i principi sino alle ultime radici e per comprendere le istituzioni e le leggi esistenti. Questi scritti sono collegati, come detto, ai primi corsi liberi che Rossi tiene nell’Accademia ginevrina dal 1819. Sono il diritto e la storia delle istituzioni di Roma a suscitare il suo interesse. È attraverso i corsi che Rossi fa conoscere meglio Savigny e Barthold Georg Niebuhr. E questa sua riflessione è destinata a trovare ascolto in Italia (Lacchè 2001, pp. 61-77; Lacchè 2010, pp. 153-228), in Germania (a cominciare dallo stesso Savigny), in Francia presso i ‘dottrinari’. In una lunga e preziosa lettera indirizzata a Savigny (Marburg, Universitätsbibliothek, Nachlaß Savigny, Ms. 925/1519, 27 sett. 1828), Rossi ci fornisce molte informazioni utili, a cominciare dalla sua intenzione di scrivere una storia del diritto romano.

    Per una scienza del diritto penale

    A questa idea non darà seguito, mentre sarà il suo Traité de droit pénal a conquistargli una fama europea. Ancora una volta è da notare il legame con la cattedra. Basta seguire i corsi universitari per cogliere l’evoluzione del suo pensiero, le linee di politica criminale, le proposte e le soluzioni tecniche. Dal 1819 al 1832 si succedono gli insegnamenti di diritto, legislazione penale e istruzione criminale. A Ginevra, professeur de droit romain, Rossi aveva avuto la possibilità di proseguire e perfezionare gli studi in un ambiente particolarmente favorevole. Se Rossi è, a ben vedere, il penalista di un solo libro, è anche vero che si tratta di un libro tra i più letti e meditati della penalistica ottocentesca, quale che sia il giudizio datone.

    Che cosa ne fa, dunque, un point de repère? Sono molti i profili da considerare. Anzitutto la dimensione ‘civile’ del penale (M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in Storia del diritto penale e della giustizia, 1° vol., 2009, pp. 495 e segg.) utile a fondare una teoria del governo. Questo ‘tipo’ di penalista ha una formazione complessa e sviluppa una scienza giuridica integrata capace di cogliere i rapporti tra le istituzioni politiche, il sistema punitivo e la società. Nella prefazione al Trattato, Rossi ricorda come nel mezzo dell’Europa più civilizzata esistono Stati che applicano ancora la tortura e difendono a spada tratta la procedura segreta. Bisogna allora estendere il grado di civilisation di cui, benché ancora insufficiente, si deve comunque essere fieri.

    L’intento dell’autore è di porre i ῾prolegomeni᾿ di un’opera che dovrà poi essere ulteriormente sviluppata. Rossi riprende un tema strategico, ovvero la necessità di partire dai principi (generali, fondamentali, dirigenti) da cui far derivare le leggi e la giustizia criminale. In un secondo tempo sarà possibile coglierne il dato applicativo, dai delitti speciali all’organizzazione giudiziaria alla procedura.

    La dimensione teoretica può suscitare diffidenza, ma non si possono ignorare i principi generali se si vuole costruire una scienza. Il Trattato presenta una struttura sobria, netta: dopo l’introduzione sul sistema penale, il primo libro ne analizza le basi, ovvero il diritto di punire, il secondo tratta del delitto, il terzo il problema della pena in generale, il quarto e ultimo la legge penale. Rossi rimane fedele all’impostazione ῾eclettica᾿ che aveva esposto nei primi anni Venti. Ritroviamo la sua vocazione naturale alla mediazione scientifica, in grado di considerare, discutere e ῾personalizzare᾿ un fronte variegato di proposte: il progetto beccariano, l’utilitarismo benthamiano, la filosofia kantiana, lo storicismo savignyano. Rossi non può non subire la ῾pressione᾿ della scuola di Bentham così ben rappresentata nella Ginevra dei liberali anglofili. Non può non sentirsi la presenza culturale e politica di Dumont traduttore e massimo divulgatore di Bentham in Europa.

    L’opera di Rossi non ha un carattere ῾nazionale᾿, non consiste in un commento esegetico a un qualche codice o a una determinata legislazione. Il suo piano sta a un livello ῾superiore᾿, ma egli è tutto meno che un teorico avulso dai contesti, a cominciare da quello ginevrino. E qui Dumont è il ῾legislatore᾿ penale par excellence, a lui si devono i progetti degli anni Venti per riformare l’architettura del sistema penale. Proprio negli anni in cui scrive il Traité, Rossi entra a far parte della Commissione che, di fatto, dal 1817, stava portando avanti il lavoro riformatore sulla base degli input di Dumont. Rossi dunque è parte integrante di questo processo riformatore che negli anni Trenta e Quaranta raggiungerà risultati significativi.

    Egli fonda quindi un’articolata politica criminale intesa come scienza e come arte volta a incivilire il penale e con esso la società. La codificazione del ῾tutto᾿ è rischiosa, è sinonimo di rigidità, ed è pertanto preferibile la via delle leggi parziali, successive e integrate. La sua idea dei principi lascia al giudice uno spazio che gli illuministi e i rivoluzionari avevano inteso ridurre fortemente. Il legislatore, a sua volta, deve essere guidato dalle scienze ausiliarie, dalla storia, dalle statistiche giudiziarie.

    Il Traité era nato anche dal rapporto di Rossi con i dottrinari. La dedica all’amico Victor de Broglie lo testimonia. Tra gli editori francesi troviamo quel Mesnier che pubblicava la Revue française di Guizot. Ed è Charles de Remusat a recensire sulla stessa rivista (novembre 1829, pp. 119-35) il Trattato ricollegandolo alla filosofia ῾spiritualista᾿. «Nous le regardons comme le livre le plus original et le plus vrai qui nous soit connu sur la matière». Ma ciò che i dottrinari apprezzano viene invece discusso in negativo da altri. Si pensi alle dure critiche coeve di un criminalista illustre come Giovanni Carmignani (1768-1847) o del giovane e ῾sfrontato᾿ Francesco Forti che, nell’Antologia del Vieusseux (aprile 1830, 37° vol., pp. 25-59, 38° vol., pp. 4-19), respingeva, in nome della «verità delle cose», sia l’idea, cara a Rossi, di un penale ῾politico᾿, sia la dimensione ῾spiritualista᾿ che rinviava al «senso comune» e alla «coscienza del genere umano», confondendo morale e giustizia.

    Rossi in Francia: il diritto costituzionale e la politica

    Quando nel 1833 Rossi lascia Ginevra per Parigi si porta dietro il ῾fallimento᾿ del cosiddetto Patto Rossi, ovvero del progetto di riforma ῾federale᾿ della Confederazione elvetica intrapresa nel 1832. In quel frangente Rossi si conquista una forte visibilità, tanto da far associare il suo nome al progetto di Atto federale. In virtù di questa esperienza nel 1833 viene inviato a Parigi dal governo confederale al fine di negoziare il ritorno in Francia di un gruppo di esuli polacchi che avevano ῾invaso᾿ il cantone di Berna. Rossi si trova a discuterne con un vecchio amico, il duca Victor de Broglie divenuto ministro degli esteri di Luigi Filippo. Ora i dottrinari sono al potere e l’antico sodalizio si rinsalda. Giunge così l’offerta di candidarsi al Collège de France sulla cattedra di economia politica resa vacante dalla morte di Jean-Baptiste Say.

    Rossi ha lasciato la Svizzera inseguito da un carico di illazioni e di critiche, le stesse che lo accolgono in Francia, tanto è rapida la sua ascesa. Ciò che cambia è il contesto, dalle repubbliche alla grande monarchia. Rossi non si troverà però a fare cose nuove e diverse rispetto agli anni passati in Svizzera, sono invece le coordinate e i paradigmi concettuali che mutano. Nel 1834 Guizot, ministro dell’Istruzione, gli affida la cattedra di diritto costituzionale istituita, per la prima volta, alla Sorbona. Questa cattedra nasceva in un clima ῾militante᾿. Si legge nel Rapport au Roi di Guizot:

    L’oggetto e la forma dell’insegnamento del diritto costituzionale sono determinati dal suo stesso titolo; è l’esposizione della Carta e delle garanzie individuali così come delle istituzioni politiche che essa consacra […] Un tale insegnamento, al contempo vasto e puntuale, fondato sul diritto pubblico nazionale e sulla lezione della storia, suscettibile di ampliarsi per mezzo di comparazioni e di analogie straniere, deve sostituire agli errori dell’ignoranza e alla temerarietà delle nozioni superficiali conoscenze forti e positive (Rapport au Roi sul la création d’une chaire de droit constitutionnel, 22 agosto 1834).

    Ancora una volta le opere di Rossi sono strettamente legate alla cattedra. Ciò vale tanto per il Cours d’économie politique che per il Cours de droit constitutionnel. Rossi, già durante gli anni Venti, aveva affrontanto il problema del metodo e della funzione del diritto pubblico, con specifico riferimento al dato costituzionale. D’altra parte, non bisogna neppure dimenticare che il ῾diritto costituzionale᾿ nei primi anni Trenta dell’Ottocento compie i suoi primi passi; si tenta di ricollocare i principi ῾forti᾿ del diritto pubblico postrivoluzionario nell’alveo della cultura e della prassi del liberalismo politico.

    Rossi non solo è il primo a insegnare nella capitale francese il diritto costituzionale, ma è soprattutto tra i primi a dover elaborare e sistemare un insieme eterogeneo di materiali, di fonti, di principi. Storia, filosofia, diritto positivo e pensiero politico si intrecciano fra di loro, non sempre integrandosi armonicamente, ma rivelando tuttavia ancora una volta la particolare accentuazione politica e sociale che l’autore assegna a un diritto in via di consolidamento e concepito lato sensu come ambito istituzionale del diritto pubblico interno diretto a regolare l’organizzazione complessiva dello Stato e delle sue articolazioni.

    Rossi aveva la possibilità – come del resto Guizot suggeriva – di ricomporre quel grande insieme di dottrine, di prassi e di tradizioni costituzionali (a cominciare da quella più o meno mitologica legata allo speciale esperimento britannico) che, ῾reificate᾿ dopo il 1814, potevano riconoscersi nella Charte e nelle sue istituzioni politiche di ispirazione liberale. Non ha torto Émile Boutmy quando dice che per lungo tempo «il libro di Rossi è all’incirca la sola opera di diritto costituzionale che abbia il carattere di un traité» (Etudes de droit constitutionnel. France, Angleterre, Etats-Unis, Paris 1885, p. 85). Nel corso rossiano sembra possibile leggere almeno due ῾livelli᾿: l’uno programmatico ed enfatizzato, di evidente matrice orleanista, e forse meno originale; l’altro più ῾nascosto᾿ e più autonomo rispetto all’architettura politico-ideologica della trattazione.

    D’altra parte, è sufficiente andare oltre lo schermo ῾dottrinario᾿ che definisce i confini del corso, per ritrovare un’autonomia e una nettezza di giudizio cui l’ipoteca ideologica non fa certo velo. Le lezioni che delineano l’organizzazione del potere politico, nel quadro di una monarchia rappresentativa, non si limitano certo a un mero tratteggio esegetico della Charte: le pagine sulle prerogative dei deputati, sul bicameralismo, sugli istituti parlamentari, sull’autonomia e sull’indipendenza della magistratura rivelano giudizi e idee che si collegano alle più importanti tradizioni del liberalismo politico. I diversi profili storici e comparativi, con continui riferimenti all’Inghilterra, agli Stati Uniti e alla Svizzera, rivelano una rara capacità di costruzione razionale e un vasto respiro culturale. Metodo storico e metodo razionale-sistematico si completano e si integrano a vicenda per ricercare, alla fine, il senso complessivo di un’esperienza: «Saisir les principes, leur portée et leurs points d’intersection avec exactitude, c’est là le secret, c’est la science en toutes choses» (P. Rossi, Cours de droit constitutionnel, 2° vol., 1867, p. 7).

    Lo Stato è per Rossi «une loi naturelle de l’humanité», mezzo essenziale di sviluppo e di perfezionamento. Il «liberalisme par l’État» è punto essenziale della concezione rossiana che è fondamentalmente anticontrattualista e anti-individualista. Lo Stato ha una funzione dinamica, concettualmente ῾forte᾿: non ridistribuisce arbitrariamente, ma apre «une large carrière d’activité à l’homme», protegge i suoi sforzi, senza per questo escludere la possibilità di interventi ῾promozionali᾿ dove l’eguaglianza civile è animata dal sentimento di fraternità (Cours de droit constitutionnel, 1° vol., 1866, p. 256).

    Prendendo in considerazione la teoria del potere neutro di Benjamin Constant, Rossi rivela la piena consapevolezza del ruolo complesso e fondamentale della corona nella logica della monarchia costituzionale. Il potere regio, garante dell’intersezione tra eguaglianza civile e unità nazionale, non essendo estraneo ad alcuno dei tre poteri dello Stato è lo strumento indispensabile per dare equilibrio e unità al sistema politico. Rossi mostra qui di aver ben compreso la lezione di Constant sull’equilibrio dei poteri, ovvero sul problema teorico e pratico più importante nella riflessione costituzionalistica lungo tutto l’Ottocento. I poteri, indipendenti, distinti, non vivono né agiscono isolatamente, ma sono tenuti insieme dal monarca che modera e conserva, garantendo un’azione e un controllo reciproco.

    Non va dimenticato che il corso costituzionale di Rossi raccoglie 105 lezioni stenografate da un allievo, un’opera quindi che l’autore non ha potuto revisionare. È però un’opera influente che contribuì a consolidare la cultura costituzionale di stampo liberale, al di là dei profili esegetici e della dimensione contingente (la Charte del 1830 e la monarchia orleanista).

    Nel 1836 Rossi presentò all’Accademia delle scienze morali e politiche una memoria nella quale mostrava, come sempre, l’innata capacità di leggere il ῾momento᾿, in questo caso il problema dell’invecchiamento del code civil napoleonico rispetto a un ῾diritto dell’economia᾿ che si era sviluppato al di fuori del ῾monumento᾿ legislativo. Bisognava ora, attraverso la legislazione speciale, ristabilire l’armonia tra il diritto civile del codice e la dimensione economica della ricchezza mobiliare (Lacchè 1995, pp. 282-89).

    Nel 1838 il giovane Cavour, frequentatore della capitale francese, aveva visto in Rossi un grande italiano che avrebbe potuto giocare un ruolo immenso nei destini del suo Paese natale. Invece, «L’homme le plus spirituel de l’Italie, le génie le plus flexible de l’époque, l’esprit le plus pratique de l’univers, peut-être» (Lettere edite e inedite di Camillo Cavour, raccolte e illustrate da L. Chiala, 1° vol., 1883, p. 14) aveva privilegiato le proprie ambizioni. Quel ruolo appartenne, come sappiamo, a Cavour e non a Rossi. Il giurista italiano salì con coraggio le scale del Palazzo della Cancelleria apostolica andando incontro alla morte per mano dei radicali romani, nell’impresa disperata di ῾costituzionalizzare᾿ lo Stato del papa-re.(fonte)